Foucault – La parola degli esclusi

La pazzia non esiste più, questo è il paradosso di Foucault – la pazzia non ha più cittadinanza che nel delirio artistico, e il grido, di gioia come di dolore, il grido selvaggio, non trova più foto-donna-croceasilo che nel linguaggio di certi strambi poeti, o di asceti insofferenti del loro proprio silenzio. No, grazie a dio, la pazzia è stata spazzata via dall’Occidente. Adesso, sulla soglia del nuovo millennio, non ci sono più folli, ci sono soltanto malati di mente … e droghe, sedativi e psicofarmaci più o meno efficaci a farci prendere sonno la sera.

Ma il paradosso è anche questo: che, quando sarà completamente guarita la malattia, quando l’Europa sarà stata tutta quanta vaccinata contro il suo male oscuro, gli anticorpi non avranno più memoria della sofferenza, ma neanche e soprattutto delle otto beatitudini racchiuse nella gioia demente della lingua che si faceva parola nella poesia del millennio precedente. Parola folle, stupida, idiota, parola piena del suo vuoto, vanitosa opera d’incarnazione della vanità dell’opera, in caduta libera nel precipizio delle sue passioni, in fuga da ogni credenza, innamorata dell’amore nella distanza dall’amore, e perciò capace di negare credito perfino a se stessa. Parola suicida, forse. Parola votata a un’altra vita, a una vita negata alla parola. Parola che giungeva a negarsi a se stessa, per rituffarsi nella magia del divenire della lingua. Desiderosa, solo, di rinascere dalle ceneri della sua propria assenza. Smaniosa, solo, d’internarsi nell’esternazione della gaia ignoranza delle proprie passioni. O di bruciarsi nelle fiamme della propria sragione. Parola buona solo per enunciare paradossi. Vecchia parola, del millennio che fu … prima del vaccino.

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Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. La sua figura si sarà racchiusa su se stessa non permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato. Queste stesse tracce non appariranno, a uno sguardo ignorante, se non come semplici macchie nere? Tutt’al più faranno parte di configurazioni che a noi ora sarebbe impossibile disegnare, ma che in futuro saranno le indispensabili griglie attraverso le quali render leggibili, noi e la nostra cultura, a noi stessi. Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società. Tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. E quel che per noi designa attualmente questo Esterno rischia veramente un giorno di designare noi, proprio noi.

Resterà solo l’enigma di questa Esteriorità. Quale era dunque, ci si domanderà, questa strana delimitazione che è stata alla ribalta dal profondo Medioevo sino al ventesimo secolo e forse oltre? Perché la cultura occidentale ha respinto dalla parte dei confini proprio ciò in cui avrebbe potuto benissimo riconoscersi – in cui di fatto si è essa stessa riconosciuta in modo obliquo? Perché ha affermato con chiarezza a partire dal XIX secolo, ma anche già dall’età Kusterle-foto-donna-statuaclassica, che la follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e pallido dove era come annullata? Perché aver raccolto le parole di Nerval o di Artaud, perché essersi ritrovata in esse, e non nei loro autori?

Così avvizzirà la viva immagine della ragione in fiamme. Il gioco così familiare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo –, quel gioco, con le sue regole, le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e per sempre, se non un rituale i cui significati saranno stati ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche. Qualcosa come l’attenzione ambigua che la ragione greca aveva per i propri oracoli. O come l’istituzione parallela, dal XVI secolo, delle pratiche e dei processi di stregoneria. Tra le mani delle culture storiche, non resteranno nient’altro che le misure codificate dall’internamento, le tecniche della medicina, e dall’altra parte l’inclusione improvvisa, irruenta, della parola degli esclusi nel nostro linguaggio.

Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità per la medicina di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? Il controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici? O una definizione delle deviazioni del comportamento abbastanza rigorosa da permettere alla società di prevedere agevolmente per ciascuna di esse il conveniente modo di neutralizzazione? – O altre modificazioni ancora, nessuna delle quali forse sopprimerà realmente la malattia mentale, ma che avranno tutte il significato di cancellare dalla nostra cultura l’immagine della follia?

So bene che avanzando quest’ultima ipotesi io contesto ciò che è comunemente ammesso: che i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravvivrà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa Ballada-fantasma-donnadurante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l’oscura appartenenza dell’uomo alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore. […]

A essere perduto, e per sempre, è questo rapporto con la follia (e non un determinato sapere sulla malattia mentale o quel certo atteggiamento rispetto all’uomo alienato). Questo soltanto si saprà, che noialtri, occidentali vecchi di cinque secoli, siamo stati sulla faccia della terra quei tali che, tra molti altri aspetti fondamentali, abbiamo avuto questo, strano quant’altri mai: abbiamo mantenuto con la malattia mentale un rapporto profondo, patetico, forse per noi stessi difficile da descrivere, ma impenetrabile a tutto il resto, e nel quale abbiamo provato il più vivo dei nostri pericoli, e la nostra verità, forse la più vicina. Si dirà non già che siamo stati a distanza dalla follia, ma dentro la distanza dalla follia. […]

Per coloro che non saranno più noi, resterà da meditare su questo enigma: come abbiano potuto degli uomini cercare la loro verità, la loro parola essenziale e i loro segni nel rischio che li faceva tremare, e dal quale non potevano fare a meno di distogliere gli occhi nel momento stesso in cui l’avevano scorto? E questo parrà loro ancor più strano del domandare alla morte la verità dell’uomo: poiché questa dice ciò che tutti saremo. La follia viceversa è il raro pericolo, una possibilità che ha scarso peso rispetto alle ossessioni che fa nascere e agli interrogativi che le sono posti. Come mai, in una cultura, una così lieve eventualità può esercitare un simile potere di spavento rivelatore?

Per rispondere a questa domanda, coloro che ci guarderanno volgendosi indietro non avranno indubbiamente molti elementi a loro disposizione. Solo alcuni segni carbonizzati: la paura ribadita per interi secoli di vedere le basse acque della follia salire e sommergere il mondo; i rituali di esclusione e di inclusione del folle; l’ascolto teso, dopo il XIX secolo, a sorprendere nella follia qualcosa che possa dire che cos’è la verità dell’uomo; la stessa impazienza con cui sono respinte e accolte le parole della follia, l’esitazione a riconoscere la loro inanità o la loro risolutezza. […]

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La reclusione classica racchiude, con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, l’ostinazione nell’empietà o nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia – in breve tutto ciò che caratterizza il mondo parlato e interdetto della sragione; la follia, è il linguaggio escluso – quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli «insensati», gli «imbecilli», i «dementi»), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i «violenti», i «furiosi»), o quello ancora che fa passare significati interdetti (i «libertini», i «testardi»). Di questa repressione della follia come parola interdetta, la riforma di Pinel [che istituisce il manicomio] è molto più un compimento visibile che una modificazione.

A modificarla realmente è stato Freud, col quale l’esperienza della follia si è spostata verso un’ultima forma di interdizione del linguaggio: ha cessato di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo senso la psicoanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud); è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo al di sotto di ciò che dice altre cose, delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole, poiché LaRose-donna-stancatrattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione.

Occorre dunque prendere l’opera di Freud per quel che è; essa non scopre il fatto che la follia è presa in una rete di significati comuni con il linguaggio di tutti i giorni, autorizzando così a parlarne nella piattezza quotidiana del vocabolario psicologico. Essa disloca l’esperienza europea della follia per situarla in quella regione pericolosa, trasgressiva sempre (dunque ancora interdetta, ma in una modalità particolare) che è quella dei linguaggi che si implicano essi stessi, enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano. Freud non ha scoperto l’identità perduta di un senso; ha delineato la figura irrompente di un significante che non è assolutamente come gli altri. La qual cosa avrebbe dovuto essere sufficiente a proteggere la sua opera da tutte le interpretazioni psicologizzanti con cui questi ultimi decenni l’hanno ricoperta, nel nome (derisorio) delle «scienze umane» e della loro unità asessuata.

E con ciò stesso, la follia è apparsa, non come l’astuzia di un significato nascosto, ma come la prodigiosa riserva di senso. Occorre inoltre capire nel modo giusto questo termine di «riserva»: è non tanto una scorta quanto piuttosto una figura che trattiene e sospende il senso, gestisce un vuoto in cui non si propone se non la possibilità, ancora inattuata, che vi si installi un certo senso, o un altro, o un terzo ancora, e così via forse all’infinito. La follia apre una riserva lacunosa che designa e fa vedere quella cavità in cui lingua e parola si implicano, si formano l’una a partire dall’altra e non dicono nient’altro se non il loro rapporto ancora muto. Dopo Freud, la follia occidentale è divenuta un non-linguaggio perché è diventato un linguaggio doppio (lingua che non esiste se non in questa parola, parola che non dice altro che la sua lingua) – ossia una matrice del linguaggio che, in senso Bleaq-carcassastretto, non dice nulla. Piega del parlato che è una assenza di opera.

Bisognerà un giorno rendere giustizia a Freud per non aver fatto parlare una follia che da molti secoli era precisamente un linguaggio (linguaggio escluso, inanità ciarliera, parola che corre indefinitamente al di fuori del silenzio riflesso della ragione); ne ha invece inaridito il Logos sragionevole; lo ha disseccato; ne ha fatto risalire le parole sino alla loro sorgente – sino a quella regione bianca dell’auto-implicazione in cui niente è detto. […]

Da qui … la strana vicinanza tra follia e letteratura, alla quale non bisogna assegnare il senso di un’affinità psicologica finalmente messa a nudo. Scoperta come un linguaggio che tace nella sovrapposizione a se stesso, la follia non manifesta né narra la nascita di un’opera (o di qualcosa che, con un po’ di genio o un po’ di fortuna, avrebbe potuto diventare un’opera); essa designa la forma vuota da cui proviene quest’opera, ossia il luogo da cui essa non cessa di essere assente, dove mai la si troverà perché mai vi si è trovata. Qui, in questa regione pallida, sotto questo nascondiglio essenziale, si svela l’incompatibilità gemellare dell’opera e della follia; è il punto cieco della propria possibilità e della loro mutua esclusione.

Ma dopo Raymond Roussel, dopo Artaud, è anche il luogo verso il quale il linguaggio della letteratura si accosta. Ma non vi si accosta come a qualcosa che avrebbe il compito di enunciare. È tempo di accorgersi che il linguaggio della letteratura non si definisce per ciò che dice, né tantomeno per le strutture che lo rendono significante. Ma che esso ha un essere e che è su questo essere che occorre interrogarlo. Questo essere, qual è attualmente? Senza dubbio qualcosa che ha a che vedere con l’auto-implicazione, nel doppio e nel vuoto che si scava in esso. In questo senso l’essere della letteratura, così come si produce dopo Mallarmé e sino ai giorni nostri, conquista la regione dove, da Freud in poi, avviene l’esperienza della follia.

Agli occhi di non so quale cultura a venire – che forse è già molto vicina – noi saremo coloro che si sono maggiormente avvicinati a quelle due frasi mai realmente pronunciate, quelle due frasi, tanto contraddittorie e impossibili come il famoso «io sto mentendo», e che Lacombe-ritratto-folledesignano entrambe lo stesso auto-riferimento vuoto «io scrivo» e «io deliro». Noi rappresenteremo così, accanto a mille altre culture, coloro che hanno avvicinato l’«io sono folle» all’«io sono uno stupido» o all’«io sono un dio» o all’«io sono un segno» o ancora all’«io sono una verità», come accade per tutto il XIX secolo fino a Freud. E se questa cultura avrà il gusto della storia, si ricorderà in effetti che Nietzsche, diventando folle, ha proclamato (si era nel 1887) che egli era la verità (giacché sono così saggio, perché ne so tanto di più, perché scrivo dei bei libri, perché sono segnato dal destino); e si ricorderà che, meno di cinquant’anni dopo, Roussel, poco prima del suicidio, scrisse in Come ho scritto certi miei libri, il racconto, sistematicamente intrecciato, della sua follia e dei procedimenti del suo scrivere. E senza dubbio ci si stupirà che noi abbiamo potuto riconoscere una così strana parentela tra ciò che per lungo tempo fu temuto come grido, e ciò che, per lungo tempo, fu atteso come canto.

Ma può darsi appunto che questo cambiamento non appaia tale da meritare alcuno stupore. Siamo noi oggi che ci stupiamo a veder comunicare tra loro due linguaggi (quello della follia e quello della letteratura) la cui incompatibilità è stata costruita dalla nostra storia. Dal XVII secolo follia e malattia mentale hanno occupato lo stesso spazio nel campo dei linguaggi esclusi (all’incirca, quello dell’insensato). Entrando in un altro settore del linguaggio escluso (in quello delimitato, consacrato, temuto, verticalmente innalzato su se stesso, autoreferenziale, in una Piega inutile e trasgressiva, che chiamiamo letteratura), la follia svela la sua parentela, antica o recente secondo la scala che scegliamo, con la malattia mentale.

Quest’ultima, senza dubbio alcuno, sta per entrare in uno spazio tecnico sempre meglio controllato: negli ospedali la farmacologia ha già trasformato le camerate degli agitati in grandi acquari tiepidi. Ma al di sotto di queste trasformazioni e per ragioni ad esse estranee (almeno ai nostri sguardi attuali), è imminente un epilogo: follia e malattia mentale disfano la loro appartenenza alla stessa unità antropologica. Questa unità sparisce essa stessa, con l’uomo, postulato passeggero. La follia, alone lirico della malattia, non cessa di spegnersi. E lontano dal patologico, dalla parte del linguaggio, proprio dove esso si ripiega senza ancora dire nulla, sta per nascere una esperienza nella quale si decide del nostro pensiero; la sua imminenza, già visibile ma assolutamente vuota, non può ancora essere nominata.

(Foucault, Storia della follia nell’età classica)