Deleuze-Guattari – Uno solo o molti lupi?

Lezione sgrammaticale numero uno. Il nome proprio del nostro sedicente artista è i pazzi. Il Rapiti-temponome proprio di Parmenide è le cavalle. Il nome proprio del poeta che ha scritto «Una sera d’inverno» è i viandanti per oscuri sentieri. Il nome proprio di Orfeo è le Menadi. Il nome proprio del più celebre paziente di Freud è i lupi.

C’è il nome che ci rende noti agli altri: è il nome di battesimo, il nome che risulta all’anagrafe, il nome estensivo con cui gli altri ci chiamano all’appello. Se lo si continua a chiamare «proprio», è solo nel senso che qualcuno si è «appropriato» del nostro corpo per imporcelo a nostra insaputa.
E poi c’è quest’altro nome, il nome con cui è al contrario l’Altro che si rende noto a noi: è il nome che riceviamo dalle nostre emozioni, dalle nostre intensità di corrente nervosa, e perciò lo chiamiamo nome intensivo. È il nome con cui la Vita ci battezza con l’acqua di fonte, l’acqua della nostra stessa libido. È il nome a piacere di quella molteplicità fra le tante, di quel branco, di quel clan, di quel gruppo, di quella banda errante, di quel flusso di desideri che influì sul nostro debutto nel mondo.

Ce n’est qu’un début. Questo, si diceva una volta, è solo l’inizio della rivolta. È solo la prima lezione di un’altra grammatica che ha bisogno d’insorgere contro i manuali scolastici, ha bisogno per prima cosa di sgrammaticare uno per uno gli strafalcioni che punto e a capo essi riportano. Solo la loro prima audace correzione. È solo l’inizio. Non la fine delle grammatiche, ma semmai il ritorno, il coraggioso ritorno, al loro principio rimosso. A quel singolare principio, al principio di ogni singola molecola di desiderio, certo, ma la cui singolarità (il cui principium individuationis, come lo chiamerebbe il Filosofo) è per estrazione o sottrazione da un plurale. Come a dire: il principio non egoistico del nostro «io». Il «concatenamento di macchine» che lo ha macchinato. Il molteplice noi, qualcosa come l’«arrivano i nostri!» dei vecchi film western, che dell’io è il suo principio rimosso. La sua rivolta. Il suo debutto. Il debutto della sua prima perplessità.

Che fare? assecondare la banda, lasciarsi andare a divenire viandante, lupo, cavalla, cammella, anonimo pazzo o poeta fedele al nome proprio, al nome con cui l’Altro ha chiamato all’appello le sue emozioni infantili? Ma in tutti i casi, quale muta, quale branco selvaggio o quale coro angelico potrà mai accoglierlo alla fine della strada?

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Quel giorno l’Uomo dei lupi scese dal divano particolarmente stanco. Sapeva che Freud aveva un genio, quello di rasentare la verità per poi sgusciare di lato, a colmare il vuoto con delle associazioni. Sapeva che Freud ignorava tutto dei lupi, come degli ani del resto. Freud comprendeva soltanto quel che è un cane, e la coda di un cane. Questo non era sufficiente, non sarebbe stato sufficiente. L’Uomo dei lupi sapeva che Freud l’avrebbe dichiarato ben presto guarito, ma che questo non era vero, e che avrebbe continuato a essere trattato per l’eternità da Ruth, da Lacan, da Leclaire. Insomma sapeva che stava acquistando un vero nome proprio, l’Uomo dei lupi, molto più proprio del suo, poiché accedeva alla più alta singolarità nell’apprensione istantanea di una molteplicità generica: i lupi – ma che questo nuovo, questo vero nome proprio sarebbe stato sfigurato, scritto male, ritrascritto in patronimico.

Freud, da parte sua, avrebbe tuttavia scritto presto delle pagine straordinarie. Pagine assolutamente pratiche, nell’articolo del 1915 sull’«Inconscio», concernente la differenza tra nevrosi e psicosi. Freud dice che un isterico o un ossessivo sono persone capaci di comparare globalmente un calzino a una vagina, una cicatrice alla castrazione, e così via. E che, probabilmente, nello stesso tempo, essi percepiscono l’oggetto come globale e come perduto. Ma cogliere eroticamente la pelle in quanto molteplicità di pori, di piccoli punti, di Dalì-rinoceronte-bronzopiccole cicatrici o di piccoli buchi, cogliere eroticamente il calzino in quanto molteplicità di maglie, ecco ciò che non verrebbe mai in mente al nevrotico, mentre lo psicotico ne è capace: «Crediamo che la molteplicità delle piccole cavità impedirebbe al nevrotico di utilizzarle come sostituti dell’organo genitale femminile» (Freud, Metapsicologia). Paragonare un calzino a una vagina può ancora andare, lo si fa tutti i giorni, ma per paragonare un puro insieme di maglie a un campo di vagine, bisogna essere proprio folli: è quello che dice Freud.

Qui c’è una scoperta clinica molto importante: da ciò tutta una differenza di stile tra nevrosi e psicosi. Per esempio, quando Salvador Dalí si sforza di riprodurre i deliri, può parlare a lungo del corno di rinoceronte; non esce comunque da un discorso nevropatico. Ma, quando si mette a paragonare la pelle d’oca a un campo di minuscoli corni di rinoceronte, si capisce subito che l’atmosfera cambia e si è entrati nella follia. Si tratta dunque ancora di un paragone? No, è semmai una pura molteplicità che cambia di elementi, che diviene. A livello micrologico, le piccole vescichette «divengono» corni e i corni piccoli peni.

Appena scoperta però la più grande arte dell’inconscio, quest’arte delle molteplicità molecolari, Freud non esita a ritornare alle unità molari, ritrovando i suoi temi familiari: il padre, il pene, la vagina, la castrazione, ecc. (vicinissimo a scoprire un rizoma, Freud continua a tornare a semplici radici). Il procedimento di riduzione è molto interessante nell’articolo del 1915: Freud dice che il nevrotico guida i suoi paragoni o identificazioni sulle rappresentazioni di cose, mentre lo psicotico ha solo la rappresentazione di parole (per esempio la parola buco): «A dettare la scelta del sostituto è stata l’identità dell’espressione verbale, non la similitudine degli oggetti». Così, quando non c’è unità di cosa, c’è almeno unità e identità di parola. Si noti che i nomi sono presi qui in un senso estensivo, cioè funzionano come nomi comuni che assicurano l’unificazione di un insieme che essi sussumono.

Arrivabene-randagi

Il nome proprio può essere solo un caso estremo di nome comune, che comprende in sé la sua propria molteplicità già addomesticata e la mette in rapporto a un essere o a un oggetto posto come unico. Ciò che è compromesso, sia dalla parte delle parole sia da quella delle cose, è il rapporto del nome proprio come intensità con la molteplicità che esso coglie istantaneamente. Per Freud, quando la cosa scoppia e perde la sua identità, la parola è ancora lì per riportargliela o per inventargliene una. Freud si affida alla parola per ristabilire un’unità che non è più nelle cose. Non si assiste forse alla nascita di un’avventura ulteriore, quella del Significante, l’istanza dispotica simulatrice che si sostituisce da sé ai nomi propri asignificanti, nella stessa maniera in cui sostituisce alle molteplicità la cupa unità di un oggetto dichiarato perduto?

Non siamo così lontani dai lupi. Perché l’Uomo dei lupi, è anche colui che, nel suo secondo episodio, quello detto psicotico, sorveglierà costantemente le variazioni, il percorso mutevole dei piccoli buchi o delle piccole cicatrici sulla pelle del suo naso. Ma nel primo episodio che Freud dichiara nevrotico, l’Uomo dei lupi racconta che ha sognato sei o sette lupi sopra un albero, e ne ha disegnati cinque. In effetti chi ignora che i lupi si muovono in muta? Nessuno, fuorché Freud. Ciò che qualunque bambino sa, Freud non lo sa. Con un Sanne-lupifalso scrupolo Freud si domanda: come spiegare che ci sono cinque, sei o sette lupi nel sogno? Poiché ha deciso che si trattava della nevrosi, Freud impiega dunque l’altro procedimento di riduzione: non sussunzione verbale a livello della rappresentazione di parola, ma associazione libera a livello delle rappresentazioni di cose. Il risultato è lo stesso, perché si tratta di ritornare all’unità, all’identità della persona o dell’oggetto supposto perduto. Ecco che i lupi si dovranno purgare della loro molteplicità. L’operazione si compie attraverso l’associazione del sogno con la favola Il lupo e i sette capretti (di cui soltanto sei furono mangiati).

Qui si assiste all’esaltazione riduttrice di Freud, si vede la molteplicità uscire letteralmente dai lupi per assumere la forma dei capretti che non hanno assolutamente nulla a che vedere con la storia. Sette lupi che non sono che capretti, sei lupi poiché il settimo capretto (lo stesso Uomo dei lupi) si nasconde nell’orologio, cinque lupi poiché è forse alle cinque che egli vide i suoi genitori fare all’amore e perché la cifra romana V è associata all’apertura erotica delle gambe femminili, tre lupi poiché forse i genitori fecero tre volte l’amore, due lupi poiché i due genitori erano more ferarum, o anche due cani che prima il bambino avrebbe visto accoppiarsi, e poi un lupo, perché il lupo è il padre, lo si sapeva fin dall’inizio, nessun lupo infine, poiché l’ultimo ha perduto la sua coda, non meno castrato che castratore. Di chi ci si burla? I lupi non avevano alcuna possibilità di uscirne, di salvare la loro muta: si è deciso fin dall’inizio che gli animali non potevano servire a rappresentare altro se non un coito tra genitori o, inversamente, a essere rappresentati da un tale coito. Evidentemente Freud ignora tutto della fascinazione esercitata dai lupi, di ciò che significa il muto richiamo dei lupi, l’appello a divenire-lupo. Dei lupi osservano e fissano il bambino che sogna; è talmente più rassicurante dirsi che il sogno ha prodotto un’inversione e che è il bambino a guardare dei cani o dei genitori mentre stanno facendo l’amore. Freud conosce solo il lupo o il cane edipizzato, il lupo-papà castrato-castratore, il cane a cuccia, il «Bau-bau» dello psicoanalista.

Franny ascolta una trasmissione sui lupi. Io le dico: vorresti essere un lupo? Risposta altera – è idiota, non si può essere un lupo, si è sempre otto o dieci lupi, sei o sette lupi. Non sei o sette lupi alla volta, solamente per sé, ma un lupo tra gli altri, con cinque o sei altri lupi. Quel che è importante nel divenire-lupo, è la posizione di massa, e anzitutto la posizione del Franny-fumasoggetto stesso rispetto alla muta, rispetto alla molteplicità-lupo, la maniera in cui vi entra o non vi entra, la distanza a cui resta, il modo in cui dipende o non dipende dalla molteplicità. Per attenuare la severità della sua risposta, Franny racconta un sogno: «C’è il deserto. Anche in questo caso non ci sarebbe alcun senso nel dire che io sono nel deserto. È una visione panoramica del deserto, questo deserto non è né tragico né inabitato, è deserto solo per il suo colore, ocra, e la sua luce, calda e senza ombra. Là dentro una folla formicolante, sciame di api, mischia di calciatori o gruppo di tuareg. Sono ai bordi di questa folla, alla periferia, ma vi appartengo, vi sono attaccata con una estremità del mio corpo, una mano o un piede. So che questa periferia è il solo luogo possibile, morirei se mi lasciassi trasportare al centro della mischia, ma di sicuro morirei anche se abbandonassi questa folla. La mia posizione non è facile da conservare, è anzi molto difficile da tenere, perché questi esseri si agitano senza sosta, i loro movimenti sono imprevedibili e non rispondono a nessun ritmo. Ora roteano, ora vanno verso Nord, poi bruscamente verso Est, nessuno degli individui che compongono la folla resta allo stesso posto rispetto agli altri. Sono dunque anch’io in perpetuo movimento; tutto questo esige una grande tensione, ma mi dà un sentimento di felicità violento, quasi vertiginoso» (J. D. Salinger, Franny e Zooey). È un sogno schizo molto buono. Essere interamente nella folla, e nello stesso tempo al di fuori del tutto, molto lontano: sui bordi, passeggiata alla Virginia Woolf («non dirò mai più: sono questo, sono quello»).

Problemi di popolamento nell’inconscio: tutto ciò che passa per i pori dello schizo, le vene del drogato, formicolii, brulichii, animazione, intensità, razze e tribù. È di Jean Ray, che ha saputo legare il terrore ai fenomeni di «micro molteplicità», il racconto in cui la pelle bianca si solleva con tante pustole e bolle e delle teste nere e nane passano attraverso i pori facendo boccacce, teste abominevoli che ogni mattina è necessario rasare col coltello. E anche le «allucinazioni lillipuziane» da etere. Uno, due, tre schizo: «Da ogni poro della pelle mi spuntano dei neonati». «Ohimè, non è nei pori, è nelle mie vene che nascono delle sbarrette di ferro». – «Non voglio che mi si facciano delle iniezioni, fuorché all’alcool canforato. Altrimenti mi crescono dei seni in ogni poro».

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Freud ha tentato di affrontare i fenomeni di folla dal punto di vista dell’inconscio, ma non ha visto bene, non vedeva che l’inconscio stesso era prima di tutto una folla. Era miope e sordo; prendeva le folle per una persona. Gli schizo, invece, hanno occhi acuti e orecchio. Non scambiano gli urti e i rumori della folla per la voce di papà. Una volta Jung sognò ossa e crani. Un osso, un cranio non esistono mai soli. L’ossario è una molteplicità. Ma Freud vuole che questo significhi la morte di qualcuno. «Jung, sorpreso, gli fece notare che c’erano più crani, non uno solo. Ma Freud continuava…» (E.A. Bennet, Ce que Jung a vraiment dit).

Una molteplicità di pori, di punti neri, di piccole cicatrici o di maglie. Di seni, di bebè e di sbarre. Una molteplicità di api, di calciatori o di tuareg. Una molteplicità di lupi, di sciacalli… Tutto questo non si lascia ridurre, ma ci rinvia a un certo statuto delle formazioni dell’inconscio. Cerchiamo di definire i fattori che intervengono qui: prima di tutto, qualcosa che svolge il ruolo di corpo pieno – corpo senza organi. È il deserto del sogno precedente. È l’albero spoglio dove i lupi sono appollaiati nel sogno dell’Uomo dei lupi. È la pelle come busta o anello, il calzino come superficie ribaltabile. Può essere una casa, una stanza di appartamento, tante cose ancora, qualsiasi cosa. Nessuno fa l’amore con amore, senza costituire da solo con l’altro o con gli altri un corpo senza organi. Un corpo senza organi non coppia-disegnoè un corpo vuoto o denudato d’organi, ma un corpo sul quale tutto ciò che serve da organo (lupi, occhi di lupi, mascelle di lupi?) si distribuisce secondo fenomeni di folla, seguendo movimenti browniani, sotto forma di molteplicità molecolari. Il deserto è popolato. Dunque esso si oppone non tanto agli organi quanto all’organizzazione degli organi, poiché questa comporrebbe un organismo. Il corpo senza organi non è un corpo morto, ma un corpo vivente, tanto vivente, tanto formicolante da aver fatto saltare l’organismo e la sua organizzazione. Dei pidocchi saltano sulla spiaggia. Le colonie della pelle. Il corpo pieno senza organi è un corpo popolato di molteplicità. E il problema dell’inconscio, senza dubbio non ha niente a che vedere con la generazione, ma con il popolamento, la popolazione. Un affare di popolazione mondiale sul corpo pieno della terra, non di generazione familiare organica. «Adoro inventare popolazioni, tribù, le origini di una razza… Io ritorno dalle mie tribù. Sono fino a oggi il figlio adottivo di quindici tribù, non una di più, non una di meno. E sono le tribù che io ho adottato, perché le amo, una ad una, di più e meglio che se ci fossi nato». Ci si dice: lo schizofrenico, comunque, non ha forse un padre e una madre? Abbiamo il rammarico di dover dire no, non ne ha in quanto tale. Ha solo un deserto e tribù che vi abitano, un corpo pieno e molteplicità che vi si aggrappano. […]

Queste molteplicità non hanno il principio della loro metrica in un ambiente omogeneo, ma altrove, nelle forze che agiscono in esse, nei fenomeni fisici che le occupano, precisamente nella libido: forze che le costituiscono dal di dentro e che non le costituiscono senza essere prima divise in flussi variabili e qualitativamente distinti. Freud stesso riconosce la molteplicità delle «correnti» libidinali che coesistono nell’Uomo dei lupi. Si resta tanto più stupefatti dalla maniera in cui tratta la molteplicità dell’inconscio. Perché, per lui, ci sarà sempre riduzione all’Uno: le piccole cicatrici, i piccoli buchi saranno le suddivisioni della grande cicatrice o del buco maggiore chiamato castrazione, i lupi saranno i sostituti di un unico, uno stesso Padre che si ritrova ovunque, tutte le volte che lo si decide (come dice Ruth Mack Brunswick, andiamo, i lupi son «tutti i padri e i dottori», ma l’Uomo dei lupi pensa: e il mio culo, non è un lupo?).

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Bisognava fare l’inverso, bisognava comprendere in intensità: il Lupo è la muta, cioè la molteplicità percepita come tale in un istante, per il suo avvicinamento e il suo allontanamento da zero – distanze ogni volta indecomponibili. Lo zero è il corpo senza organi dell’Uomo dei lupi. Se l’inconscio non conosce la negazione, è perché non c’è niente di negativo nell’inconscio, ma avvicinamenti e allontanamenti indefiniti dal punto zero, il quale non esprime assolutamente la mancanza, ma la positività del corpo pieno come supporto e sostegno (perché «un afflusso è necessario solo per significare l’assenza d’intensità»). I lupi designano un’intensità, una banda d’intensità, una soglia d’intensità sul corpo senza organi dell’Uomo dei lupi. […]

Il lupo come appercezione istantanea di una molteplicità non è un rappresentante, un sostituto, è un io sento. Sento che divento lupo, lupo tra i lupi, sui bordi dei lupi, e il grido d’angoscia, il solo che Freud intende: aiutatemi a non divenire lupo (o al contrario, a non fallire in questo divenire). Non si tratta affatto di rappresentazione, di credersi un lupo, di rappresentarsi come lupo. Il lupo, i lupi sono intensità, velocità, temperature, distanze variabili, indecomponibili. È tutto un formicolio, un lupolio. E chi può credere che la lupi-aggressivimacchina anale non abbia niente a che vedere con la macchina dei lupi o che entrambe siano collegate solo dall’apparato edipico, dalla figura troppo umana del Padre? Perché, insomma, anche l’ano esprime una intensità, qui per l’appunto l’avvicinarsi a zero della distanza che non si decompone senza che gli elementi cambino natura. Campo di ani, così come muta di lupi. Non è forse per l’ano che il bambino si attacca ai lupi, si tiene alla periferia? […]

Linee di fuga o di deterritorializzazione, divenire-lupo, divenire-inumano delle intensità deterritorializzate, ecco cos’è la molteplicità. Divenire lupo, divenire buco [aprirsi all’Aperto], è deterritorializzarsi, secondo linee distinte, intricate. Un buco non è più negativo di un lupo. La castrazione, la mancanza, il sostituto, sono storie raccontate da un idiota troppo cosciente, che non capisce nulla delle molteplicità come formazioni dell’inconscio. Un lupo, ma anche un buco, sono particelle dell’inconscio, nient’altro che particelle, produzioni di particelle, tragitti di particelle, in quanto elementi di molteplicità molecolari. Non è neppure sufficiente dire che le particelle intense e in movimento passano per dei buchi, un buco è una particella quanto ciò che vi passa. Alcuni fisici dicono: i buchi non sono assenze di particelle, ma particelle che vanno più veloci della luce. Ani volanti, vagine rapide, non c’è castrazione. […]

Su tutto questo, che cosa ha da dirci la psicoanalisi? Edipo, null’altro che Edipo, poiché essa non ascolta niente e nessuno. Essa schiaccia tutto, masse e mute, macchine molari e molecolari, molteplicità di ogni genere … No, la psicoanalisi non ha niente da dire – fuorché quello che diceva già Freud: che tutto questo rinvia ancora al papà […].

Noi invece diciamo: non c’è enunciato individuale, non ce n’è mai. Ogni enunciato è il prodotto di un concatenamento di macchine, cioè di agenti collettivi di enunciazione (per «agenti collettivi» non intendere popoli o società, ma molteplicità). E dunque, il nome proprio non designa un individuo: al contrario, è quando si apre alle molteplicità che lo Paolozzi-testa-meccanicatraversano da parte a parte, è all’uscita del più severo esercizio di spersonalizzazione che l’individuo acquista il suo vero nome proprio. Il nome proprio è l’appercezione istantanea di una molteplicità. Il nome proprio è il soggetto di un puro infinito compreso come tale in un campo di intensità. Del nome, Proust diceva: pronunciando Gilberte, avevo l’impressione di tenerla nuda tutta intera nella mia bocca. L’Uomo dei lupi, vero nome proprio, nome intimo che rinvia ai divenire, infiniti, intensità di un individuo spersonalizzato e moltiplicato.

Ma cosa comprende la psicoanalisi della moltiplicazione? Cosa dell’ora del deserto in cui il dromedario diventa mille dromedari, sghignazzando sotto il cielo, o dell’ora della sera in cui mille buchi si scavano sulla superficie della terra? Castrazione, castrazione, grida lo spauracchio psicoanalitico che ha sempre visto solo un buco, un padre, un cane là dove ci sono lupi, solo un individuo addomesticato là dove ci sono molteplicità selvagge. Non si rimprovera alla psicoanalisi unicamente d’aver selezionato i soli enunciati edipici. Perché questi enunciati, in una certa misura, fanno ancora parte di un concatenamento di macchine in rapporto al quale potrebbero servire come indici da correggere, per esempio in un calcolo di errori. Si rimprovera alla psicoanalisi di essersi servita dell’enunciazione edipica per far credere al paziente che avrebbe finito per formulare degli enunciati personali, individuali, che finalmente avrebbe potuto parlare a suo nome.

Sicché, tutto è deciso fin dall’inizio: l’uomo dei lupi non potrà mai parlare. Avrà un bel parlare dei lupi, gridare come un lupo, Freud non ascolta neppure, guarda il suo cane e risponde: «È papà». Finché questo funziona, Freud dice che è nevrosi e, quando non funziona più, che è psicosi. L’uomo dei lupi riceverà la medaglia psicoanalitica per servizi resi alla causa e persino la pensione alimentare che si dà agli anziani combattenti mutilati. Avrebbe potuto parlare a suo nome soltanto se si fosse messo in chiaro il concatenamento macchinico che produceva in lui tali o tal altri enunciati. Ma per la psicoanalisi non è questo il problema: nello stesso momento in cui si persuade il soggetto che pronunzierà i suoi enunciati più individuali, lo si priva di ogni condizione d’enunciazione. Far tacere la gente, impedirle di parlare e soprattutto, quando parla, fare come se non avesse niente da dire: famosa neutralità psicoanalitica.

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L’Uomo dei lupi continua a gridare: sei o sette lupi! Freud risponde: che? dei capretti? com’è interessante, io tolgo i capretti, resta un lupo, dunque è tuo padre… Ecco perché l’Uomo dei lupi si sente così stanco: rimane steso con tutti i suoi lupi nella gola e tutti i piccoli buchi sul naso, tutti questi valori libidinali sul suo corpo senza organi. La guerra sta per arrivare, i lupi stanno per diventare bolscevichi. L’Uomo resta soffocato da tutto quello che aveva da dire. Ci annunceranno soltanto che è ritornato ben educato, gentile, rassegnato, «onesto e scrupoloso», in breve, guarito. Lui si vendica ricordando che la psicoanalisi manca di una visione veramente zoologica: «Per un giovane niente può avere più valore dell’amore per la natura e la comprensione delle scienze naturali, in particolare della zoologia» (Lettera citata da Roland Jaccard, L’homme aux Loups).

(Deleuze-Guattari, Millepiani)