Hölderlin – A Eduardo

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O astri immortali, vecchi amici
di lassù, o Eroi, a voi lo chiedo, dite:
perché gli sono tanto soggiogato?
e perché il possente mi dice suo?

Poco io posso offrire e poco perdere.
Ma una felicità mi fu lasciata,
memoria di più ricchi giorni, amata
e sola, la poesia, e questa sola

tutto oserebbe se egli l’ordinasse,
ovunque egli volesse, e fedelmente
io seguirei l’amico col mio canto
fino all’estremo termine dei forti:

«La tempesta t’abbevera di nubi,
o terra scura, e l’uomo del suo sangue,
e chi invano ha cercato in terra e in cielo
ciò che gli è eguale, così tace e dorme.

Dov’è nel giorno il segno dell’amore?
Dove il cuore parla? Dove trova pace?
Dove s’avvera ciò che un sogno ardente
a lungo ci annunciava, notte e giorno?

Qui, amati, dove cadono le vittime!
È qui che avanza il sacro corteo: l’acciaio
balena, vapora la nube, cadono,
l’aria batte e la terra li glorifica».

Se io cantando cadessi, tu faresti
vendetta, mio Achille. E parleresti:
«Visse dunque fedele, fino all’ultimo».
Parole gravi che giudicheranno
il nemico e il giudice dei morti.

Davvero ancora ti ho nella tua pace.
Ti copre il bosco austero, la montagna
materna ti ha tra le braccia sicure
come un nobile figlio, la saggezza

ti canta il canto antico della culla,
intorno agli occhi ti tesse l’ombra sacra,
ma nella nube che di lontano tuona
si annuncia fiammeggiando il Dio del tempo.

La sua tempesta schiude le tue ali
e ti chiama, il signore degli Eroi:
accoglimi con te! e reca questa
povera preda al Dio che ne sorride.

(Hölderlin, Liriche del ritorno)

***

Grosz-soldati-nazisti

Isaak von Sinclair, a cui in realtà è rivolta la poesia, fu davvero di Hölderlin l’amico «nel senso più profondo della parola». L’amico che lo protesse, amò e comprese come nessun altro dei contemporanei. Il solo, forse, che sentì nei suoi vaghi versi l’eco, di nuovo viva, dell’addio di Orfeo. Ancora, di nuovo evocativa, quella poesia là, che non ha nulla da descrivere, se non il divenire delle stagioni, il loro alterno ritmo, e il loro improvviso schiudersi in visioni e canti, nascite e morti di segni e di linguaggi sorgenti dal nulla – come se per incantamento fosse il divenire stesso, e solo Lui, il Signore del Tempo, a parlare – e al poeta non restasse che soggiogarsi e ascoltare. Nient’altro che obbedire e osare: obbedire alla saggezza dell’addio, e osare cantarlo.

Che importa se l’amico è morto? L’alleanza, la fedeltà, l’amicizia è più viva se la si delira fino all’«estremo confine dei forti». La luce del giorno cancella ogni segno d’amore. Solo i notturni e gli astri immortali si amano da buoni vecchi amici, da amici eroici – amici gli uni dell’eroico silenzio o della parola esaltata degli altri, amici che si prendono a volo. Solo le stelle «intendono» i cieli che muovono. E solo esse possono, perciò, procurare al poeta l’amico così folle da vedere e sentire ciò che gli altri, tutt’al più, sapranno a malapena leggere. Man-Ray-Giulio-CesareI più sanno leggere i poeti morti, ma non li vedono, non li riconoscono se gli sono compagni di vita. I più non sanno che la poesia è l’unica follia che a ogni vita si ricomincia. Che essa disdegna, sfida e sconfigge la morte.

Sarà pure morto Isaak, la follia del poeta vede e sente che Eduardo è più vivo di prima. Eduardo non è, come si dice, un semplice pseudonimo. Eduardo è il nome proprio, non di una persona, ma della complicità, dell’alleanza emotiva tra Hölderlin e Isaak, il nome delirato della loro amicizia, il nome «intensivo», direbbe il Francese, di un segno d’amore. Il nome proprio della loro reciproca notte, eroica, silente, audace. Volersi bene, è sempre un’audacia. E perciò, come dice il proverbio, sempre è sua alleata la fortuna. Anche a dispetto della morte.

Che fortuna avere un amico, ed essere certo della sua amicizia, anche ora che è morto! E che gioia, che dolce gioia stare la notte ad ascoltare il battito della luce delle stelle, e potersi distrarre nelle più vaghe fantasie, e avere – come l’ebbe Hölderlin – un amico che intanto ti difende, un Achille che non si tira indietro e che per te, Patroclo, è sempre pronto a battersi.

L’amico, anche da morto, prenderà la parola per difenderti e, mentre tu a tua insaputa sei ancora qui, tra i tuoi contemporanei, tu folle, immolato sull’altare del sano giudizio e intendimento –, mentre tu, cieco Orfeo, cadendo nella vertigine della vittima continui, demente, a scambiare le Menadi per un sacro corteo – lui, l’amico morto, si alzerà dalla tomba a parlare parole gravi, parole che giudicheranno, esse, il giudice dei morti.
Come? – gli dirà. – Mio vecchio scimunito, ancora non l’hai capito? I poeti vivono, e tu non hai nessun diritto a giudicarli. Tu puoi giudicare solo i morti, non gli amici che eroicamente si amano da vivi e da morti. Volendo, puoi giudicare la notte, ma non il suo tesoro vivo, non le sue perle inconsce, non gli astri immortali, i soli che «intendono» i cieli che muovono.