L’alfabeto dei trampolieri

Il Racconto racconta che il più antico alfabeto greco era fatto di cinque vocali e due sole consonanti (B e T), e che a inventarlo fossero state le Moire, che poi Palamede, figlio di Nauplio, avesse aggiunto altre undici consonanti e che, infine, Ermes avesse «tradotto» i loro suoni in segni: che avesse cioè insegnato a scriverli.
Di Palamede si narra che avesse attinto i suoni delle nuove «lettere» dal canto stridulo delle gru, e che sul suo esempio Ermes ne avesse poi escogitato le forme «scritte», imitando i «cunei» che gli sciami di gru disegnano in volo – donde i tratti cuneiformi che il dio diede alla grafia del suo «moderno» alfabeto.

sciame-trampolieri
D’accordo, non si tratta che di notizie leggendarie: perciò non è il caso di affrettarsi a trarne chissà quale conclusione.
E tuttavia – leggenda per leggenda – tanto vale tirare in ballo anche quel che tramanda Igino nelle Favole, e cioè che, al tempo in cui Set/Tifone dall’Egitto «migrò» in Grecia e ne invase il pantheon, gli dèi in fuga «si travestirono» di sembianze animali: «Mercurio come ibis, Apollo come gru e Diana come gatta»!
C’è da credere che dovettero farlo, per sopravvivere alla «prepotenza» dell’invasore «linguistico». Il repertorio simbolico affidato ai geroglifici aveva infatti radici millenarie. Vi erano serbate le reliquie di sapienze troppo antiche perché un popolo «giovane» come quello greco, l’ultimo arrivato sulla scena del Mediterraneo, ne avesse contezza (cfr. ciò che i sacerdoti egizi dicono a Solone all’inizio del Crizia di Platone).
L’Olimpo greco, insomma, rischiava di rimanere schiacciato sotto il peso della religione egizia. Se questo non avvenne, dice Igino, è perché gli dèi greci furono capaci di metamorfosi: capaci cioè di prendere su di sé gli attributi «animali» dei loro concorrenti «esteri».
Ermes «divenne» ibis, assumendo così i tratti del dio egizio Thot, al pari di cui poteva ora vantarsi di saper parlare anche lui la «lingua degli uccelli», la lingua d’una volta, la lingua arcaica da cui avrebbe tratto pure lui l’alfabeto, e con l’alfabeto la scrittura.

Fin qui la «favola» che Igino ci propina, può anche avere un senso. Ma quando poi si tratta di decifrare la metamorfosi di Apollo in gru o quella, ancora più enigmatica, di Artemide/Diana in una gatta, non è altrettanto facile dedurne qualcosa di sensato.
Igino però, a sua insaputa, ci dà un appiglio per non mollare. Ce lo dà là dove dice che «Apollo aggiunse sulla cetra altre lettere» a quelle già in adozione nell’alfabeto ermetico. Il che tradotto in parole povere vuol dire che a un trampoliere (ibis) un altro trampoliere (gru) succede in qualità di «enunciatore» di suoni dell’alfabeto.

Il secondo appiglio ce lo dà la lingua greca: infatti, il nome greco della gru (γέρανος) viene dalla radice indoeuropea *ger (= gridare). La gru è dunque, per il greco antico, l’uccello «che stride» per antonomasia.
Non è un dettaglio di poco conto. È semmai il frammento di un’antica tassonomia faunistica sconosciuta ai moderni «naturalisti», d’un criterio d’ordine chissà quanto arcaico, avvezzo a classificare gli animali, non in base alla «specie», ma al «timbro vocale».
Anche nei miti sudamericani, come ebbe a osservare Lévi-Strauss, la gru ha il «rango simbolico» che si confà alle note stridule dei suoi versi: note assai difficili da «addomesticare» a una melodia – difficili finanche da chiamare «note», trattandosi di suoni al limite del «rumore». Di suoni che a stento si reggono sui «trampoli» di cui Madre Natura li ha dotati. Di suoni (come il corpo della gru) gonfi e rotondi in alto, quanto smilzi e sottili in basso.

È dunque per questa «via acustica» che la gru entra nel novero degli «ideogrammi» amazzonici. All’incirca come, nei dialetti greci, la gru prende nome dal suo stesso «grido»!
Strano, che dite?
La gru, si racconta, «produce» sì il fuoco, ma lo fa «rumorosamente». Lo fa «scoreggiandolo». Lo «caca» a colpi di petardi.
Insomma, il timbro della sua voce riproduce la percussione delle pietre l’una contro l’altra per accendere il fuoco!

Tutto qua!
Abbiamo giocato al gioco delle leggende. Ci abbiamo capito poco o niente. Abbiamo però imparato a leggere certe «voci» del mondo. E senza accorgercene, siamo scivolati pure noi nelle pieghe di un remoto (nonché rimosso) abbecedario.
Chissà perché ce lo teniamo stretto, invece di fargli fare la fine che gli fa fare Pinocchio.
Scusate la ridondanza – cerco solo d’indurre le mie parole a un passo di danza. Scusate, ma è il gioco stesso che me lo chiede.
E sapete perché?

Perché nel teatro greco i danzatori erano detti «gru». E questa, dovete sapere, non è una leggenda, ma un fatto che tutti sanno. E sanno pure che il «direttore della danza» era detto geranoulkós (γερανουλκός), ovvero: il capofila dello sciame di gru, la gru di testa, la Guida delle Ballerine Celesti. Di quelle certe Sonnambule – qualcuno le chiama Muse – che discesero in illo tempore dalle nuvole, la loro Fata Turchina. Scusatemi la franchezza, ma non conosco altro nome con cui richiamarla in vita.

scaccianox
Il Racconto racconta che Lei vive lassù in cielo – che lassù è casa sua, ma che per amore di un burattino ha «allungato» le sue gambe fin quaggiù, fino a toccare terra.
Lei, Nostra Signora della Pioggia, ha abdicato alla sua vocazione. L’ha fatto, c’è da scommettere, sempre per amore e sempre dello stesso burattino. L’ha fatto per farlo diventare uomo. Per fare di un pezzo di legno nientemeno un uomo!
E perciò gli ha sussurrato all’orecchio: danza!
Danza, mio devoto, sui trampoli più striduli della tua voce! E io ti porterò, non più la pioggia, ma il fuoco.
Che t’importa, se ho la vocazione allo stridore? Non senti, dimmi: non senti anche tu le alte, le più sublimi, «lettere» che Apollo in sembianze di gru aggiunse all’alfabeto di Ermes?