Intimo, di solito, sta per profondo – e, viceversa, superficiale è, nel parlare volgare, sinonimo di approssimativo, epidermico, senza spessore. Profonde e invisibili sono le radici, le cause, i moventi. Visibili e appariscenti sono invece le foglie al vento, i casi ballerini, gli abbagli contingenti.
Essere e apparire, Platone ci ha insegnato a distinguerli. Ma si dà il caso che, dopo duemila e passa anni di metafisica, a qualcuno è venuto in mente di mettere l’accento sulla copula – essere è apparire. Che è solo ciò che appare. Che, insomma, non c’è nulla di più superficiale dell’essere. E che, se davvero ci scocca in mente di fare un’immersione nel profondo, nell’intimo del nostro essere, ci dobbiamo accontentare di registrare solo una casuale sequenza di … e … e … e … – solo una trafila di congiunzioni contingenti, e nessuna copula, tra le emozioni e le loro (buone o cattive) estensioni nella superficie, che per caso le accoglie. Nessuna fissazione, nessuna identità – ma solo una successione di impressioni tra loro differenti. Nessuno stare – ma un continuo metastabile divenire delle nostre affezioni, della nostra Stimmung.
Mille piani – mille e mille superfici che tra loro «si congiungono» (a distanza, ma in ogni caso carnalmente) nella più stramba delle geometrie immaginabili, quella che rovesciando l’intimo nel superficiale, il profondo nell’apparente, e l’essenziale nel casuale, consente a Rilke (in particolare nell’Ottava Elegia) di abbozzare il suo disegno di uno spazio interiore del mondo – di una intimità del mondo che è tutta in superficie, ma che noi non vediamo perché siamo soliti vedere solo ciò che ci sta di fronte, e solo ciò che il nostro sguardo frontale ha già ridotto al rango di «oggetto».
Solo ciò che galleggia – solo ciò che si mostra – solo ciò che si dice – è. Ciò che non viene all’evidenza – ciò che rimane immerso nel silenzio – se mai l’ha avuta, perde l’occasione d’essere, deperisce, sprofonda, s’intorbida, s’intossica, e infine crepa d’invidia. Ma proprio tra queste invisibili crepe di morte, il poeta ha da aprirsi una via al dire, una via che non si vede – una via che solo si ascolta – una via non di linee, ma di suoni. Sta alla parola poetare l’impossibile geometria dell’Aperto – di modo che il profondo, l’intimo, le radici, rivengano a galla. E che sia il morto, l’inconscio, l’animale, l’infantile, a rifarsi vivo – a non avere più vergogna d’apparire, a ridivenire, come fu in principio, sfrontato. Perché l’intimo che se ne sta chiuso nel suo boccio di pudore, il profondo non detto, può solo sprofondarci ancora più giù, nell’ancora più torbido, nel sempre più angosciante.
***
In quanto alla morte, Rilke respinge, si sa, la soluzione cristiana: è qui, «in una coscienza puramente terrestre, profondamente terrestre, felicemente terrestre» che la morte è un aldilà da comprendere, da riconoscere, da accogliere, da promuovere forse. Dunque essa non è soltanto al momento della morte: in ogni momento le siamo contemporanei. Perché, allora, non abbiamo accesso immediatamente a quest’altro versante, cioè alla vita stessa, ma diversamente rapportata, divenuta l’altro, divenuta l’altro rapporto? Ci si potrebbe accontentare di riconoscere, nell’impossibilità di accedervi, la definizione di questa regione: essa è «il versante che non è rivolto verso di noi né da noi rischiarato». Sarebbe dunque ciò che ci sfugge essenzialmente, una sorta di trascendenza: ma di cui non possiamo dire che abbia valore e realtà, di cui sappiamo soltanto che ne siamo «distratti».
Ma perché «distratti»? Chi mai ci mette nella necessità di non potere, a nostra guisa, volgerci in quella direzione? A prima vista, siamo esseri limitati. Quando guardiamo davanti a noi, non vediamo ciò che è dietro. Quando siamo qui, è a condizione di rinunciare a laggiù. Il limite ci tiene, ci trattiene, ci respinge verso ciò che siamo, ci volge verso di noi, ci distrae dall’altro, fa di noi degli esseri distratti. Accedere all’altro versante vorrebbe dire dunque entrare nella libertà di ciò che è immune da limiti. Ma non siamo forse, in certo modo, esseri liberi dal qui e dall’ora? Forse io vedo soltanto ciò che è davanti a me, ma posso figurarmi ciò che è dietro. Grazie alla coscienza, non sono forse in ogni momento in altro luogo da dove sono, sempre arbitro e capace dell’altro? Sì, è vero, ma in ciò sta anche la nostra disgrazia. Grazie alla coscienza sfuggiamo a ciò che è presente, ma restiamo preda della rappresentazione. Con la rappresentazione noi restauriamo, nel nostro intimo, la servitù dello stare di fronte; noi ci teniamo davanti a noi stessi, anche quando guardiamo disperatamente fuori di noi.
Questo si chiama destino: stare di fronte
e niente altro che questo e sempre di fronte.
Tale è la condizione umana: non potersi riferire che a cose che ci distolgono da altre cose e, più gravemente, essere, in tutto, presenti a se stessi, e, in questa presenza, avere ogni cosa di fronte, esserne separati da questo stare di fronte, ed essere separati da noi stessi, in quanto frapposti a noi stessi.
A questo punto si può dire che ciò che ci esclude dall’illimitato è ciò che fa di noi degli esseri privi di limiti. Noi ci crediamo, a causa di ogni cosa finita, esclusi dall’infinito di tutte le cose; ma siamo altrettanto esclusi da quella data cosa a causa del modo in cui la cogliamo per farla nostra rappresentandocela, per fame un oggetto, una realtà oggettiva, per fissarla nel nostro mondo usuale sottraendola alla purezza dello spazio. «L’altro versante» è là dove noi cesseremmo di essere, in una sola cosa, esclusi da essa per il nostro modo di guardarla, esclusi da essa per effetto del nostro sguardo.
Con tutti i suoi occhi, la creatura vede
l’Aperto. Soli i nostri occhi sono
come rovesciati …
Accedere all’altro versante, sarebbe dunque trasformare la nostra maniera di avere accesso. Nella coscienza, quale è concepita ai suoi tempi, Rilke è tentato di vedere l’ostacolo principale. Egli precisa nella lettera del 25 febbraio 1926 che è il debole «grado di coscienza» che avvantaggia l’animale, permettendogli di entrare nella realtà senza doverne essere il centro. «Per l’Aperto, non intendiamo il cielo, l’aria, lo spazio – che per l’osservatore sono ancora degli oggetti e, in quanto tali, opachi. L’animale, il fiore è tutto ciò senza rendersene conto, e così ha davanti a sé, oltre a sé, una libertà indescrivibilmente aperta, che in noi ha forse un equivalente, estremamente momentaneo, solo nei primi istanti dell’amore, quando l’essere vede nell’altro, nell’amato, la sua propria estensione, oppure nell’effusione verso Dio».
È chiaro che Rilke si scontra qui con l’idea di una coscienza chiusa su se stessa, abitata d’immagini. L’animale è là dove guarda, e il suo sguardo non lo riflette, né riflette la cosa, ma lo apre su di essa. L’altro versante, che Rilke chiama anche «il puro rapporto», è allora la purezza del rapporto, il fatto di essere, in questo rapporto, al di fuori di sé, nella cosa stessa e non in una rappresentazione della cosa. La morte sarebbe in questo senso l’equivalente di ciò che è stato chiamato l’intenzionalità. Grazie alla morte, «noi guardiamo al di fuori con un grande sguardo d’animale». Grazie alla morte gli occhi si rivolgono, e questo rivolgimento costituisce l’altro versante, e l’altro versante è il fatto di vivere non più distolti ma rivolti, introdotti nell’intimità d’una conversione, non già privi di coscienza, ma, grazie alla coscienza, collocati fuori di essa, gettati nell’estasi di questo movimento.
Riflettiamo sui due ostacoli; uno è relativo alla località degli esseri, al loro limite temporale e spaziale, vale a dire a ciò che potremmo definire una cattiva estensione dove una cosa ne soppianta inevitabilmente un’altra, non si lascia vedere se non nascondendo l’altra, etc. La seconda difficoltà deriverebbe da una cattiva interiorità, quella della coscienza, dove senza dubbio noi siamo liberati dai limiti del qui e ora, e disponiamo di tutto nel chiuso della nostra intimità, ma dove anche è questa intimità chiusa, essa, a escluderci dal vero accesso a tutto, e a escluderci inoltre dalle cose per effetto della disposizione imperiosa che fa loro violenza: attività realizzatrice che ci rende possessori, produttori, attenti ai risultati e avidi di oggetti.
Da un lato dunque un cattivo spazio, dall’altro una cattiva «interiorità»: da un lato, la realtà e la forza del di fuori, dall’altro la profondità dell’intimo, la libertà e il silenzio dell’invisibile. Non potrebbe però esserci un punto in cui lo spazio sia allo stesso tempo intimità e esteriorità, uno spazio che all’esterno sia già intimità spirituale? un’intimità che in noi sia la realtà del di fuori, tale che noi saremmo in noi stessi al di fuori, nell’intimità e nell’intima vastità di questo esterno?
A questa conclusione arriva Rilke attraverso un’esperienza che da principio ha forma «mistica» (quella che incontra a Capri e a Duino), poi è esperienza poetica: almeno la intravede e la intuisce, e forse la invoca dandole espressione. E la definisce Weltinnenraum, lo spazio interiore del mondo: che è l’intimità delle cose non meno che la nostra intimità e la libera comunicazione dell’una e dell’altra, libertà potente e senza impedimento ove si afferma la forza pura dell’indeterminato.
Attraverso tutti gli esseri passa l’unico spazio:
spazio interiore del mondo. Silenti volano gli uccelli
attraverso di noi. Io che voglio crescere,
guardo al di fuori ed è in me che cresce l’albero.
(Rilke, poesia datata agosto 1914)
Che ne possiamo dire? qual è esattamente questa interiorità dell’esteriorità, questa estensione in noi dove «l’infinito, – come egli dice in occasione dell’esperienza di Capri, – penetra così intimamente che è come se le stelle che si accendono riposassero lievemente nel suo petto»? Possiamo veramente accedervi? E per quale via, se, essendo la coscienza il nostro destino, non possiamo uscirne e in essa non siamo mai nello spazio ma nello stare di fronte della rappresentazione e inoltre sempre occupati ad agire, fare, possedere?
Rilke non si scosta mai dall’affermazione risoluta dell’Aperto, ma si mostra molto incerto quando misura il nostro potere di accostarci ad esso. A volte sembra che l’uomo ne sia sempre escluso. A volte egli lascia aperta una speranza ai «grandi moti dell’amore» quando un essere va al di là della persona amata, è fedele all’arditezza d’un movimento che non conosce né sosta né limite, non vuole né può riposarsi nella persona designata, la dissolve o la sorpassa perché non diventi uno schermo che ci sottragga al di fuori: condizioni così gravose che ci spingono a preferire l’insuccesso. Amare, vuol dire sempre amare qualcuno, avere qualcuno davanti a sé, non guardare altro che la persona, e non oltre la persona, se non inavvertitamente, nello slancio della passione senza oggetto; e così l’amore finisce per essere qualcosa che distoglie più che dirigere. Anche il bambino, che è più vicino al puro rischio della vita immediata,
… il bambino, già tenero
noi lo costringiamo a riguardare altrimenti, a vedere
il mondo delle forme e non l’Aperto, che è
nella visione dell’animale così profondo …
E anche l’animale, per cui «l’essere è senza fine, senza contorno e senza sguardo sul suo stato», che, «dove noi vediamo l’avvenire vede tutto e si vede in tutto e salvo per sempre» a volte «porta il peso e il cruccio di una grande malinconia», l’inquietudine di essere separato dalla beatitudine originale e come allontanato dall’intimità di quel respiro.
Si potrebbe dunque dire che l’Aperto è assoluta incertezza e che mai, su alcun viso e in alcuno sguardo, ne abbiamo scorto il riflesso, poiché ogni rispecchiamento già viene da una realtà figurata. «Sempre è il mondo e mai un Nessun luogo senza nome». Questa incertezza è essenziale: avvicinarci all’Aperto come a qualche cosa di sicuro, vorrebbe dire essere sicuri di non cogliere l’Aperto. Ciò che è sorprendente e peculiare a Rilke, è come tuttavia egli resti certo dell’incerto, come tenga a preservarlo dal dubbio, ad affermarlo nella speranza piuttosto che nell’angoscia, con una fiducia che non ignora la difficoltà dell’assunto ma ne rinnova di continuo il gioioso annuncio. Come se egli fosse certo che c’è in noi, per il fatto stesso che siamo «distolti», la possibilità di rivolgerci, la promessa di una riconversione essenziale.
Sembra, effettivamente, se ritorniamo ai due ostacoli che nel vivere ci trattengono in una vita limitata, che l’ostacolo principale – poiché vediamo gli animali, che ne sono esenti, accedere a quanto a noi è precluso –, questa cattiva interiorità che ci è propria, questa cattiva coscienza, possa tuttavia, da potenza che chiude e congeda, trasformarsi in potere di accoglimento e di adesione: non più ciò che ci separa dalle cose reali, ma ciò che ce le restituisce nel punto in cui esse sfuggono allo spazio divisibile per entrare nell’estensione essenziale.
La nostra cattiva coscienza non è cattiva in quanto è interiore ed in quanto è libertà fuori dei limiti oggettivi, ma in quanto non è abbastanza interiore e non è affatto libera: perché in essa, come nella cattiva esteriorità, regnano gli oggetti, la preoccupazione dei risultati, il desiderio di avere, l’avidità che ci lega al possesso, il bisogno di sicurezza e di stabilità, la tendenza a sapere per essere sicuri, tendenza a «rendersi conto» che diviene necessariamente tendenza a contare e a ridurre tutto a un computo; tale è il destino del mondo moderno.
Se vi è dunque speranza di rivolgerci, è distogliendoci sempre più: per una conversione della coscienza che, invece di ricondurla a quel che chiamiamo realtà e non è che la realtà oggettiva, in cui indugiamo nella sicurezza delle forme stabili e delle esistenze separate, e, invece di mantenerla alla propria superficie, in quel mondo delle rappresentazioni che è mero raddoppiamento degli oggetti, la volga a un’intimità più profonda, a quanto è più interiore e più invisibile, a quando non siamo più preoccupati di fare e d’agire ma liberi da noi stessi e dalle cose reali e dai fantasmi delle cose, «abbandonati, esposti sulle montagne del cuore», il più vicino possibile a quel punto in cui «l’interiore e l’esteriore si raccolgono in un solo spazio continuo».
Novalis aveva sicuramente espresso un’aspirazione analoga quando diceva: «Noi sogniamo di viaggiare attraverso l’universo. L’universo non è dunque in noi? Noi non conosciamo le profondità del nostro spirito. Verso l’interiorità va il cammino misterioso. L’eternità è in noi con i suoi mondi, passato e avvenire». E Kierkegaard, quando ridesta nel profondo la soggettività e vuole liberarla dalle categorie e dalle possibilità generali per riafferrarla nella sua singolarità, dice senza dubbio qualche cosa che anche Rilke ha inteso.
Tuttavia l’esperienza di Rilke ha i suoi tratti particolari: è estranea alla violenza imperiosa e magica con cui, in Novalis, l’interiore afferma e suscita l’esteriore. Essa è inoltre estranea a ogni superamento terrestre: se il poeta va verso il più intimo, non è per sorgere in Dio, ma per sorgere al di fuori ed essere fedele alla terra, alla pienezza e alla sovrabbondanza dell’esistenza terrestre, quando essa sgorga oltre i limiti, nella sua forza eccedente che travalica ogni calcolo.
Inoltre l’esperienza di Rilke ha obiettivi particolari, che sono essenzialmente quelli della parola poetica. Ed è in questo che il suo pensiero si eleva ad una più alta misura. Rimangono così in secondo piano le tentazioni teosofiche che appesantiscono le sue idee sulla morte quanto le sue ipotesi sulla coscienza ed anche quel pensiero dell’Aperto che, talvolta, tende a diventare una regione esistente e non l’esigenza dell’esistenza o l’intimità eccessiva, senza limite, di tale esigenza.
E intanto, che cosa avviene quando distogliendoci sempre più dall’esteriore, scendiamo verso quello spazio immaginario che è l’intimità del cuore? Si potrebbe supporre che la coscienza qui cerchi l’incoscienza come via di uscita, che sogni di perdersi in un accecamento istintivo in cui ritrovare la grande purezza ignorante dell’animale. Ma non è così. Salvo che nella terza elegia in cui parla l’elementare, Rilke prova quella interiorizzazione piuttosto come trasmutazione delle significazioni stesse. Si tratta – lo dice nella sua lettera a Hulewicz – «di realizzare la più grande coscienza possibile della nostra esistenza», e nella stessa lettera dice: «non dobbiamo soltanto fare uso di tutte le forme del qui all’interno dei limiti del tempo, ma occorre collocarle – per quanto è in nostro potere – nelle significazioni superiori a cui partecipiamo …».
Le parole «significazioni superiori» indicano che questa interiorizzazione che rovescia il destino della coscienza purificandola di tutto ciò che essa rappresenta e produce, di tutto ciò che fa di essa un sostituto della realtà oggettiva che chiamiamo mondo – conversione che non si può paragonare alla riduzione fenomenologica ma che sembra evocarla – non va verso il vuoto del non-sapere ma verso significazioni più alte o più esigenti, forse anche più vicine alla loro fonte e allo sgorgare di quella fonte. Questa coscienza più interna è dunque anche più cosciente, e ciò significa per Rilke che «noi siamo introdotti ad essa nei dati, indipendenti dal tempo e dallo spazio, dell’esistenza terrestre» (non si tratta allora che di una coscienza più ampia, più estesa), ma ciò significa anche: più pura, più vicina all’esigenza che la fonda e che ne fa non la cattiva intimità che ci rinchiude ma la forza del superamento dove l’intimità è l’esplodere e lo sgorgare dell’esteriorità.
E come è possibile questa conversione? come si compie? che cosa le porge autorità e realtà, se non deve ridursi all’incertezza di stati «estremamente momentanei» e forse sempre irreali?
In forza della conversione, tutto è volto verso l’interiorità. Ciò significa che noi stessi ci volgiamo, ma, anche, che noi rivolgiamo tutto, tutte le cose alle quali abbiamo parte. Ecco il punto essenziale. L’uomo è legato alle cose, è al centro di esse, e se rinuncia alla sua attività realizzatrice e rappresentativa, se si ritrae apparentemente in se stesso, non è per congedare tutto ciò che non è lui, le umili e caduche realtà, ma piuttosto per trascinarle con sé, per farle partecipi di questa interiorizzazione in cui esse perdono il loro valore d’uso, la loro natura falsata, e perdono anche i loro stretti limiti per penetrare nella loro vera profondità.
Così questa conversione appare come un immenso lavoro di trasmutazione, nel quale le cose, tutte le cose, si trasformano e s’interiorizzano divenendo interiori a noi, e divenendo interiori a se stesse. Una trasformazione del visibile in invisibile e dell’invisibile in sempre più invisibile, dove il fatto di essere non-rischiarato non esprime già una semplice privazione ma l’accesso all’altro versante «che non è volto verso di noi né rischiarato da noi». Le formule di Rilke hanno ripetuto ciò in molti modi e sono fra le più note al lettore: «noi siamo le api dell’Invisibile. Noi raccogliamo perdutamente il miele del visibile per accumularlo nella grande arnia d’oro dell’Invisibile». «Il nostro compito è d’impregnare questa terra provvisoria e deperibile così profondamente nel nostro spirito, con tanta passione e pazienza, che la sua essenza risusciti in noi invisibile …».
Ogni uomo è chiamato a ricominciare la missione di Noè. Deve divenire l’arca intima e pura di tutte le cose, il rifugio in cui esse si mettono al riparo, e dove tuttavia non si accontentano di serbarsi quali sono, quali immaginano di essere, ristrette, caduche, trappole alla vita, ma dove si trasformano, perdono la loro forma, si perdono per entrare nell’intimità della loro riserva, come preservate da se stesse, non toccate, intatte, nel punto puro dell’indeterminato.
Sì, ogni uomo è Noè, ma se ci pensiamo bene, lo è in una strana maniera: la sua missione consiste, più che nel salvare tutte le cose dal diluvio, nell’immergerle invece in un diluvio più profondo, in cui scompaiono in modo prematuro e radicale. In questo, infatti, si risolve la vocazione umana. Se occorre che ogni visibile divenga invisibile, se questa metamorfosi è lo scopo, il nostro intervento appare superfluo: la metamorfosi si compie perfettamente da sola poiché tutto è deperibile, poiché, dice Rilke nella stessa lettera, «il deperibile affonda ovunque in un essere profondo». Che cosa dobbiamo dunque fare, noi che siamo i meno durevoli, i più rapidi a sparire? Che cosa abbiamo da offrire in questo compito di salvezza? Questo precisamente: la nostra rapidità a sparire, la nostra attitudine a perire, la nostra fragilità, la nostra caducità, il nostro dono di morte.
Ecco dunque ritrovata la verità della nostra condizione e ritrovata la gravità del problema. Rilke alla fine delle Elegie adopera questa parola: «gli infinitamente morti», termine ambiguo, ma si può dire degli uomini che essi sono infinitamente mortali, un po’ più che mortali. Ogni cosa è caduca, ma noi siamo i più caduchi, tutte le cose passano, si trasformano, ma noi vogliamo la trasformazione, vogliamo passare e il nostro volere è questo trapasso. Di qui il richiamo: «Volere la metamorfosi», «Wolle die Wandlung». Non bisogna restare, ma passare. «Da nessuna parte c’è uno stare». «Bleiben ist nirgends». «Ciò che si rinchiude nel fatto di stare è già pietrificato». Vivere, è sempre prendere congedo, essere congedato e congedare ciò che è. Ma noi possiamo precedere questa separazione, e, guarendola come se fosse dietro a noi, farne il momento in cui, fin d’ora, tocchiamo l’abisso, abbiamo accesso all’essere profondo.
Vediamo così che la conversione, movimento per andare al più interno, opera in cui noi ci trasformiamo trasformando tutto, ha qualche rapporto con la nostra fine; e questa trasformazione, questo compimento del visibile nell’invisibile, di cui abbiamo l’incarico, è il compito stesso di morire che ci è stato finora così difficile riconoscere, e che è un lavoro, ma sicuramente ben diverso dal lavoro con cui facciamo degli oggetti e progettiamo dei risultati. Noi vediamo anche, adesso, che questo lavoro è opposto all’altro, anche se gli assomiglia in un punto, poiché, nei due casi, si tratta proprio di una «trasformazione»: nel mondo le cose sono trasformate in oggetti al fine di essere prese, utilizzate, rese più sicure, nella fermezza distinta dei loro limiti e nell’affermazione di uno spazio omogeneo e divisibile – ma, nello spazio immaginario, trasformate nell’irraggiungibile, fuori dell’uso e dell’usura, non nostro possesso ma movimento per spossessare, che ci priva di esse e di noi, non sicure: unite all’intimità del rischio, là dove né esse né noi siamo più riparati, ma introdotti senza riserva in un luogo dove niente ci trattiene.
Rilke, in una poesia, una delle sue ultime poesie, dice che lo spazio interiore «traduce le cose». Esso le fa passare da un linguaggio all’altro, dal linguaggio estraneo, esteriore, in un linguaggio tutto interiore, anzi nel dentro del linguaggio, quando questo nomina in silenzio e attraverso il silenzio e fa del nome una realtà silenziosa. «Lo spazio [che] ci supera e [che] traduce le cose» è dunque il trasfiguratore, il traduttore per eccellenza. Ma questa indicazione ci fa intravedere qualcosa di più: non esiste forse un altro traduttore, un altro spazio in cui le cose cessano di essere visibili per vivere nella loro intimità invisibile? Certo, e noi possiamo dargli senz’altro il suo nome: questo traduttore essenziale è il poeta, e questo spazio è lo spazio del poema, là dove non vi è più nulla di presente, dove, in seno all’assenza, tutto parla, tutto rientra nell’intesa spirituale, aperta e non immobile, ma centro dell’eterno movimento.
La metamorfosi del visibile in invisibile, se tale è il nostro compito, se tale è la verità della conversione, in un punto la vediamo compiersi senza sparire, nell’evanescenza di stati «estremamente momentanei»: è la parola. Parlare è essenzialmente trasformare il visibile in invisibile, entrare in uno spazio che non è divisibile, in un’intimità che esiste tuttavia fuori di sé. Parlare è porsi in quel punto in cui la parola ha bisogno dello spazio per risuonare ed essere intesa, e in cui lo spazio, divenendo il movimento stesso della parola, diviene la profondità e la vibrazione dell’intesa. «Come, – dice Rilke in un testo scritto in francese, – come sopportare, come salvare il visibile, se non facendone il linguaggio dell’assenza, dell’invisibile?».
L’Aperto, è il poema. Lo spazio in cui tutto ritorna all’essere profondo, in cui vi è passaggio infinito fra i due campi, in cui tutto muore, ma la morte è la compagna sapiente della vita, e dove la paura è rapimento, la celebrazione è lamento e la lamentazione glorifica, lo spazio stesso verso il quale «si precipitano tutti i mondi come verso la loro realtà più vicina e più vera», quello del più grande cerchio e dell’incessante metamorfosi, è lo spazio del poema, lo spazio orfico al quale il poeta indubbiamente non ha accesso, dove non può penetrare se non per sparire, dove non arriva che unito all’intimità della lacerazione che fa di lui una bocca senza intesa, come essa fa, di chi intende, il peso del silenzio: è l’opera, l’opera come origine.
(Blanchot, Lo spazio letterario)