Rimbaud – L’ultimo crac

Forain-RimbaudUn tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori si aprivano, in cui tutti i vini scorrevano.
Una sera, ho preso sulle ginocchia la Bellezza. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata.
Mi sono armato contro la giustizia.
Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro.
Arrivai a far svanire dal mio spirito ogni umana speranza. Su ogni gioia, per strozzarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce.
Ho chiamato i carnefici per mordere, in punto di morte, il calcio dei loro fucili. Ho chiamato i flagelli, per soffocarmi con la sabbia, col sangue. La sventura è stata il mio dio. Mi sono sdraiato nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E ho giocato qualche brutto tiro alla pazzia.
E la primavera mi ha portato il terrificante riso dell’idiota.
Ora, essendomi ultimamente trovato sul punto di fare l’ultimo crac!, ho pensato di ricercare la chiave del festino antico, dove potrei riprendere forse l’appetito.
La carità è questa chiave. – Questa ispirazione prova che ho sognato!
«Resterai iena, ecc…», ribatte il demonio che mi ha coronato di così amabili papaveri. «Giungi alla morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i tuoi peccati mortali».
Ah!, ne ho avute fin troppe: – Ma, caro Satana, ti scongiuro, una pupilla meno irritata! e in attesa delle piccole vigliaccherie in ritardo, per te che ami nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, io strappo questi pochi e ripugnanti foglietti dal mio taccuino di dannato.

(Rimbaud, Una stagione all’inferno)

***

Anche a Rimbaud, perfino al geniale Rimbaud, nientemeno al ribelle Rimbaud, al poeta Rimbaud, al militante del No – sì, anche a lui è toccato piegarsi alla sua Tykhé. Pure lui ha dovuto constatare quel che dice il Poeta – che la vita racchiude tutti i suoi sapori solo nel prender congedo, solo nel dire addio a tutte le sue finzioni. Una per una, a tutte le sue Latour-Rimbaudillusioni. Solo allora la Vita si lascia scoprire, non ci sono più scuse, caduti tutti i veli, disfatti tutti i dirò e i farò, promesse attese sogni deliri e giuramenti, e disperate, una più disperata dell’altra, tutte le speranze che non la facevano respirare. Solo allora, nel prender congedo, la Vita riappare là dove non ha mai cessato di respirare – in superficie, a Oriente, nell’atto eterno di ricominciarsi, di pazziare a darsi a vita nuova (sono i miti, sono le chiacchiere, le vanità e i narcisismi, è questo maledetto vizio del protagonismo, ma sì! sono gli eroismi, i divismi e gli arrivismi che ce la nascondono).

Nietzsche la chiama la Grande Separazione, e dice bene perché è di questo che si tratta. Si tratta di separarsi dalle rappresentazioni e dalle mitologie che tengono la Vita prigioniera, suo malgrado, delle sue stesse passioni, delle sue curiosità, della sua volontà di potenza. Voler diventare qualcuno, per esempio. Voler diventare attore, scrittore, poeta, artista, ballerino (di prima fila, ovviamente) o musicista. Volere un pubblico che ti applaude – ma quanto sei bravo!

E la Vita, intanto? Chi le ha imposto le catene di un Soggetto supposto continuo? Perché dovrebbe essere sempre identica – sempre tale e quale – a se stessa, quando poi essa ama, e non cessa mai di amare, il suo divenire, e divenire sempre un’altra? Perché, nel caso di Rimbaud, rimanere tutta la vita inchiodati al ruolo di poeta? Ma sì, di geniale poeta ribelle, va beh, ma perché non ribellarsi anche a questo? Perché non viverla la ribellione, al di là della domanda e dell’offerta delle proprie prestazioni di rivoltoso? Perché non essere scadenti, miseri, poveri e anonimi cristi qualunque? Perché far rumore? Per compiacere i critici, per dare loro lo spunto per un trafiletto o per una comparsata in tivù? Perché devo essere ancora quello di ieri, se la Vita vuole (e può) diventarmi un altro, senza farlo sapere neanche a me?

Prendere congedo, decidersi alla grande separazione, o semplicemente dire un qualunque addio, dove capita, con chi capita, quando capita, e a volte perfino senza un perché, farlo solo perché è la Vita che ce lo chiede. Ecco cosa dovette, all’incirca, succedere anche a Rimbaud. Al ribelle Rimbaud, proprio perché davvero provava piacere a ribellarsi a tutti i vincoli, e perfino a quelli che lo adulavano – ma quanto sei bravo! com’è intelligente, il ragazzo!

Brewton-orientamenti

Rimbaud rompe. È il richiamo misterioso della Vita che l’interrompe. Viene da laggiù – dal girone più profondo dell’Inferno. Viene, macchiandosi lungo la strada di tutti i peccati, di tutte le colpe, di tutte le miserie umane. È lunga la trafila che ha dovuto attraversare. Lorde avarizie, acque torbide, golose libidini e furie iraconde. Il richiamo ha dovuto attraversare finzioni e immaginazioni, credenze e religioni, scienze algebriche e categoriche filosofie, prima di giungere all’orecchio di Rimbaud. Sono state le Streghe, sono stati gli Orchi, a rubargli per strada il tesoro. Sono state le Mode dei suoi tempi, le Immaginazioni dei suoi compaesani, ad adescare (il Gatto e la Volpe, ricordi?) quei pochi spiccioli di genio che sono le emozioni di cui la Vita si emozionava nel suo corpo infantile – nel suo ancora illibato corpo senz’organi.

E adesso che le illusioni, velo dopo velo, gli cadono dagli occhi – ora che non crede più, bisogna che Rimbaud sappia farsi la sua buona domanda: c’è forse in giro un dio che per essere non pretende d’essere creduto? C’è un dio nell’assenza di tutti gli dèi? C’è un dio del congedo, un dio che dice addio a tutte le religioni che lo adulano?
Non sappiamo, e non capisco perché dovremmo sapere, le ragioni per cui Rimbaud fece o non fece a se stesso questa buona domanda. Nell’addio – ognuno la domanda se la fa con le Matta-Rimbaud-infernosue proprie emozioni.
La carità? Ma che c’entra? Hai fatto l’eroe, e adesso tardivamente vuoi fare il vigliacco? Troppo tardi – gli rinfaccia Satana con quella pupilla accigliata, truce, severa (di nuovo l’Orco … Caina attende …). Troppo tardi, mio misero nessuno! Dici che non ci credi più all’Arte, e poi, guarda, stai ancora qui a scrivere!

Prendere congedo da Satana – non è cosa facile da farsi. Il richiamo, sarà pure venuto dal fondo senza libidine dell’essere, ma il guaio è che si è insozzato strada facendo di molte malizie, e si è abbeverato nell’acqua melmosa di molte menzogne, e a ogni malizia, a ogni menzogna, quello strano piacere, quel perverso gioioso risentimento, quel subdolo appagamento di volontà di potenza, quel vendicativo capriccio di seduzione e di dominio, quel lussurioso inganno sincero – tutto un campo di rossi selvaggi papaveri, ma come farne, adesso, a uscire?

Non è facile. Eppure, è ciò che ci impedisce, se non lo facciamo, di far gioire di nuovo la Vita, liberandola dalle rappresentazioni e dalle dicerie che la imboscano sempre sullo sfondo delle nostre parole. E tuttavia, qualcuno c’è che ce lo impedisce. Anche se è un dio, non è Dio. Anche se è Satana, l’imboscato non è il Diavolo. È solo un intimo. È solo quel demone intimo che, quando si esibisce nel campo dei papaveri, a uno scrittore come Rimbaud, a un rimbambito (chiedo scusa per il gioco di parole) dalla sua Tykhé, gli impone il gusto per l’assenza di descrizione e d’istruzione. Il demone detta e Rimbaud scrive, ma non ha nessuna presenza da descrivere. Scarabocchia – per meglio dire. Come si conviene alla mano non ancora iniziata a una grammatica. Alla mano che non è ancora quella del poeta a venire.

demoni-mozzi

È la mano di un intimo, che forse forse non è il più intimo degli Amici della Vita. Se non gli è facile uscire dai ghirigori del suo gusto, se ancora si sente invischiato nel piacere del suo demone, uno scrittore cos’altro potrebbe fare per togliersi il vizio, se non disgustarsi di ciò che scrive per lui che è il solo Angelo Ribelle ad amare «questi pochi e ripugnanti foglietti» del suo dannato taccuino?

Rimbaud rompe col «principio di piacere». Possiamo fare tutte le chiacchiere che vogliamo, ma questa sua rottura ci rimane misteriosa. Qualcuno o qualcosa l’ha chiamato fuori dalla «retta via». Qualcosa, illuminandolo, l’ha stravolto «a quel modo fulmineo con cui il temporale rivela l’imbocco di un sentiero» (Camus). Un’urgenza l’ha assalito, un bisogno d’ingiuriare ciò che, fino a un attimo prima, gli sembrava giusto e bello. Di colpo il suo gusto si è rivoltato contro se stesso, e ciò che, solo un attimo prima, gli era dolce, di colpo gli diviene amaro. È l’amaro del prender congedo che, di colpo, lo assale. La Vita è bella, ma è terribilmente amara a chi muore scontento della domanda che si è fatta o non fatta. Per ricominciarsi, la Vita prende lo slancio, a volte, da un addio troppo crudele. Da un addio che non lascia istruzioni per l’uso.

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Zademack-crux

Non sapremo mai cosa gli successe, cosa lo spinse a fuggire nel deserto la responsabilità della decisione poetica. Seppellisce la sua immaginazione e la sua gloria. Dice «addio» all’«impossibile» allo stesso modo di Leonardo da Vinci e quasi negli stessi termini. Non ritorna al mondo, non vi si rifugia, e a poco a poco i suoi giorni votati ormai all’aridità dell’oro stendono al di sopra della sua testa la protezione dell’oblio. Se è vero che, secondo dubbie testimonianze, egli non tollerava più negli ultimi anni che si alludesse alla sua opera o ripeteva a questo proposito: «Assurdo, ridicolo, disgustoso», la violenza della sua disapprovazione, il rifiuto di ricordarsi di se stesso dimostra il terrore che provava ancora e la forza della scossa che non poté sostenere fino in fondo. Gli si rimproverava la diserzione, la dimissione, ma il rimprovero è assai facile per chi non ha corso il rischio.
(Blanchot, Lo spazio letterario)