Freud – Il linguaggio dello schizofrenico

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Negli schizofrenici (soprattutto negli stadi iniziali della malattia, che sono così istruttivi) si osserva tutta una serie di mutamenti del linguaggio, alcuni dei quali meritano di essere considerati da un determinato punto di vista. Il modo di espressione diventa spesso oggetto di una cura particolare, diventa «ricercato», «affettato». Le proposizioni subiscono una particolare disorganizzazione strutturale che le rende incomprensibili al punto da farci ritenere prive di senso le asserzioni dei malati. Nel contenuto di questi modi di esprimersi emerge spesso in primo piano un rapporto con organi o innervazioni corporee. A ciò si può aggiungere il fatto che in quei sintomi della schizofrenia che possono essere paragonati con le formazioni sostitutive dell’isteria o della nevrosi ossessiva la relazione fra il sostituto e il rimosso rivela nondimeno delle proprietà che in queste due nevrosi ci sorprenderebbero.

Il dottor Victor Tausk (di Vienna) mi ha messo a disposizione alcune delle osservazioni da lui raccolte su un caso di schizofrenia incipiente, che hanno il seguente vantaggio: la stessa malata era disposta a fornire una spiegazione dei suoi discorsi. Ora io voglio mostrare, prendendo spunto da due esempi forniti da Tausk, quale concezione intendo sostenere; non Milani-schizofreniadubito peraltro che ogni osservatore potrebbe produrre materiale del genere, facilmente e in abbondanza.

Una paziente di Tausk, una ragazza che è stata portata in clinica dopo una lite col suo innamorato, si lamenta: «Gli occhi non sono giusti, sono storti». Spiega lei stessa questa frase, formulando una serie di rimproveri contro l’innamorato in linguaggio ordinato e coerente. «Lei non riesce assolutamente a capirlo, lui ogni volta ha un aspetto diverso, è un ipocrita, uno storci-occhi, le ha storto gli occhi, e ora lei ha gli occhi storti, non ha più i suoi occhi, ora vede il mondo con altri occhi».

Ciò che la malata dice a proposito della frase incomprensibile da lei stessa pronunciata ha il valore di un’analisi poiché contiene l’equivalente di quella frase in una forma universalmente comprensibile; nello stesso tempo getta luce sul significato e sulla genesi della formazione della parola schizofrenica. In accordo con Tausk, in questo esempio sottolineo come il rapporto con l’organo (l’occhio) si sia arrogato l’ufficio di rappresentare l’intero contenuto [del pensiero della paziente]. Qui il discorso schizofrenico ha un tratto ipocondriaco, è diventato «linguaggio d’organo».

Una seconda comunicazione della stessa malata: «È in chiesa, all’improvviso le danno uno spintone, deve cambiare posizione, come se qualcuno la mettesse in una certa posizione, come se fosse messa in una certa posizione». Segue l’analisi, rappresentata da una nuova serie di rimproveri contro l’innamorato, «che è ordinario, che ha reso ordinaria anche lei, che di natura era fine. L’ha resa simile a sé facendole credere di essere superiore a lei; ora lei è diventata come lui, perché credeva che sarebbe diventata migliore, se fosse diventata simile a lui. Egli si è messo in una falsa posizione, e ora lei è come lui (identificazione!), egli l’ha messa in una falsa posizione».

Barraco-schizofrenia

Il movimento fisico del «cambiare posizione», osserva Tausk, è un modo di raffigurare sia le parole «mettere in una falsa posizione», sia l’identificazione con l’innamorato. Sottolineo ancora una volta come l’intero processo ideativo sia dominato dall’elemento avente come contenuto un’innervazione corporea (o meglio la sensazione di essa). Del resto un’isterica nel primo caso avrebbe storto convulsamente gli occhi, nel secondo avrebbe davvero rappresentato la scena dello spintone, invece di avvertire l’impulso o la sensazione corrispondenti; e in entrambi i casi l’esecuzione dei gesti non sarebbe stata accompagnata da alcun pensiero cosciente, e neanche in seguito la malata sarebbe stata in grado di esprimere pensieri siffatti.

Fin qui queste due osservazioni testimoniano a favore di quello che abbiamo chiamato linguaggio ipocondriaco o linguaggio d’organo. Ma – ed è ciò che ci sembra più importante – esse ci rammentano anche un altro stato di cose che può essere facilmente testimoniato e condensato in una formula ben precisa. Nella schizofrenia le parole sono sottoposte allo stesso processo che trasforma i pensieri latenti del sogno in immagini oniriche, e che noi Duro-suicidio-animaabbiamo chiamato processo psichico primario. Esse vengono condensate e, in virtù dello spostamento, trasferiscono interamente i loro investimenti l’una sull’altra; il processo può spingersi fino al punto che un’unica parola, a ciò predisposta dalla molteplicità delle sue relazioni, si assuma la rappresentanza di un’intera catena di pensieri.

I lavori di Bleuler, di Jung e dei loro allievi hanno prodotto un abbondante materiale a sostegno di questa affermazione. Ma prima di trarre una conclusione da tali impressioni, vogliamo ancora riflettere sulle distinzioni che sussistono fra la formazione dei sostituti nella schizofrenia da un lato, e nell’isteria e nella nevrosi ossessiva dall’altro: si tratta di distinzioni sottili, che tuttavia suscitano una strana impressione.

Un paziente che sto attualmente osservando si lascia distogliere da ogni interesse vitale a causa delle cattive condizioni della sua pelle. Egli afferma di avere sul viso brufoli e profondi buchi che tutti guardano. L’analisi dimostra che egli sfoga sulla sua pelle il proprio complesso di evirazione. In un primo tempo egli si occupava senza rimorsi dei suoi brufoli, spremere i quali gli procurava una grande soddisfazione perché, come dice lui, ne schizzava fuori qualcosa. Poi cominciò a credere che dappertutto dove aveva schiacciato un brufolo si fosse formato un foro profondo, e si rivolgeva i più aspri rimproveri per aver rovinato per sempre la sua pelle con quel «continuo trafficare con la mano». È evidente che per lui spremere i brufoli è un sostituto dell’onanismo. Il buco che ne deriva per sua colpa è il genitale femminile, e cioè l’avverarsi della minaccia di evirazione (o della fantasia che di essa fa le veci) provocata dall’onanismo. Nonostante il suo carattere ipocondriaco, questa formazione sostitutiva presenta una notevole analogia con una conversione isterica; tuttavia abbiamo la sensazione che si tratti di qualcosa di diverso, che una formazione sostitutiva come questa non possa essere attribuita all’isteria, ancora prima di poter dire in che cosa consiste la differenza. Difficilmente un isterico prenderà un buchetto piccolo come un poro cutaneo quale simbolo della vagina, che peraltro egli usa confrontare con tutti i infanzia-schizofrenicapossibili oggetti che includono una cavità. Inoltre pensiamo che la molteplicità di questi forellini lo tratterrebbe dall’usarli come sostituti del genitale femminile.

Analogo è il caso di un giovane paziente di cui qualche anno fa Tausk ha parlato alla Società psicoanalitica di Vienna. Egli si comportava di norma esattamente come un nevrotico ossessivo, impiegava ore intere per la sua toilette, e così via. Ma colpiva, in lui, il fatto che potesse comunicare, senza opporre alcuna resistenza, il significato delle proprie inibizioni. Per esempio, quando si infilava le calze, lo disturbava l’idea di dover disfare le maglie del tessuto, ossia [l’idea di fare] dei buchi: per lui ogni buco era un simbolo dell’apertura del sesso femminile. Anche questo è un sintomo che non rientra nel quadro di una nevrosi ossessiva; Rudolf Reitler ebbe a osservare un malato affetto da questo tipo di nevrosi, il quale pure perdeva molto tempo a infilarsi le calze; dopo aver superato le resistenze, questo soggetto trovò la spiegazione seguente: il piede era per lui un simbolo del pene, e l’infilarvi su la calza era un atto onanistico; egli doveva mettere e togliere continuamente la calza, in parte per completare l’immagine dell’onanismo, in parte per «renderla non avvenuta».

Se ci chiediamo che cosa conferisca alla formazione sostitutiva e al sintomo schizofrenico il loro carattere peregrino, alla fin fine ci rendiamo conto che è il predominio del rapporto verbale su quello reale. L’analogia reale che sussiste fra l’atto di spremere un brufolo e l’eiaculazione dal pene è davvero minima, e ancora più piccola è quella fra gli innumerevoli piccoli pori della pelle e la vagina; ma nel primo caso c’è qualcosa che schizza fuori entrambe le volte, e per il secondo vale alla lettera il detto cinico «Un buco vale l’altro». La sostituzione non è stata dettata dalla somiglianza delle cose indicate, ma dall’uguaglianza dell’espressione linguistica. Dove i due elementi – parola e cosa – non coincidono, la formazione sostitutiva schizofrenica si discosta da quella che ha luogo nelle nevrosi di traslazione.

(Freud, Metapsicologia)

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È così che funziona la catena di sant’Antonio: Freud interpreta i suoi pazienti, e noi pazientemente interpretiamo lui. Siamo tutti incatenati a una «storia» ermeneutica. Perciò, come dice la canzone, nessuno si senta escluso – nemmeno il pazzo più scatenato o il filosofo più astruso. Il demone di ciascuno di noi è prigioniero del passaparola, e il suo destino, in fondo, è solo nelle mani dei suoi buoni o cattivi traduttori. Avete tradotto Freud come se fosse un medico, obietta Lacan ai freudiani ortodossi, e invece io vi dico che Freud è un filosofo del linguaggio. Uno studioso dei «mutamenti del linguaggio» (parole sue!). Uno che non si ritrae neanche dinanzi all’ostruzionismo di uno sproloquio come quello del parlare schizofrenico.

C’è un parlare nevrotico, e c’è un parlare schizofrenico. Questa, in due parole, fu la sua geniale intuizione. È il linguaggio che fa tanto il nevrotico quanto lo schizofrenico. È il linguaggio la Differenza che li «genera» entrambi. È la Disgiunzione che si manifesta in entrambe le sue forme: esclusiva (aut-aut) e inclusiva (et-et, sia-sia, tanto-quanto, e così via). Tanto il nevrotico quanto lo schizofrenico parlano. Dov’è tra loro quella differenza che non Neira-Freudsfugge all’interpretazione di Freud?

Presto detto. A differenza dell’Ipse dixit nevrotico che esclude per ipocondria ogni alternativa alla lettera del suo enunciato, il parlare schizofrenico invece la include a tal punto da concederle la parola. C’è un tempo, solo un tempo dispotico nel linguaggio ipocondriaco, mentre ce ne sono due in quello schizofrenico: dire una frase strampalata, una frase fatta di parole erranti per oscuri sentieri (primo tempo), e di questa frase dare una spiegazione dettagliata e scrupolosa, darle una stanza nella propria casa, un istante di «stabilità», un rifugio provvisorio, un tentativo di compromesso col senso comune (secondo tempo). Due coinquilini due si alternano nella sua voce: dapprima parla il folle, il barbaro, lo sgrammaticato, il dionisiaco, e poi la parola passa al savio, al sedentario, all’ordinato, all’orfico. E, perché no?, anche viceversa.

Questo è, a occhio e croce, il «sia-sia» schizofrenico. Essere sia il personaggio che il suo interprete. Sia il poeta che il suo scoliaste a piè di pagina. Essere la pagina e il suo margine. Prima dare voce all’emarginato, e poi provare a farlo rientrare nei ranghi. Essere Faraone che ha fatto un sogno strano e Giuseppe che glielo interpreta, e dall’uno all’altro andare e venire in un incessante andirivieni tra occultazione e riscoperta reciproca.

A essere scisso tra i due «sia» è il Re, è l’Inconscio che ha fatto il sogno, e che questo sogno lo spartisce tra Faraone e Giuseppe – tra la macchina paranoica, direbbe il Francese, e la macchina miracolante. È Giuseppe che fa il miracolo, è Giuseppe che ascolta le parole, è Giuseppe che ascolta i suoni – è lui a comprendere ciò che Faraone nel suo linguaggio «ipocondriaco» si rifiuta di comprendere. E cioè che a sognare il sogno non è stato nessuno dei due: né chi da sveglio lo racconta, né chi se ne fa interprete. È il linguaggio che parla in sogno, è Lui a scaricare su tutt’e due la «doppiezza» della sua disgiunzione. È il linguaggio dell’Altro, è Lui, il Linguaggio quando sogna, a dettare le parole al poeta: non l’io né il tu. A scrivere la pagina è il linguaggio che parla al di là dei suoi margini. È la molteplicità dei suoni, dei rumori e delle voci, dei loro timbri e dei loro toni, che parla là fuori, là dove emarginato da tutte le pagine del Libro regna, caotico, l’immondo.

Burgio-caos

Proprio così: due tempi – il tempo del divenire-immondo, e il tempo del divenire-mondo. O anche – il tempo del divenire-lupo lonza o leone, e il tempo del divenire-poeta. Il Tempo del Capro, e il tempo di chi deve espiare le sue colpe. Il tempo della Bestia, e il tempo dell’Uomo. Il tempo del grido e dello strillo selvaggio, e il tempo delle parole sagge.

È il Suono del Tempo, è Lui il Re che fa tutti i sogni, e che copre la Superficie che i due «sia», il mondo e l’immondo, il senso e l’insensato, si contendono. È così che Deva e Asura, stando al Racconto indù, «frullano» l’Oceano del Molteplice, di modo che ne venga a galla (dicesi: ritorno del rimosso) quel prodigioso sostituto, l’«oggetto = x», l’anonima non-cosa che solo per un miracolo poetico si può sottrarre (n – 1) all’inconscio, al non-mondo, al Caos, per divenire la pietra d’angolo di una costruzione «ideale». Il Racconto dice che i «nevrotici» Asura continuano a fissarla come se fosse cosa quella meraviglia che videro affiorare sulla schiuma del mare, l’Amata Mohinî, Elena la Bella o Afrodite AnadyomeneTiziano-Venere-Anadyomene; al contrario, gli «psicotici» Deva restano affascinati dal prodigio della sonorità d’un nome divino, nella cui eco sentono il richiamo di un antico ritornello.

Ma torniamo a capo. La paziente di Tausk prima si lamenta (dice di avere gli occhi storti), e poi accusa il fidanzato di averle fatto un torto, facendola sentire una donna ordinaria, una come tante altre, non quell’unica fra le tante (n – 1). Così facendo, lui l’ha messa fuori posizione, l’ha spostata, l’ha estorta alla «finezza» della sua natura. Non solo i suoi occhi, dunque, ma tutto il suo corpo, tutto il suo divenire è stato, così, distorto. Ed ora, eccola qua, tutta sgangherata, a chiedere soccorso al Dottore.

Ma, per l’appunto, il Dottore – anzi, il Dottore dei Dottori – cosa pensa, cosa ha da dire, di tutto questo? Pensa (non sfugga la «finezza» del suo ragionamento) che ogni «processo ideativo», ogni istruzione e/o costruzione di «idee», ha «come contenuto un’innervazione corporea (o meglio la sensazione di essa)». Pensa, come Hume, che il Mondo delle Idee Umane poggia sulle impressioni. E pensa che queste impressioni (materia ancora inconscia) possano venire alla coscienza per due vie: per la via dell’occhio (e allora a sostituire e traslare le impressioni rimosse sono le «cose») e/o per la via dell’orecchio (nel qual caso sono i «nomi» a fungere da loro sostituti).

Delle due vie, solo la prima è letteralmente «miracolosa», in quanto è l’occhio, l’organo stupito da un’apparizione, a imporre il suo linguaggio «ipocondriaco», ossia il suo dispotico statuto di «cosa» a ciò che vede (mirum oculo); la seconda via invece può dirsi miracolosa solo metaforicamente, perché qui l’occhio, l’organo, la parte, sta per il tutto; qui non è l’occhio, ma il nome «occhio» che si torce, per dare l’idea di una stortura di tutto il corpo, di tutto il malessere della paziente. E dunque: essendo lastricata di nomi, cioè di suoni, la seconda è la via che si schiude alle impressioni «senza oggetto», ai desideri erranti non intorno a un solo buco, ma da un buco all’altro sempre pronti a schizzare, sempre sul punto di zompare da un vuoto all’altro.

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Non c’è una cosa su cui lo schizofrenico si ostina («voglio quella o nessun’altra»), e perciò come un pellegrino egli vaga tra assonanze e dissonanze dei nomi in assenza delle cose. Vaga e, se gli va bene, se al viandante per strada è concessa la «grazia», è alla Casa dei Canti, è al Tempio nell’udito che egli, tutt’al più, perviene. Perviene a un Paradiso che non sta che in un nessun-dove, o meglio: a un Paradiso che diviene solo nel Suono delle parole con cui ha avuto notizia della sua esistenza da un altro pellegrino, non meno smarrito di lui.

Geniale, non c’è che dire! Se fosse stata un’isterica, un’ossessiva, dice Freud, la paziente «avrebbe storto convulsamente gli occhi», avrebbe cioè mostrato l’organo, la cosa, la parte toccata dall’impressione – anziché giocare ai due tempi delle parole, citando il nome della parte, il nome dell’organo, ma per alludere a un suo sconvolgimento totale. Nel suo caso, che è un caso del parlare schizofrenico, come ben dice Freud, ciò che accade è che «un’unica parola si assume la rappresentanza di un’intera catena di pensieri». Basta un occhio, in fondo, basta solo il suo nome, il nome di un occhio solo, per andare su e giù in via Polifemo, Modigliani-Jeanne-Hebuterne-con-collanadirebbe a questo punto Parmenide. Ma si può fare e rifare mille volte la strada, e vedere le sue sette meraviglie, senza però mai sentire l’ebbrezza del linguaggio del Ciclope.

Bisogna sentire i suoni, i toni e i timbri di voce di un’anima «ubriaca», il cui parlare è un continuo vagare e divagare dal senso all’insensatezza. Bisogna mettersi in ascolto del Suono diviso tra la frase insensata e la sua spiegazione, per giungere a fare pensieri così sottili come quelli di Freud. Bisogna essere, almeno un po’, schizofrenici per mettersi, con la stessa attenzione di Giuseppe, a fare l’interprete dei sogni altrui. Come? Faraone ha sognato sette vacche? Oh, questo sì che è un sogno strampalato! Suvvia, andate a chiamare gli indovini del Re! Chiamate gli astrologi, i maghi e i sapienti! Fate presto! Faraone soffre d’insonnia.

Com’è? possibile? non c’è un solo dottore che li intende? Sette vacche, sette lupi, sette bestie … non sono contemplate nei manuali delle loro meraviglie? Vuoi vedere che sono pure loro dei fottuti nevrotici che vedono soltanto cose, ovunque e sempre oggetti di desiderio, idoli e feticci vari – tutti «sostituti» visibili del rimosso (falli e vagine, bocche e ani, viscere e frattaglie varie)?

I sapienti di Faraone sono buoni solo a sviscerare le cose, ma quando si tratta di ascoltare i suoni, c’è poco da fare – bisogna mandare a chiamare un immondo, uno che vive nell’immondizia d’una prigione sotterranea dove l’occhio non ha mai occasione di gioire o di sentirsi miracolato. No, per interpretare Faraone, non ci vuole un Sapiente, uno che sa di «mondo» e che sa stare al «mondo», ma uno che è detenuto tuttora nell’immondo, uno che dimora nel non-mondo (nel sottosuolo, direbbe Dostoevskij). Per intendere le «bestie», serve un interprete estraneo a ogni teoria «mondana», e tale dunque da non farsi mettere i tappi nell’orecchio dalle «idee» della sua stessa dottrina. Serve uno che le Sirene le sente, e se ne Loeb-sirenasente chiamato. Non uno che le veda e, che nel vederle, creda d’essere stato lui bravo a chiamarle.

No, mio caro Dottore. A Faraone non serve un Sapiente geniale come te, se poi questo Sapiente, colto dalle vertigini dinanzi al non-mondo che la sua genialità ha scoperto, fa marcia indietro e torna a rifugiarsi nelle sue abitudini «ipocondriache», ricadendo nella sua ossessione per il fallo e la vagina, nella sua fissazione per i pezzi unici, che lo forza a ridurre a unità il molteplice che pure ha sentito con le sue orecchie parlare dal fondo del linguaggio dei suoi e degli altrui «pazienti» schizofrenici. Freud ha sentito, sì che ha sentito!, ma non ha risposto a quei caotici richiami (i muggiti delle vacche, gli ululati dei lupi, i rumori della selva oscura) né è stato capace di sostenere lo sguardo di chissà quali e quante civette volevano stregarlo, affacciandosi alle molteplici finestre della sua dottrina.

Peccato! è davvero un peccato che un genio come il suo si sia difeso dalla sua stessa scoperta della pluralità dei nostri «mutamenti linguistici». Peccato che, fra tante differenze, gli sia sfuggita proprio la più semplice: la differenza tra il singolare e il plurale. Perché non di un buco, non di uno solo, parla il suo «paziente». Né Faraone ha sognato una vacca. Faraone ne ha sognate sette, e una vacca non vale l’altra. E quello che forse è divenuto il più famoso dei tuoi pazienti, ti ricordi, Dottore?, ti ha parlato di sei o sette lupi, ti ha parlato di un branco. L’hai detto tu stesso: la molteplicità non si può ridurre a una sola «vagina». Fosse anche quella di Afrodite o di Elena la Bella!