Trakl – Una sera d’inverno

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Quando la neve cade alla finestra,
a lungo risuona la campana della sera.
Per molti la tavola è pronta
e la casa tutta è in ordine.

Alcuni nel loro errare
giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
dalla fresca linfa della terra.

Silenzioso entra il viandante,
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino.

(Trakl, Poesie)

***

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In questa come in ogni poesia riuscita, non importa che a comporla sia stato Georg Trakl, che sia lui il poeta. La grandezza sta appunto in questo: che può prescindere da persona e nome del poeta.
La poesia risulta composta di tre strofe. Verso e rima si possono esattamente definire secondo gli schemi della metrica e della poetica. Il contenuto della poesia è chiaro. Non vi si trova parola che, presa a sé, risulti ignota od oscura. Alcuni versi suonano tuttavia strani, così il terzo e il quarto della seconda strofa:

Aureo fiorisce l’albero delle grazie
dalla fresca linfa della terra.

Egualmente sorprende il secondo verso della terza strofa:

Il dolore ha pietrificato la soglia.

Eppure proprio questi versi strani manifestano anche, nella loro immagine, una particolare bellezza. Bellezza che rende più intenso il fascino della poesia e rafforza la perfezione estetica della composizione artistica.

La poesia descrive una sera d’inverno. La prima strofa rappresenta quel che accade fuori: cadere della neve, suono della campana della sera. Quel che accade fuori tocca l’interno Hard-neve-sentieridella dimora dell’uomo. La neve cade alla finestra. La campana fa entrare il suono in ogni casa. Dentro tutto è in ordine e la tavola è apparecchiata.
La seconda strofa evoca un contrasto. Di fronte ai molti che stanno nella fida tranquillità della loro casa, a tavola, alcuni vagano sperduti per sentieri oscuri. Ma tali sentieri – sentieri forse malvagi – conducono talvolta alla porta della casa sicura. Questa però non viene direttamente descritta. La poesia parla invece dell’albero delle grazie.
La terza strofa invita il viandante a entrare, passando dal buio di fuori alla luce di dentro. Le case dei molti, le tavole dei loro pasti quotidiani si sono trasformate in tempio e altare.

Si potrebbe analizzare in modo ancor più particolareggiato il contenuto della poesia e definire con maggior precisione la sua forma, ma con un simile procedimento rimarremmo sempre vincolati a quell’idea del linguaggio che domina da millenni: che cioè il linguaggio sia espressione, attuata dall’uomo, di moti interiori dell’animo e della visione del mondo che li regge. Si riuscirà mai a spezzare il potere magico di quest’idea del linguaggio? Ma perché spezzarlo? Perché il linguaggio nella sua essenza non è né espressione né attività dell’uomo. Il linguaggio parla. E perciò noi ora cerchiamo questo parlare del linguaggio nella nostra poesia. E lo cerchiamo là dov’è racchiuso: nella poeticità della parola.

Una sera d’inverno suona il titolo della poesia. Potremmo dunque aspettarci la descrizione di una sera d’inverno, qual è in realtà. E invece la poesia non ci presenta una sera d’inverno che si sia svolta in un qualche luogo e in un qualche tempo. Non solo essa non ne descrive una reale, ma nemmeno vuole procurare a una irreale la parvenza e l’effetto di una reale. Certo che no, si dirà. Tutti sanno che una poesia è poesia, e che, come tale, essa «poeta» anche là dove sembra descrivere. Poetando, il poeta si raffigura e chiama alla presenza un possibile. La poesia, una volta composta, suggerisce alla nostra fantasia l’immagine precedentemente delineata dalla e nella fantasia del poeta. Nella parola della poesia si esprime la fantasia poetica. Quel che il poeta dice, è quel che il poeta dice traendolo da se stesso. […]

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Il suo parlare nomina la neve che, sul tardi, al declinar del giorno, mentre risuona la campana della sera, batte senza rumore alla finestra. Tutto ciò che dura, dura più a lungo quando cade la neve: perciò la campana della sera, che ogni giorno risuona per un tempo strettamente circoscritto, suona a lungo. Il parlare nomina la sera d’inverno. Ma che è questo nominare? Consiste solo nel rivestire con le parole di una determinata lingua oggetti e fatti noti e rappresentabili: neve, campana, finestra, cadere, suonare? No. Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il nominare avvicina ciò che chiama. Tale avvicinamento non significa però che ciò che viene chiamato sia trasferito, deposto e collocato nella sfera dell’immediatamente presente. Certamente si tratta di un chiamare a sé, in virtù del quale ciò che ancora non era stato chiamato viene avvicinato. Solo che questo chiamare a sé è appello nella lontananza, nella quale ciò che è chiamato permane come l’ancora assente.

Chiamare è chiamare presso. E tuttavia ciò che è chiamato non viene sottratto alla lontananza, in cui propriamente quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza. Il cadere della neve e il risonare della campana della sera sono – per e nell’appello della poesia – ora e qui, presso di noi. Sono presenti. E tuttavia certo non cadono fra ciò che è presente qui e ora, in questa sala. Quale presenza è la più alta: quella di ciò che ci è fisicamente dinanzi o quella di ciò che è chiamato?

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Per molti la tavola è pronta
e la casa tutta è in ordine.

I due versi suonano come proposizioni enunciative, quasi fissassero una realtà oggettivamente presente. L’energico «è» ha questo suono. Tuttavia, il modo del suo parlare è una chiamata. I versi fanno presenti la tavola preparata e la casa tutta in ordine di quella presenza che serba, inviolato in sé, il carattere dell’assenza.

Che cosa chiama dunque la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire. Dove? non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sì che, per es., la tavola di cui parla venga a collocarsi tra le file di poltrone da Loro occupate. Il luogo in cui la tavola arriva, che è pur esso chiamato, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza. È questo il luogo dove il chiamare che nomina dice alle cose di venire. Il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli uomini sotto il cielo che si oscura con l’avanzare della notte. Il suonare della campana della Dalì-uova-in-piattosera li porta come mortali davanti al Divino. Casa e tavola vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. È in questa adunanza che le cose acquistano il loro esser cose. L’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, è quello che noi chiamiamo mondo. […]

La prima strofa chiama le cose a essere cose, e dice loro di venire. Tale dire, chiamando le cose, le chiama presso, le invita; al tempo stesso, sospinge verso le cose, e affida queste cose al mondo da cui si manifestano. Perciò la prima strofa nomina non solo cose, ma insieme il mondo. Chiama i «molti» che, come mortali, fanno parte del quadrato del mondo. Le cose «condizionano» i mortali. E questo dunque significa che le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire.

La seconda strofa parla in modo diverso dalla prima. In verità anch’essa chiama. Ma il suo chiamare inizia volgendosi ai mortali:

Alcuni nel loro errare …

Non tutti i mortali sono qui chiamati, e neppure i molti, ma soltanto «alcuni»: quelli che vanno per oscuri sentieri. Proprio di questi mortali è l’essere in grado di conoscere il morire come cammino verso la morte. Nella morte si raccoglie il massimo occultamento dell’Essere. La morte è oltre ogni morire. Quelli che sono «in cammino» devono raggiungere casa e desco, errando attraverso l’oscurità dei loro sentieri, e ciò non soltanto e nemmeno in primo luogo per se stessi, ma per i molti, in quanto questi credono che, se appena riuscissero a sistemarsi in una casa e a sedere a una mensa, già conoscerebbero le cose nella loro essenza di cose e già sarebbero giunti al vero «abitare».

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La seconda strofa comincia chiamando alcuni dei mortali. Sebbene i mortali, insieme con i divini, con la terra e con il cielo, facciano parte del quadrato del mondo, i due primi versi della seconda strofa non chiamano propriamente il mondo. Nominano piuttosto, quasi come la prima strofa, ma solo in ordine diverso, le cose: la porta, gli oscuri sentieri. Solo gli ultimi due versi della seconda strofa chiamano propriamente il mondo. Ecco che all’improvviso essi nominano qualcosa di completamente diverso:

Aureo fiorisce l’albero delle grazie
dalla fresca linfa della terra.

L’albero è radicato saldamente nella terra. Così esso prospera e giunge alla fioritura, aprendosi alla benedizione del cielo. E l’albero si eleva partecipando a un tempo dell’ebbrezza del fiorire e della sobrietà del nutrimento offertogli dai succhi della terra. Parco nutrimento della terra e dono del cielo sono indisgiungibili. La poesia nomina l’albero delle grazie. La purezza della sua fioritura cela il frutto che giunge come dono gratuito: il Sacro che salva, che è benigno ai mortali. Nell’aureo fiorire dell’albero sono presenti con la Munch-quercialoro potenza terra e cielo, i divini e i mortali. Il loro unitario quadrato è il mondo. […]

Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire al mondo, e il mondo alle cose. I due modi del sollecitare sono distinti, ma non separati. Neppure costituiscono soltanto una coppia. Mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano a vicenda. Compenetrandosi, i Due passano per una linea mediana. In questa si salda la loro unità. La linea mediana, il «tra», l’«intermedio», è l’intimità. […]

L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, nel «tra» che non è né mondo né cosa, è nella differenza. L’uso che qui facciamo del termine «differenza» non è quello corrente e consueto. La differenza di cui qui si parla, esiste solo come una dis-giunzione. È unica. E regge quella linea mediana, nel moto e nella relazione in cui e grazie a cui mondo e cose trovano la loro unità. Essa porta il mondo al suo essere mondo, e le cose al loro essere cose. Portandoli a compimento, li porta l’uno verso l’altro. La composizione operata dalla differenza [la congiunzione operata dalla disgiunzione], non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi che mondo e cose fossero già prima di essa. È la differenza, in quanto linea mediana, a mediare il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, a stabilire cioè il loro essere l’uno per l’altro, così fondando e compiendo l’unità. […]

Dunque: nella prima strofa l’invito è rivolto alle cose che, in quanto cose, generano il mondo; nella seconda l’invito è rivolto al mondo che, in quanto mondo, consente le cose. Nella terza l’invito è alla linea mediana tra mondo e cose: a ciò che fonda e compie l’intimità. Perciò il chiamare con cui inizia la terza strofa, ha un accento più deciso:

Silenzioso entra il viandante.

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Dove? Il verso non lo dice. Chiama invece al silenzio il viandante che entra. Il silenzio domina la soglia. Questa compare in modo improvviso e sorprendente:

Il dolore ha pietrificato la soglia.

Nella parola di tutta la poesia questo verso parla isolato. Esso nomina il dolore. Quale? Il verso dice soltanto «dolore» … ma da dove, e sotto quale aspetto è chiamato il dolore?

Il dolore ha pietrificato la soglia.

Esso «ha pietrificato». Questa parola è l’unica della poesia che parla nella forma verbale del passato. Tuttavia non nomina un passato, un passato che non è più presente. Nomina qualcosa che è, essendo già stato. La soglia è innanzitutto nell’esser stato di quel pietrificarsi.

La soglia è l’impalcatura che regge il complesso della porta. Essa costituisce il punto in cui i Due, l’esterno e l’interno, trapassano l’uno nell’altro. La soglia regge il «tra». Alla sua fidatezza si adatta ciò che nel «tra» entra ed esce. La fidatezza della soglia deve essere ferma Chagall-errantee uguale in ogni direzione. Il potere di reggere e comporre del «tra» esige qualcosa che duri, e pertanto qualcosa di solido e valido. La soglia, come quella che regge il «tra», è dura, perché il dolore l’ha pietrificata. Ma il dolore che si è fatto pietra, non si è solidificato nella soglia, per irrigidirsi in essa. Il dolore permane nella soglia come dolore.

Ma che è dolore? Il dolore spezza. È lo spezzamento. Ma esso non schianta in schegge dirompenti in tutte le direzioni. Il dolore, sì, spezza, divide, però in modo che anche insieme tutto attira a sé, raccoglie in sé. Il suo spezzare, in quanto dividere che riunisce, è al tempo stesso quel trascinare, teso in opposte direzioni, che diversifica e congiunge ciò che nello stacco è tenuto distinto. Il dolore è ciò che congiunge nello spezzamento che divide e aduna. Il dolore è la connessura dello strappo. Questa è la soglia, il punto in cui i Due si staccano e s’incontrano. Il dolore salda lo spezzamento della differenza. Il dolore è la differenza stessa. […]

Il dolore ha fatto la soglia atta al reggere che le compete. La differenza è come quell’esser stato, da cui emerge il realizzarsi di mondo e cosa. Ma come?

Là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino.

Dove splende la pura luce? Sulla soglia, nel dolore che fonda e compone. È la cesura della differenza che fa risplendere la pura luce. Il suo congiungere illuminante decide quel rischiararsi del mondo, per cui il mondo si fa mondo. La cesura della differenza porta il mondo a realizzare la sua essenza di mondo che consente le cose. Schiarendosi così il mondo e giungendo esso al suo aureo splendore, anche pane e vino pervengono al loro splendore. Le cose magnificate risplendono nella semplicità della loro essenza di cose.

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Pane e vino sono i frutti del cielo e della terra, donati dai Divini ai mortali. Pane e vino adunano presso di sé questi quattro dalla semplicità del quadrato. Le cose chiamate, pane e vino, sono le semplici, perché il loro generare il mondo viene immediatamente colmato dalla grazia del mondo. Tali cose trovano il loro appagamento nel far sostare presso di sé il quadrato del mondo. La pura luce del mondo e il semplice splendore delle cose riempiono di sé la soglia, illuminano la differenza.

La terza strofa chiama mondo e cose nella linea in cui si compenetrano. Ciò che li connette è il dolore. La terza strofa per prima riunisce l’appello alle cose e l’appello al mondo. Poiché la terza strofa chiama originariamente dalla semplicità di quell’intimo chiamare che chiama, senza dirne il nome, la differenza. L’originario chiamare, che si volge all’intimità di mondo e cosa, e a questa dice di venire, è l’autentico chiamare. Questo chiamare è l’essenza del linguaggio. Il linguaggio parla. Parla dicendo a quel che chiama, cosa-mondo e mondo-cosa, di venire nel «tra» della differenza. Ciò che in tal modo è chiamato, mentre è sollecitato a Picasso-cieco-tavolamuovere dalla differenza presso cui dimora, per portarsi qui, è insieme affidato alla differenza … perché la differenza acquieti la cosa come cosa collocandola nel mondo. […]

Quando la differenza aduna mondo e cose nella semplicità del dolore dell’intimità, essa fa pervenire i Due alla loro essenza. La differenza è la Chiamata da cui soltanto ogni chiamare è esso stesso chiamato, e a cui pertanto ogni possibile chiamare appartiene. La Chiamata della differenza ha già sempre raccolto in sé ogni chiamare. Il chiamare che la Chiamata serba raccolto in sé, e il cui esplicarsi è appello a raccolta presso la Chiamata, è il suono in quanto il Suono.

Il chiamare della differenza è il duplice acquietare. Il chiamare che raccoglie in sé ogni possibile chiamare, la Chiamata, identificandosi con la quale la differenza chiama mondo e cose, è il suono della quiete. Il linguaggio parla, in quanto la Chiamata della differenza chiama mondo e cose alla semplicità della loro intimità.
Il linguaggio parla in quanto suono della quiete. La quiete acquieta, portando mondo e cose alla loro essenza. Il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della differenza. Il linguaggio, il suono della quiete, è in quanto la differenza è il suo farsi evento. L’essere del linguaggio è il divenire, l’avvenire, della differenza.

(Heidegger, In cammino verso il linguaggio)