A furia di leggere il Tedesco e il Francese

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Non ci si domanderà mai quel che un libro vuole dire, significato o significante, non si cercherà niente da capire in un libro, ci si domanderà con che cosa funziona, in connessione a che cosa fa o non fa passare le intensità, in quali molteplicità introduce e come metamorfizza la propria, verso quali Corpi senza Organi fa convergere il proprio.
(Deleuze-Guattari, Mille piani)

A furia di leggere il Tedesco e il Francese, non so più dire una parola che non sia eretica a proposito di Mastro Dante. Che colpa ne ho, se non m’interessa più la sua poesia, ma mi prende la voglia di leggere i suoi versi contromano? Di leggerli in senso contrario – dall’ultimo di Paradiso a ritroso fino alle sue astruse rime giovanili? Voi che intendendo il terzo ciel movete … voi, per es., intendete meglio di me da dove questa voglia di leggere il Maestro come se lui pure stesse facendo con me un viaggio all’incontrario nella sua lingua, come un pittore che, sul punto di precipitare nelle sue linee, si ripiegasse nei suoi colori Defeo-relazioni-spazialisenza avere nulla più da descrivere o istruire – pure lui imbarcato in un viaggio alla volta del suo proprio esser-stato, in principio, senz’arte né parte in nessuna Commedia. Perché è così che mi pare. Mi pare che Boccaccio l’avrebbe potuta chiamare benissimo la Nessuna Commedia.

Ecco l’effetto che mi fa aver letto, forse un po’ troppo, il Tedesco e il Francese. L’effetto di aver confuso con le loro filosofie la poesia di Dante, di modo che a tutt’e tre i Maestri, sia pure a ciascuno secondo il suo gusto, mi pare che in fondo sia capitato di pazziare col limite del loro sapere, in cambio di un assaggio anche solo per un momento della gioia che si prova a essere senza memoria.
Non so che altro aggiungere, se non che lascio a voi giudicare il grado e il termine di attendibilità di questo pazzo abbecedario che mi è capitato tra le mani, di questo libro che è stato solo sognato d’essere scritto, e che in sogno sognò d’essere scritto da più mani, insieme da più poeti sebbene distanti tra loro in quanto a tempi e luoghi, questo libro tra le cui sillabe strane mi pare d’aver letto dalla fine al principio il seguente filo del discorso.

Angeli celesti e Angeli intellettuali, c’era scritto sul frontespizio, o giù di lì, forse a pagina 90 del Fiorentino. Che astratto argomento … Angeli celesti e Angeli intellettuali! Cosa mai vorrà dire, se non che le parole della sua folle Commedia fanno la loro bella presenza solo quando sono chiamate a evocare l’Assente, il Nessuno per eccellenza – il loro stesso Principio? Da dove, da chi, da quando … le parole? Chissà, forse vorrà dire che, quando esse enunciano l’Eterno, l’Assoluto, l’Essenziale, il Divino, il Sovrannaturale, a essere relegato tacitamente nell’«assenza» e messo fuorigioco non è tanto e solo l’effimero, il momentaneo, il contingente, il casuale, quanto la radice stessa, il buco nero del linguaggio, la sua impotenza a ricordare da dove proviene … e allora, ecco, come d’incanto, Angeli, Spiriti e Demoni accorrono a coprire il buco, ad assolvere le parole dall’impotenza a scavare nel loro passato analfabeta – in quella inesplorata regione del nostro esser-stato che il Tedesco chiama della «dimenticanza attiva» e in cui il Francese, dal canto suo, crede di intravedere una «memoria biocosmica» (sic!).

paesaggio-surreal

E poiché è in questa landa desolata, in questa selvaggia terra del linguaggio, che tutt’e tre insieme, il Tedesco, il Francese e il Fiorentino (sembra quasi una barzelletta) si trovano a pascolare, tu sta’ a sentire che cosa a questo proposito il più comico dei tre ebbe a scrivere nel libro, non importa se prima o dopo di loro. Poiché un libro, da solo, non ha niente da dire, è consigliabile farlo rifluire nella corrente di più pensieri, a ritroso se occorre, confusamente se è così che capita, dall’avvenire al passato casomai. Non ha importanza, perché questo libro non fu mai scritto che per essere letto e subito dimenticato.

Siamo al 29° del Paradiso, Cielo Cristallino, Beatrice sta disquisendo delle «schiere» angeliche. Sta frugando nelle parole in cerca di quelle più degne di coprire il loro buco nero. Ci sono gli Angeli – dice. – E tra questi ce ne sono alcuni un po’ speciali. Sono Angeli che intendono e che vogliono, ma che non ricordano. Non hanno bisogno di segni e di parole per ricordare. Come potrebbe essere altrimenti, se il loro desiderio è appagato dalla visione della «faccia di Dio», appagato a tal punto che sono incapaci di distoglierne lo sguardo? Velasquez-scala-paradisoSono, questi Angeli, gli «inquilini» dei cieli a noi più intimi – sta dicendo Beatrice. – Sono Angeli più angelici degli Angeli «celesti». Sono Angeli «intellettuali». Angeli che intendono il linguaggio del desiderio senza avere memoria di nessun altro desiderio. Angeli che vogliono – volontà di potenza, dice il Tedesco, organi del desiderio, aggiunge il Francese: è il linguaggio stesso che ha desiderio di parlare alla «faccia di Dio», di parlare al suo maestoso «corpo di luce», di parlare al candore della Rosa.

Il libro a questo punto sarebbe già abbastanza bizzarro, se non ci si mettesse di mezzo anche quel pazzo di don Chisciotte. Come se non bastassero le voci dei tre Maestri, ha preteso di dire pure lui la sua. Non ricordo, ha detto. Poi ha borbottato altre due o tre parole incomprensibili. È stato allora che la sua amata Dulcinea, o forse no, è stata Beatrice a dire quanto di seguito nel libro è trascritto:

Ma perché in terra per le vostre scole
si legge che l’angelica natura
è tal, che ‘ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste sustanze, poi che fur gioconde
della faccia di Dio, non volser viso
da essa da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma nell’uno è più colpa e più vergogna.
(Dante, Paradiso, 29: 70-84)

Mastro-giudizio-Salomone-filosofi

Il libro dice che quaggiù le «scuole» di pensiero pensano che tutte le Luci, tutti gli Angeli, godono indistintamente di tre «facoltà»: intendimento, memoria e volontà. Ma tu – consiglia Beatrice a Dante – fa’ attenzione a quanto ti svelo, perché è ciò che ogni visionario ha da sapere se e quando si allucina alla luce del Cielo Cristallino. Tutto ciò che in questo cielo ha da percorrere è un cammino geometrico a ritroso dal volume alla superficie della sua immaginazione. Ha da impoverire la sua immaginazione. Ha da diminuirla di una dimensione – perché da qui all’Empireo si parla solo il linguaggio degli Angeli che non hanno memoria del loro desiderio. Intendono e vogliono, ma non se ne ricordano.

Non ci sono parole più facili per dirlo: gli Angeli «celesti» muovono i cieli del desiderio, e il loro sguardo si sposta di continuo da un vecchio «obietto» a un altro «novo»: è la «novità» che innamora di volta in volta il loro «intendere e volere». Ma la «novità» è tale solo se ha la potenza di far cadere in oblio il «vecchio». Questi Angeli che amano i mutamenti, i casi e gli accidenti, hanno bisogno di segni e di parole per combattere contro i mulini a vento della donna-angelo-sediadimenticanza. Hanno bisogno di segni e di parole, per orientarsi a una memoria del loro andirivieni tra gli «obietti» di desiderio.

I mulini a vento, gli Angeli, i Demoni, a questo servono: a far perdere a don Chisciotte ogni traccia del suo esser-stato capace d’intendere e di volere la pazzia a cui era votato, assai prima d’incontrare Dulcinea. Così si racconta nel libro. Che si può sognare a occhi aperti, e si può saltare da un sogno all’altro, ma in fondo a ogni sogno rimane sempre una fantasia della «faccia di Dio». Una fantasia che non può che essere dimenticata, perché chi la «intese e volle» non aveva memoria – fortuna sua, perché di quella memoria solo la mancanza ci salva dal restare ostaggi dei fantasmi. Lo vedi? don Chisciotte ancora combatte contro gli Angeli che s’innamorano ora di Dulcinea, ora di Beatrice, ora di Madonna Laura. Don Chisciotte è fedele.

È fedele alla memoria di quella fantasia smemorata, di quella dimenticanza senz’arte né parte, a cui il Tedesco, il Francese e il Fiorentino (nella Nessuna Commedia non è scritto, ma vi è più che sottinteso) anelano tutt’e tre, sia pure ciascuno per la sua via, a risalire. Il più comico dei tre (l’avrete indovinato) è il Fiorentino là dove dice d’essere stato ammaestrato dalla sua Maestra al linguaggio del desiderio. Là dove dice che Beatrice, la «desiderata» che l’ha guidato per tutti i cieli (ogni cielo una donna, ogni donna una scienza, ogni scienza un grado di dignità del desiderio), ha preteso da lui che si tenesse alla larga da quei filosofi che, non errando mai altro che tra citazioni scolastiche, non hanno vissuto una loro propria esperienza visionaria.

Non posso che rimettere a voi la domanda: ma questo è un libro semiserio? Chissà, forse. Si può credere o non credere ai sogni desti di cui racconta. Ognuno ha il Maestro che si merita. Se non ce l’ha, è perché non ne merita nessuno. E allora, proprio allora, è il caso che si appassioni alla Nessuna Commedia. Alla Commedia dove gli Angeli corrono in soccorso di Tanguy-Dante-Beatricechi, poeta o semplice cavaliere della fede nel proprio delirio, non ha rinnegato d’aver «inteso e voluto» nient’altro che la «faccia del suo dio». E scommetto che, a proposito di questi Angeli intellettuali, anche Giacobbe avrebbe da dire la sua, perché anche Giacobbe ha dovuto combattere con l’Angelo della sua memoria di segni e di parole, per andare oltre e avventurarsi nella più audace delle amicizie – quella con Dio.

Ci sono molti Angeli – dice Beatrice. – E tra di loro ci sono Angeli più Angeli degli Angeli Celesti del nostro mondo di appetiti e desideri. Ci sono Angeli intellettuali, Angeli che intendono la Parola della «faccia di Dio» senza la mediazione di segni o di parole. Angeli che vogliono, Angeli che desiderano, che sono a noi più intimi dei nostri stessi desideri. Angeli che sono amici di Dio.

Se Beatrice ci tiene tanto alla sua disquisizione, forse è perché solo un «amico di Dio», naufragandovi, si salva dall’idolatria dei suoi propri «oggetti di desiderio». Solo un «amico della Parola di Dio» può giungere a disfarsi comicamente della sua poesia, della sua arte e della sua mitologia, senza con ciò dannarsi all’inferno. Anche in lui la Parola può fare crac! – ma non per questo egli troverà amaro il naufragio nel mare dell’oblio. Basta l’ultimo verso dell’Infinito a provare il contrario. Naufragare nella perdita dell’«ultimo orizzonte» della memoria, a un «amico di Dio» può essere dolce. A un mistico annientarsi nel dio della sua credenza è la meta, da cui il viaggio ogni volta ricomincia che, ecco, egli intende e vuole solo la «faccia di Dio». E se, come succede a Mastro Dante, anche lui giunge a vederla, meraviglia delle meraviglie!, vede solo se stesso. Questa è solo una Commedia! – dice la Sîmorgh ai trenta uccelli. Stai solo scrivendo una Commedia! – rammenta Beatrice a Dante. – Non c’è scritto nulla di serio nel libro del nostro amore. Mai desiderio fu più frivolo del nostro. Mai amore così leggero da affiorare alla Superficie del Mondo. Fu solo una favola – ripete Beatrice nel prender congedo dal suo «desiderante» – solo una favola strana, il cui «c’era una volta» non fu scritto al principio, ma alla fine del nostro libro.