Ovidio – Pigmalione

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Ernest Normand – L’amore di Pigmalione

Avendo visto quelle donne condurre una vita dissoluta, Pigmalione disgustato dei molteplici vizi che la natura ha dato loro, viveva da solo, senza una sposa. A lungo rimase senza una compagna che dividesse il suo letto. Ma un giorno, con arte felice e meravigliosa, si mise a scolpire dell’avorio bianco come neve e gli diede forma di una donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua statua.
L’aspetto è quello d’una fanciulla vera, e diresti che è viva e che potrebbe anche muoversi, se solo non fosse così timida: tale è l’arte che l’arte non si vede!

Pigmalione ne è incantato, e in cuore gli si accende una fiamma per quel corpo finto. Spesso passa la mano sulla statua come a vedere se è carne o solo avorio, e non si risolve a dire che è avorio. La bacia e gli pare che i baci siano ricambiati, le parla e la stringe tra le braccia, e gli pare che le dita affondino nelle membra che tocca, e teme che la pressione lasci un livido sugli arti. Ora la vezzeggia, ora le offre doni graditi alle fanciulle: conchiglie e sassolini levigati, e uccellini e fiori di mille colori, gigli e palle dipinte e ambra stillata dagli alberi delle Eliadi.
E le addobba il corpo anche di vesti, le mette brillanti alle dita, lunghe collane al collo; dagli orecchi pendono perle leggere e nastri sul petto. La adagia su tappeti tinti con conchiglia di Sidone, e la chiama sua amante e le poggia il collo su morbidi guanciali, delicatamente, come se lei sentisse.

Ed ecco venne il giorno della festa di Venere, festa grandissima in tutta Cipro: giovenche dalle corna arcuate fasciate d’oro venivano sacrificate, colpite sul candido collo, e gli altari fumavano d’incenso.
Pigmalione, dopo aver reso il dovuto omaggio, si fermò dinanzi all’altare e timidamente disse: «O dèi, se è vero che tutto potete concedere, io vorrei avere come moglie (non osando dire «la fanciulla d’avorio») una simile alla statua d’avorio».
L’udì l’aurea Venere che era presente alla sua festa: udì quella preghiera e, segno di quando la divinità è propizia, una fiamma tre volte palpita e con la punta guizza su per l’aria.

Tornato a casa, Pigmalione subito va a trovare la cara statua della fanciulla, e curvandosi sul letto la bacia. Gli pare di avvertire un tepore; accosta di nuovo la bocca, e con le mani le carezza il seno. L’avorio palpato si ammorbidisce e, perduta la durezza, s’incava e cede sotto le dita, come la cera dell’Imetto al sole torna duttile e plasmata col pollice si piega ad assumere varie forme e più è trattata, più trattabile diventa.
Stupito, felice ma dubbioso, temendo di sbagliarsi, più e più volte l’innamorato tocca con la mano il suo sogno: era proprio un corpo! Le vene pulsano sotto il pollice che le tasta. Allora il cipriota rivolge a Venere parole traboccanti di gioia per ringraziarla, e finalmente posa le sue labbra su labbra che non sono più finte. E la vergine sente quei baci, e arrossisce, e schiudendo timidamente gli occhi alla luce, vede assieme al cielo il suo amante.
La dea assiste alle nozze che lei stessa ha permesso. E dopo che per nove volte la falce della luna si richiuse in un disco pieno, la sposa generò Pafo, da cui l’isola omonima prende nome.

(Ovidio, Metamorfosi, 10: 243-297)