Marcellino pane e vino

marcellino-pane-e-vino

Heidegger dice che il dolore è spezzamento, che il dolore taglia ogni altro flusso di emozioni per imporgli il suo vestito a lutto, che il dolore è sempre un addio, un taglio netto, alle emozioni che pietrifica.
Ma la domanda è: questo spezzare, tagliare, incidere e recidere è solo ed esclusivo del dolore? o anche della paura, dell’ira, del desiderio e, insomma, chi più chi meno, di tutte le emozioni? nel qual caso, cosa dobbiamo pensare? che tutte le emozioni, tutte le nostre innervazioni nervose e sensazioni e impressioni, non fanno altro che tagliarsi a vicenda? nient’altro che impastarsi l’una nei colori dell’altra? sicché ognuna è sempre un … sia … sia …: sempre un ti amo e ti odio? sempre un divenire dolente-gioioso?

Ma se è così, allora perché accordare al dolore il privilegio di pietrificare la Soglia? o, come si dice volgarmente, di mettere una pietra sul Passato? il dolore ha forse un potere che le altre emozioni non hanno? il potere, che per l’appunto Heidegger gli attribuisce, di introdurci nel Reame dei Nomi? il potere di stimolare in noi un divenire-poeta, musico, cantore o artista in genere? ma perché proprio e solo il dolore? Che dici? Heidegger non ci angelo-doloreavrà pensato abbastanza, prima di lanciarsi in una simile affermazione?

Basta voltare l’angolo, e da Heidegger volgere lo sguardo su Nietzsche. Ed eccolo là. Anche Nietzsche lo dice: è il dolore, la crudeltà che come una scure ci taglia e ci dimezza, e così fa di noi degli esseri nuovi, delle macchine trascendentali: degli «animali che ricordano». Un dolore non si scorda! L’addio, lo strappo, all’altra «metà» di noi stessi (ahi, Apollo, perché obbedisti all’ordine di Zeus?), l’addio al «rimosso» non si cancella. Il dolore resta. Le altre emozioni vanno e vengono, ma poi alla fine resta il dolore, e resta sempre e soltanto in attesa d’essere rimosso e spostato su un miracoloso «sostituto».

Dal canto suo, Freud dice che ci sono, tutto sommato, solo due generi di «miracolo»: al posto vuoto del rimosso può apparire un nome o una cosa. Quel vuoto, si può riempire di una parola o di un oggetto: miracolo della metafora, miracolo della metonimia. Nel primo caso (il caso schizofrenico), in luogo del rimosso ci si contenta (si fa per dire) di «pane e vino» … ahi, Marcellino, Marcellino! Ci si imbarca su una stessa parola (addio), ed ecco il rimosso si propaga di dolore in dolore, come un’eco che testarda si diffonde «tra leoni e rocce, / tra alberi e uccelli». È sempre la canzone di Orfeo che si ripete, finché Orfeo non si spezza nel flusso ideale infinito di dolore di tutti i poeti a venire, di tutti i musici che il vuoto del loro rimosso lo riempiranno di folli armonie, post-pitagoriche e non. Gli artisti non sono forse schizofrenici?

Nel secondo caso invece (il caso ossessivo, il caso nevrotico) la buonanima di Freud riconobbe un altro tipo di «sostituzione» o di riempimento della casella vuota. Il nevrotico, dice, si fissa su una cosa, non importa il suo nome. La cosa si può chiamare in qualunque modo, non importa. Ciò che conta è che essa si offra al nevrotico come oggetto vicario del rimosso. Il nevrotico ne ha bisogno per non precipitare nel vuoto.

Namib-albero-dark

Inutile dire che il rimosso non è né un nome né una cosa: il rimosso è l’altro mondo, anzi il non-mondo delle nostre emozioni randagie, di quelle fantasie che «erranti per oscuri sentieri» non giungono a nessuna meta, a nessun nome e a nessuna cosa, ma si disperdono in quella che Nietzsche chiama la nostra «dimenticanza attiva», la dimenticanza che ancora saremmo capaci di dimenticare se non ci fossimo imbattuti nel dolore e buttati a capofitto nella trascendenza dei nomi e delle cose.

La Soglia che il dolore pietrifica, il taglio che solo il dolore infligge a ogni flusso emotivo e/o nervoso, è dunque tra dimenticanza e memoria, tra Lete e alêthé. Questo dicono, ciascuno a modo suo, Nietzsche e Heidegger. Dicono che non ora, non questo dolore qui, ma il dolore che patirono le nostre emozioni quando ancora erano sprovvedute e smemorate, fu quel dolore che ebbe il privilegio esclusivo di spingerci sulla via del «divenire-umano». Dicono che ogni dolore umano non è che un richiamo a sé di quel dolore là. Una memoria emotiva, non di cosa né di parola.

La Soglia, dice a sua volta Freud, è tra il rimosso da una parte (quella oscura), e i nomi e le soglia-ermafroditacose da quest’altra (dove le emozioni si lasciano illuminare ora dall’uno, ora dall’altro miracolo: estendendosi e confondendosi qua con le cose e là coi nomi). La Soglia fa la differenza, la Soglia è la differenza tra Orfeo e le Menadi. Ma soprattutto, ci fa notare Heidegger, è la Matrice (traduco) sia di Orfeo che di Dioniso. Del poeta, non meno che del folle. Dell’intimo e del familiare, non meno che dello straniero, del barbaro e del lontano.

Oh, no, non è così intricata la questione. Nessuno è poi di fatto solo nevrotico o solo schizofrenico. Le nostre nevrosi s’impastano nelle nostre più o meno poetiche schizofrenie. Le nostre ossessioni (aut-aut) si tingono dei colori dei nostri voli pindarici (sia … sia …), e viceversa. Viaggiamo sulle parole, ma insieme vogliamo, eccome se le vogliamo, le cose. Ma, si tratti di parole e/o di cose, in fondo, ardentemente non vogliamo che riempire quel buco.

No, non è una vagina, né una bocca, né un ano. E non è né desiderio, né amore, né perversione. È che non è. È che è stato. È stato ed è dolore. E questo dolore ci domanda d’essere sedato. Ce lo comanda. Questo dolore che ci può imbarbarire, che ci può incrudelire e pervertire – come ha già fatto in milioni e milioni di nevrotici credenti nell’«essere dell’ente» –, questo stesso dolore ci può anche addolcire, e può perfino giungere a poetarci in bocca. Sì, questo stesso dolore, direbbe Rilke, può fare il miracolo di risuscitare nelle nostre emozioni l’«orfismo» di cui furono capaci sulla Soglia, di cui – anzi – dovettero essere capaci per passare la Soglia. Può fare loro la «grazia», dice a sua volta Trakl, di accasarsi nei nomi delle cose, di accogliere cioè l’invito del linguaggio a giocare col rimosso al gioco del suo stesso parlare felino, barbaro, inconscio – l’invito cioè alla Metafora: a prendere un suono del proprio grido di dolore e su di esso viaggiare alla volta della Casa dei Canti.

Non è questo il viaggio di Orfeo? Ho capito male, o non è pure Dante in cammino, da qui al Paradiso, sulle ali del nome dell’Amata? Euridice: Orfeo è affascinato dalla vastità che il suono di quel santo nome gli schiude, dalla possibilità che quel nome gli dà di avventurarsi Pellerano-amore-celestesulle tracce del Fantasma fin nella più remota lontananza, addirittura all’altro mondo, nel non-mondo pietrificato dall’addio – Euridice è morta, ma non è morta la «gioia» di suonare il suo nome sulla lira. Beatrice: anche Beatrice è morta, la cosa che a vederla era il miracolo, non è più, e tuttavia la «beatitudine» che il suo nome promette si estende per cento canti postumi all’addio, tanti quanti al poeta servono per scalare i cieli del Paradiso, fino a scoprire (finale di partita, direbbe Beckett) d’aver solo giocato con gli endecasillabi al gioco del suo «essere stato» un bambino che balbetta. D’aver solo pazziato alla pazzia di Totò: senza nulla a pretendere … che non fosse la pazziella dei nomi.

Che poeta è quel poeta che si prende sul serio? Davvero s’illude d’incantare qualcuno, se non si disincanta lui per primo dall’incantesimo dei nomi che lo miracolò sulla Soglia? Il rimosso non è una cosa, ma non è neanche un nome. Neanche il più santo dei nomi. Il rimosso è l’Altro di tutti i nomi, non solo di tutte le cose. Poeta, l’Altro è il tuo più intimo «essere-stato». Quello che fu prima di ogni addio. Perciò, ascolta il monito di Rilke, là dove dice: sii prima di ogni addio! a prendere la via del tuo «divenire-poeta» furono le emozioni dell’Altro, quelle che ancora non avevano detto addio a niente e a nessuno.

Quella lingua, «la lingua degli uccelli», adesso non la parla più nessuno di noi uomini, e l’Altro, nessuno di noi lo è più se non agli occhi dell’Altro. L’Altro, il Rimosso, l’Intimo – adesso lo vediamo fuori la finestra. Ora sono fiocchi e fiocchi di neve che cadono lenti, ora invece sei o sette lupi appollaiati su un albero di fronte al nostro letto. L’Altro, il nostro essere-stato, da fuori casa ci guarda, ci scruta: perché non sei più dei nostri? – ci rinfaccia. Che ci fai, al caldo, sotto le coperte? Che fai? Fingi di non sapere che né i nomi né le cose ti potranno mai coprire abbastanza? Non basteranno, no, a nasconderti che l’Altro là fuori, lo Straniero, il Selvatico, il Lontano non è che quell’intimità a te stesso che hai perduto, passando la Soglia. Il dolore che ti ha partorito i nomi e le cose, quel dolore là, madonna che dolore!, quello ti spinse a cercare rifugio in un io, a metterti di casa in un nome e una persona, e a contentarti di vedere in tavola «pane e vino» … ahi, Marcellino, Marcellino!