… viene il Dio
e venendo accenna alle sue spalle
(Hölderlin)
… come a dire: vengo qui, a Tebe – vengo però da quell’altra Tebe, da quella Tebe che mi sono lasciata alle spalle – vengo dalla trista Memoria scolpita a sangue sugli stipiti delle Sette Porte – ogni Porta, una stella che brilla in un altro cielo – in un cielo che si vede solo di là, da quell’altra Tebe, e di cui, di qua, non si intravedono che Sette Stelle, né si sentono più di Sette Note, né si balbettano più di Sette Vocali – vengo da quell’Orsa, come la chiamate voialtri. Vengo dalla Coscia del Toro Celeste.
Di tutte le «ambiguità» di Dioniso, questa è forse la più abbordabile. A condizione, s’intende, di sapersi concedere un minimo di stravaganza. Perché, assieme a Dioniso bisogna, secondo i suoi tempi e modi, vagare con uno sguardo che straveda per il suo miraggio, a tal punto da vederlo allo stesso tempo di qua e di là dalla Strabica Soglia (i professori la chiamano Ditirambo) che in tutt’e due le lingue è la parola Tebe. Tebe nel parlare, Tebe nel dire. Tebe coi suoi fantasmi, Tebe coi suoi popoli in carne e ossa. Tebe d’Egitto, Tebe di Grecia. Ogni Tebe in una doppia apparenza, e solo per una casuale coincidenza.
Si dice: Dioniso è lo Straniero giunto (da fuori) qui a Tebe, eppure qui a Tebe egli è da sempre di casa in quanto è nella più intima Tebe (da dentro il suo Grembo), che la madre Semele l’ha partorito.
Ma si dice anche in quest’altro modo: Dioniso è qui, ma non è di qui. O in quest’altro ancora: Dioniso è l’Evidente, il Lampante le cui apparenze sono però talmente abbaglianti, talmente superficiali – da far esplodere in un visibilio l’intimità dell’essere, lo «spazio interiore del mondo».
Il mondo – questa è la stranezza di Dioniso – è sempre doppio, sempre schizofrenico (sennò, perché due occhi, due orecchi, due mani, o due gambe?). Ce l’hai di fronte, perché è dietro di te! E Tebe è Tebe solo se questa di qua ancora accenna a quell’altra alle tue spalle: questa Tebe è il riflesso di quell’altra, è con l’altro sguardo che l’hai riconosciuta, con lo sguardo che ancora non la conosceva! Era Tebe prima di essere Tebe. Era fantasia prima di acconciarsi a un’immaginazione. Era intima a se stessa prima di gettarsi nel Mondo, giù «con un balzo sordo di bestia feroce» – dice Rimbaud – a trascorrervi la sua dannata, la sua disperata stagione all’inferno.
Qui e ora, con tutto il cuore – solo ora che è ammutolito ogni vecchio ardore – finalmente Dioniso c’è. Dioniso è infatti in tutte le assenze di fede di speranza e di carità che, eccolo!, ricompare, è a tutte le mancanze di entusiasmo che offre, ebbro lui per primo, l’ebbrezza del suo vino, è nella «morte di dio», nel suo essere morto al fondo senza fondo dell’altrui «deità» che lascia scorgere le rare tracce della sua propria remota, infantile, «divinità» contenta d’essere miscredente.
Tebe sorge dall’assenza di Tebe. Sorge, come il sole mattutino, a dare un po’ di calore che consoli della perdita di Tebe. Sorge, come l’amore, a risarcire un desiderio proibito. Tebe è la città negata a Dioniso. Perciò Dioniso ritorna periodicamente a Tebe. Tebe gli fa male. Perciò solo Tebe può farlo gioire.
Chiusa nel recinto delle Sette Porte, l’animalità di Dioniso fa fatica ad accettare una morale. Dioniso è solo un dio minore, un dio controvoglia, un dio per forza. È il dio degli esuli, Esule lui stesso.
Cacciato da Tebe – cacciato dal paradiso, ma cacciato anche dall’inferno – dio della Stagione senza speranze, senza credenze, senza attese di futuro, l’Espatriato è il dio-animale, il dio senza morale, lo stravagante, l’inconscio, il barbaro innocente.
Non è un poeta come Eros. È piuttosto un teatrante invasato dalla furia dell’esibizionismo. Questo è quanto, bene o male, intesero ad Atene. Perché cacciato da Tebe, solo Atene seppe dare accoglienza a Dioniso. Non funzionava forse così tra le tribù degli antichi Achei? – che ciò che a Tebe era moralmente proibito, trovasse asilo nell’astuzia estetica degli Ateniesi? Non è simile a quello dell’esule Dioniso il trasloco di Edipo a Colono?
E allora ecco: Dioniso a teatro, Dioniso il Selvaggio incivilito, ecco il fondo animale portato in superficie, ecco l’Intimo mostrato, il Mostro addomesticato dalle luci della Ribalta – ecco le Dionisiache, ecco i misteri di Samotracia – ecco il Teatro.
Ed ecco, sulla Scena, viene il dio / e accenna alle sue spalle. Il Dioniso di Hölderlin non dimentica. Ma tutto ciò che ricorda, è appena un cenno. Il Dioniso di Hölderlin non dice. Ma il suo silenzio è più loquace di tutte le parole. Il dio viene e, da sé, si ricomincia prima e senza poesia. Lui viene e ciò che pareva profondo, esplode in superficie.