Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel suo parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto.
Ma che significa dire (sagen)? Per esperire questo, è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola sagen. «Sagan» significa: mostrare, far sì che qualcosa appaia, si veda, si senta.
Stiamo dicendo di certo cose ovvie, e tuttavia non considerate in tutta la loro portata, se si tiene presente quanto segue. Parlare l’uno all’altro significa: dire insieme di qualcosa, mostrare reciprocamente ciò che la cosa chiamata in discorso, viene nel discorso a dire di sé, ciò che essa di per se stessa porta all’evidenza. Il non espresso non è soltanto ciò cui è mancata l’espressione fonica, bensì il non detto, il non ancora mostrato, il non ancora giunto a manifestarsi. Ciò che deve di necessità restare inespresso viene trattenuto nel non detto, rimane – in quanto inattingibile a ogni mostrare – nel nascosto, è mistero. La parola parla come parola nel senso di un messaggio il cui parlare non ha bisogno dell’espressione fonica.
Il parlare, in quanto dire, rientra nel profilo del linguaggio, profilo in cui si delineano modi del dire e del detto, nei quali ciò che è presente o assente si annuncia, si concede o si nega: si rivela o si sottrae. Le linee del profilo del linguaggio sono date dal dire nella molteplicità delle sue figure [nell’intricato labirinto dei suoi mille piani] e nella corrispettiva diversità del suo provenire. Avendo lo sguardo a queste linee del dire, chiameremo il linguaggio nel suo insieme die Sage [la Saga], riconoscendo che fino a questo punto ciò che imprime unità alle sue [molteplici] linee [di narrazione: … e … e … e …] ancora ci sfugge.
Noi usiamo oggi la parola Sage, come altri termini della nostra lingua, perlopiù in senso dispregiativo. Sage suona come pura favola, come diceria non fondata e quindi non degna di fede. Non è questo il senso con cui intendiamo la parola e nemmeno è quello, per essa capitale, che si ha in mente quando si parla di «saga degli dèi e degli eroi». S’intende allora per essa «la veneranda saga dell’azzurra sorgente» (Trakl)? Seguendo l’uso più antico della parola, noi intendiamo la Sage sulla base del Sagen (dire) in quanto Zeigen (mostrare) e, per denominare la Sage, in quanto su di essa poggia l’essere del linguaggio nella sua totalità, useremo un termine antico, ben documentato, caduto però in disuso: die Zeige […].
Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario (die Sage) in quanto Mostrare (die Zeige). Il mostrare proprio di questo [Dire originario] non si basa su un qualche segno, ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini [soltanto] acquistano la possibilità d’essere segni.
Quando si guardi alla struttura del Dire originario, non è possibile attribuire il mostrare né esclusivamente né preminentemente all’operare umano. Il mostrarsi, in quanto apparire, è il tratto distintivo dell’essere presente o assente di tutto ciò che è, quale che ne sia la specie o il grado. Perfino là dove il mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsi mostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare.
Solo quando si consideri il nostro dire in tale prospettiva, è possibile una determinazione adeguata di quel che è essenziale in ogni parlare. Il parlare è familiarmente noto come espressione del pensiero in suoni articolati per mezzo degli organi vocali. Ma parlare è insieme ascoltare. Abitualmente parlare e ascoltare vengono contrapposti: l’uno parla, l’altro ascolta. Ma l’ascoltare accompagna e recinge il parlare non soltanto così come questo si realizza nel colloquio. La contemporaneità di parlare e ascoltare ha un significato più radicale. Il parlare è, per se stesso, un ascoltare. È il porgere ascolto al linguaggio che parliamo. Perciò il parlare è, non al tempo stesso, bensì prima un ascoltare. Questo ascolto del linguaggio anche precede – nel modo meno avvertibile – ogni altro possibile ascoltare. Noi non solamente parliamo il linguaggio, ma parliamo [attingendo motivo e sostanza del parlare] dal linguaggio. E ciò possiamo unicamente per il fatto che sempre già abbiamo prestato ascolto al linguaggio. Ma che ascoltiamo? Ascoltiamo il parlare del linguaggio.
Ma è allora il linguaggio stesso che parla? Come potrà mai far questo? ha forse organi vocali? Eppure il linguaggio parla. Esso segue, innanzitutto e veracemente, il comando di ciò che fa essere il parlare: il dire. Il linguaggio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire scaturisce dal Dire originario, sia per quanto s’è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nell’atto che, come Mostrare (als die Zeige), raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsi presente, fa che da esse appaia o scompaia quel che di volta in volta si fa presente. Di conseguenza, noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo ascoltato. Lasciamo che ci giunga la sua voce che non ha suono, e vogliamo il suono che è stato tenuto in serbo per noi e, protendendoci verso di esso, lo chiamiamo. Un tratto, perlomeno, è probabile risulti, a questo punto, più chiaro nel profilo del linguaggio: come cioè il linguaggio abbia la sua identità nel parlare, e quindi come esso, in quanto linguaggio, parli.
Se il parlare come ascolto del linguaggio lascia che il Dire dica, questo «lasciare che» può avvenire e dar frutto solo nella misura in cui il nostro proprio essere è immesso nel Dire originario. Noi possiamo ascoltare tale Dire per il fatto che rientriamo nel suo dominio. Solo a quelli che gli appartengono il Dire originario accorda l’ascolto del linguaggio e, di conseguenza, il parlare. Nel Dire originario tale accordare [è, vale a dire] perdura. Esso ci fa pervenire alla capacità di parlare. Ciò che fa essere il linguaggio poggia in questo Dire originario che accorda e assicura.
Ma il Dire originario in se stesso che è? È esso qualcosa di staccato dal nostro parlare, sì che per giungervi dovrebbe venir prima gettato un ponte? O è invece il Dire originario il fiume della quiete, che già di per sé collega le sue rive, il Dire e il nostro ri-dire, nell’atto stesso che le fa essere? Le nostre consuete idee del linguaggio [che il linguaggio sia mezzo d’espressione dell’anima, dello spirito o del pensiero dell’uomo] si trovano a disagio con tale genere di pensieri. Il Dire originario – ma col tentativo di pensare il linguaggio in base a questo, non corriamo per caso il pericolo di fare del linguaggio una realtà fantastica, a sé stante, ignota e come tale destinata a limitarsi a una riflessione appena abbozzata sul linguaggio? Si vorrà pure ammettere che il linguaggio resta legato al parlare umano. Certamente. Resta però da chiedersi: di che specie è tale legame? donde viene e come esplica il suo potere la forza che lega? Il linguaggio ha bisogno e si avvale del parlare dell’uomo, e tuttavia esso non è semplice opera della nostra attività linguistica. Su che posa, cioè si fonda, il linguaggio? C’è il caso che, andando in cerca di fondamenti, ci immettiamo in un genere di domande per cui il vero essere del linguaggio necessariamente ci sfugge. […]
Una volta giunta presso il linguaggio come linguaggio, la riflessione s’è ormai lasciata la strada alle spalle: così sembra, né si può dire sbagliato, finché si consideri il cammino verso il linguaggio come il processo di un pensiero che riflette sul linguaggio. Ma la verità è che la riflessione, lungi dall’essersi lasciata la strada dietro le spalle, si trova ora soltanto all’imboccatura della strada tanto cercata, anzi – più esattamente – sulla sua traccia. Ché, nel frattempo, nel linguaggio si è reso manifesto qualcosa che dice: nel linguaggio in quanto Dire originario è presente e all’opera qualcosa cui si conviene il nome di via.
Che cos’è una via? La via consente di giungere. Ora il Dire originario è quello che, in quanto vi porgiamo ascolto, ci fa giungere alla parola. La via che conduce al parlare è entro il linguaggio stesso. La via al linguaggio inteso come parlare è il linguaggio in quanto Dire originario. Ciò che è determinante per il linguaggio come tale si cela dunque nella via: ché, appunto come via, il Dire originario consente a quelli che gli porgono ascolto di giungere al linguaggio. Il porgere ascolto implica che già si rientri nel dominio [che già si appartenga al dominio] del Dire originario. Il consentire l’arrivo, la via al parlare, presuppone che già sia stata consentita tale appartenenza. È proprio nel consentire tale appartenenza che consiste la vera essenza della via al linguaggio. Ma come è il Dire originario, perché gli sia possibile far essere quella appartenenza? Pare che, ove mai sia possibile che il carattere costitutivo del Dire originario si faccia manifesto, ciò debba accadere quando si presti più intensa e tenace attenzione ai risultati della chiarificazione qui tentata.
Il Dire originario è mostrare. In tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non [ancora] detto è in attesa di noi, non solo – ma in quello stesso parlare che noi veniamo mettendo in atto è all’opera il mostrare: è in virtù di questo che ciò che è presente appare, e ciò che è assente scompare. Il Dire originario non è affatto l’espressione linguistica, aggiunta in un secondo momento, di ciò che appare: vero è piuttosto che ogni apparire e non apparire poggia sul mostrare del Dire originario. Questo dischiude ciò che è presente nel suo esser presente, e lascia ciò che è assente disparire nella sua assenza. Il Dire originario domina e compone in unità la libera distesa di quella radura luminosa, cui quanto appare deve – per apparire – ricondursi, da cui quanto dispare deve – per disparire – allontanarsi, e in cui è scritto che l’esser presente e l’esser assente – quale che sia il modo della presenza o dell’assenza – manifesti e dica se stesso.
(Heidegger, In cammino verso il linguaggio)
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Dire è mostrare, ostentare, esibire, manifestare. Si può parlare senza dire, senza mostrare, senza far apparire, senza svelare nulla. Si può parlare anzi per non dire, per nascondere, per celare e simulare. Parlare è fingere. Ma si può parlare dando o negando credito alla finzione. Si può dire anche senza parlare. Il silenzio a volte può dire, e meglio delle parole. Si può dire a gesti, si può dire con lo sguardo, con un sorriso o un improvviso rossore sulle guance. Le parole invece, le nostre parole il più delle volte parlano, ma … perdona loro, esse non sanno di non dire nulla, di non aver più nulla da mostrare. E perciò eccole qua a festeggiare il crocifisso, un qualunque povero cristo che abbia, o che creda di avere, da dire qualcosa.
Le parole che non dicono, sono parole di lingue morte. Il dire invece, che a tentoni cerca di aprirsi una via tra le fitte parole del bosco, il dire che tenta di mostrare la via per la quale è venuto a dirsi dal fondo della cieca crudeltà della morte, il dire in rivolta, il dire che s’azzarda a restituire la parola alla vita, – deve lui portare la croce del Racconto. Lo vedi?, è sperduto nel bosco delle chiacchiere. E deve farsi strada da solo. A meno che non abbia avuto la fortuna di credere a un detto, la fortuna di credere, cioè di affidarsi, di dare udienza e prestare fede, a chi l’aveva detto. Allora, sulla via, il viandante ha una guida. Ha una traccia su cui poggiare i suoi primi timidi passi. Magari, a stento, ha udito una sola metafora, eppure gli basta per avere una visione, un’immagine, una figura. Una metafora – e lui vede le voci. Una sola metafora – e il suo ascolto produce immaginazioni.
E per esempio immagina se stesso nei panni di un viandante in cammino (lui ancora non lo sa) alla volta del linguaggio. Non importa se lo chiama paradiso – importante è che nel ri-dire del detto egli ri-veda la visione senza origine né fondamento, la visione suscitata da una vecchia metafora che, nel passaparola di Maestro in Maestro, fino a lui era stata tramandata. La metafora gli diceva il linguaggio, perché quel viandante era un bambino e non aveva la minima idea di cos’è un significato. La metafora era un fluire di suoni, era quel fiume che Heidegger, poeticamente, chiama «della quiete» tra le due sponde, del dire e del rispondere al suo richiamo senza significato. La metafora era l’eco della misteriosa assonanza, della fuggevole momentanea corrispondenza tra il dire e l’ascoltare. Era il dono donato al viandante dal suo demone. Il dono gli diceva solo questo – gli mostrava, vagamente, solo l’immagine di una via.
I mistici d’Oriente la chiamano tarîqat. I sufi ne fanno la prima lettera, la «retta via», della loro dottrina. È il loro alfa – se vuoi venire appresso a noi, dicono al neofita, bisogna che tu abbia una fede cieca nella via che stai percorrendo. Bisogna che tu sia ancora su quella via, in quel flusso di sonno desto, nella quiete di un abbandono all’ascolto, nell’illusione di una morte contenta. Eppure, i sufi sanno benissimo che il loro catechismo non è una via. La via è solo una metafora che essi suggeriscono a beneficio degli smarriti nella selva oscura delle parole. Là dove le parole parlano senza dire nessun significato, senza mostrare nessuna immagine. Là dove non c’è che il Dire dell’Altro – quello che il Filosofo chiama il Dire originario. Là dove il viandante può solo fermarsi ad ascoltare.
Sicché, quando la buonanima di Pitagora chiese ai suoi discepoli – ditemi: per dove siete giunti fino a questo convento? – ecco Parmenide (quando fu il turno suo), eccolo a ri-dire il dire del Maestro: se tu domandi «per dove», ça va sans dire, è perché sottintendi quel che io intendo: l’hai detto tu stesso che, per giungere fin qui, ovunque sia questo luogo del convegno, ho dovuto fare «una via».
Questo è tutto. Per favore, Virgilio, cerca di non complicarci le cose. Poche parole – molto dire. Poche parole per dire, per mostrare solo quella metafora che, da Parmenide ad Heidegger, non fa che ri-dirsi un’altra volta. Passando per Dante, naturalmente: ché la retta via era smarrita. Se l’ascolti, se ascolti il Dire degli smarriti nell’ascolto, anche tu avrai una via da dire. Avrai da ri-dire quando la via, a un tratto, ti si fece stretta. Lo dice pure il Vangelo: per entrare nel Regno della Parola, bisogna che una forza attragga e unifichi le molteplici vie in cui il linguaggio si disperderebbe, se non escogitasse il vincolo di una sua memoria – se non si forzasse a uscire dall’oblio, se non si lasciasse andare al gioco dei segni di memoria, al gioco delle immagini e delle figure in cui specchiare le sue passate, le sue insignificanti emozioni.