La ragione è dapprima un discorso comune, una discussione, che di fronte a una collettività scelta traduce in parole vincolanti un’esperienza nascosta, interiore. Poi il pubblico si allarga e un uomo solo si fa avanti a parlare, a persuadere, a manifestare l’ignoto. È il discorso retorico, la ragione retorica, dove l’effetto vincolante si mescola a quello emozionale.
Un altro passo, e il discorso retorico trova una forma scritta; il pubblico non ascolta più le parole, ma le legge, non è più coinvolto dal pathos personale, dalla magia del retore. Questa scrittura è nota sotto il nome di «filosofia», e conservava in principio, seppure illanguidito, l’elemento emozionale. Ma un passo ancora, è l’ultimo passo, e l’emozionalità svanisce del tutto.
Perduto il contatto con l’esperienza nascosta, il discorso scritto deve trovare un puntello in se stesso, e la vibrazione della parola vivente non subisce ormai un controllo – che sarebbe un’estensione di realtà – nel pensiero di chi discute, né nell’emozione di chi ascolta. Bisogna ridurre a uno i molti significati di una parola, si deve imporre tirannicamente il vincolo di una ragione che appartiene soltanto, senza una verifica, a chi scrive. L’unico simulacro, e per giunta menzognero, di quell’opera comune da cui è sorta la ragione rimane ora, quando ogni emozione è spenta, lo spirito sistematico.
Ecco l’edificio innalzato da un arbitrario architetto, con parole che hanno ricevuto un solo significato, legate assieme da un ordine, da una necessità che solo un tracotante legislatore ha sancito. Il «sistema» resta come surrogato di tutto quello che è andato perduto nelle trasformazioni precedenti, è il residuo di una certa retorica privata di emozionalità, risecchita, resa pedante dal puntiglio di far sopravvivere una ragione perduta.
Meglio di chiunque altro, Nietzsche ha schernito le illusioni e le presunzioni della filosofia sistematica, ma, irretito lui stesso dai miraggi di una filosofia come retorica, non ha saputo spingersi al di là di un recupero della sua fase primitiva ed emozionale. Con troppa fretta, e per difetto di profondità, ha condannato ogni metafisica, e la dialettica in generale, senza presagire che la loro origine sta in una sfera che sovrasta ogni retorica, e che da un punto di vista retorico non può essere demolita.
(Colli, Dopo Nietzsche)
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… è ragionevole ciò che sta entro i confini dei «si dice», è logico ciò che rientra nei ranghi del logos e si fa forte delle abitudini linguistiche, delle «dicerie» di una «collettività», dapprima ristretta e poi allargata, la ragione stessa non essendo che l’attitudine a dire sì solo a se stessa, nient’altro che il ripasso per il solito passo del «discorso comune». (Sto cercando di rappresentarmi a modo mio la rappresentazione che qui Colli mette in scena a proposito dell’origine della ragione e, con essa, dello spirito sistematico.)
La ragione, dice, non è che il tardivo effetto di un passato emozionale. E l’essere della logica dei filosofi non è che l’essere passato di una passione che fu, e che, quando fu, non voleva sentire ragioni – e che non le stette a sentire finché … ecco: è su questo «finché» che va a sbattere a ciascuno il suo teatrino, la sua narrazione: cosa mai successe di così letale da spingere la passione a migrare fuori di sé, in un’altra lingua? cosa la sedusse, chi la stregò a tal punto da farla infine finire di là dalla sua soglia patetica? cosa la rese, tutt’a un tratto, poietica?
Colli dice che, prima di consegnarsi a questo o a quel «sistema» filosofico, la passione primitiva passò per la lingua dei retori, per il «saper dire» dei maghi della parola. Non era ancora la nostra ragione, non ancora il logos dei filosofi, ma era già affascinata dal suono (phoné) delle voci, dai loro timbri, dalle loro vibrazioni.
E allora mi domando: prima dei retori, perché non i cantori, i musici o gli aedi? perché non i poeti? Poi ci ripenso. Che senso ha mettersi a scrivere, o anche solo ad abbozzare, una storia ragionevole del nostro Passato senza ragione? Non conviene semmai affrancarsi da ogni presunzione d’ordine – prima questi, poi quelli? D’altronde, non provengono tutti – retori, filosofi, musici e poeti – tutti indistintamente dal Reame delle loro emozioni primitive? e non sono passati tutti, artisti e non, per quell’estetico «finché» che li ha rigettati al di qua della Soglia, in gola alla Balena che tutti ci divora – nelle fauci dell’Immaginario, così come ogni dialetto del Discorso Umano se l’immagina?
Ha ragione Colli: la Soglia è il «dicere», e il «retore» non è che un «dicitore» più o meno raffinato, più o meno capace di suggestionare chi l’ascolta. Ma resta il problema: come hanno fatto a giungere le sue emozioni analfabete fino alla «retorica»? come passarono la Frontiera? furono per caso incantate dall’arte di un «retore» precedente? Perché, dunque, non lasciamo perdere ogni ragionevole tentativo di ricostruire la trafila storica per cui quelle emozioni sarebbero passate dalla phoné al logos, e non ci occupiamo piuttosto del loro incantamento erotico?
Non intendeva forse proprio questo Platone, là dove dice che Eros è il primo poeta? Non dice fu – dice è, perché l’incantesimo è e non cessa mai di essere sulla Soglia, ad attendere ogni neonato della nostra Specie. Non si tratta di un evento avvenuto chissà in quale passato remoto, ma dell’evento che avviene a tutte le emozioni infantili allorché sono prese per incantamento (Guido, io vorrei che tu e Lapo e io …) e, rimosse dal grembo del loro linguaggio ignorante e analfabeta, esse stesse si mettono al passato, e il loro essere passato diviene così fondamento dell’essere presente nel logos (Eros è).
Eros è l’Amato misterioso di Psiche. Eros è lo Sconosciuto di cui Psiche si invaghisce. Psiche avviene a ogni bambino incantato dal miraggio di potersi ricominciare daccapo. Psiche, in quell’incantesimo, è perché all’istante di tante emozioni sparse e disordinate non resta che lei sola – solo una macchina celibe macchinata dall’assenza di un molteplice essere passato – solo una macchina poetica macchinata dall’erotismo del linguaggio, dalla folle smania di illuminare lo Sconosciuto che l’innamora, di determinarlo con un «nome», di fissarlo in un «oggetto», di dargli un «significato».
Perciò, non è il caso di stare a misurare (e poi con quale metro?) la profondità di Nietzsche o di qualunque altra macchina «retorica» più o meno capace di fare i giochi di prestigio con le parole. Non è il caso di sistemare (questo sopra e quell’altro sotto) i dialettici e i metafisici, proprio mentre si critica la tendenza al Sistema. L’essere dell’è, il suo «erotismo» inconscio e ballerino, è sempre superficiale. Ogni «dicere» che dice il presente, non dice che l’essere stato di un miraggio che per un istante galleggiava, come Afrodite, sulla schiuma dell’onda. L’Oceano sarà «profondo» quanto si vuole, ogni «dicere», ogni «retorica» dell’Oceano è in superficie che nuota. Stile libero o farfalla – chi lo può dire?
Chi può dire, se non per fede (possibilmente cieca), chi può – se non per una credenza che è il suo errore incorreggibile – «dicere» di un aldilà delle emozioni, di un paradiso al di là delle impressioni infantili? Eppure è questo che Colli rimprovera a Nietzsche. Colli che ama Nietzsche, e che per amore se la prende fino a muovergli il rimprovero – Colli dice che Nietzsche si è fatto intrappolare nella «retorica», e che Zarathustra avrebbe fatto meglio ad avventurarsi al di là della «fase primitiva ed emozionale». Proprio Colli che si duole del progressivo «svanire» dell’emozionalità, rimprovera a Nietzsche di essersi limitato a dicere «emozioni».
Cosa avrebbe dovuto aggiungere? Cosa ci sarebbe oltre – giù nel profondo? Colli dice: c’è un’esperienza nascosta, interiore – un’esperienza più arcaica delle emozioni, più intima delle affezioni – c’è l’esperienza mistica, è sottinteso di un Soggetto «esperto», sebbene puro e incontaminato. Di una Sostanza credente che non si è ancora mai emozionata, che non è stata ancora infetta da nessun affetto – e che tuttavia è già esperta, già sa di paradiso anche se ancora non sa che quello è il suo paradiso. Ma, mi domando, se questa non è metafisica … di che si tratta?
Si tratta, l’ho già detto, ma è il caso di ripeterlo: si tratta di quella «cosuccia», di quel «non-nulla», che si chiama credenza. Si tratta della pietra angolare del Tempio delle voci che danno suoni timbri e vibrazioni (phoné) alle impressioni. I «costruttori» del Tempio (gli «artisti» di ogni tempo e luogo) non a caso sono uomini di fede. Uomini che credono nella compassione tra presente e passato, nell’eredità degli affetti, e che di questa «pietra di confine», cesellandola e scalfendola con la loro arte, fanno il fondamento dell’Umano – la Soglia tra il selvaggio e il civile.
E sta bene. Però, la domanda è: l’esperienza mistica è, come Colli suppone, una tabula rasa antecedente a ogni emozione, o soltanto quell’emozione eccessiva, quel troppo entusiasmo, quell’intensità affettiva così intensa da assorbire in sé e unificare più emozioni simili e perfino tra loro contrarie … in una Psiche?
Psiche crede nello Sconosciuto che le ha imposto un non mi vedrai – un tu crederai in me senza mai vedermi – l’ho già detto, ma è bene ripeterlo: l’Ignoto le ha imposto una fede cieca, una fede accecata da un troppo di luce, da un abbaglio, uno sbaglio, un fritto misto di impressioni immagini e/o idee, un’esperienza – questa sì, mistica! – una frittura di tutti i pesci che vennero a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo. La più superficiale delle sintesi possibili, la prima, l’antica – la sola pazziella ignara della pazzia a venire.
Credere nell’aldilà delle impressioni e delle emozioni infantili – è l’errore irrinunciabile di Colli, quello che gli fa «dicere» tutto ciò che «dice» in buona fede. Perciò gli voglio bene. Perché neanch’io so rinunciare al mio errore, e tutto ciò che «dico» è perché non voglio correggerlo. L’essere passato per quell’errore – è il solo presente, la sola bugia che mi so dire. Lascio ben volentieri agli altri la ricerca della verità, o del santo Graal. Qui, per ora, devo rendere a Cesare quel che è di Cesare – restituire avidamente a Colli quello che l’errore di Colli sbadatamente mi ha insegnato.
Mi ha insegnato a domandarmi dov’è di casa la «credenza» nello Sconosciuto di cui non si ha esperienza, e perciò nessuna conoscenza. A domandarmi cioè se la «fede» è il frutto delle più acerbe impressioni e affezioni infantili, o se al contrario è il loro seme profeticamente nascosto nel fondo inaudito di una chiara preveggenza.
Lo so, è una domanda campata per aria – eppure è così che la macchina emotiva funziona: credendo. Psiche è perché crede all’incantesimo – anche se l’incantesimo è campato per aria. Quando non ti vedo, esisti? I Paesi che non ho mai visitato, esistono? Né di te, né di quei Paesi ho impressioni in questo momento. Chi mi garantisce che tu non sei un’ombra che va e viene, che appare e scompare solo per sedurmi e ingannarmi? Basta forse un mappamondo a darmi la certezza che l’America esiste, anche se non ci sono mai stato?
Ha ragione Colli: la credenza non è il frutto delle impressioni e delle emozioni. Ha ragione. Solo che non ne consegue necessariamente che la credenza è un evento, per così dire, anestetico – senza emozioni. La «credenza», al contrario, si nutre di tutta una mistura di affezioni – non le precede, ma nemmeno è una loro «partorizione». La «credenza» è una mistica d’impressioni – ma nessuna impressione può vantarsi d’averla messa al mondo. La credenza è sempre vergine immacolata che ricomincia la sua verginità perdendosi nella distanza dalle emozioni di cui si nutre. Ma allora di chi è «figlia» quella libidine per cui ogni «credenza» ha piacere a credere in se stessa?
Eros, il primo «poeta», è figlio di Ricchezza e Povertà – dice Platone: figlio di Abbondanza e Privazione: figlio del molteplice e dell’unico, della caotica molteplicità di impressioni che l’emozionano, e dell’unica contingenza, della sola occasione, di raccoglierle tutte quante in una sola sintesi … ti ricordi? – tutti i pesci vennero a galla … vennero tutti assieme a specchiarsi nell’Immaginazione, a riflettersi e a darsi un’estensione (dapprima vocale, e poi logica) nel Discorso Umano: in mezzo a tante papere era finito per errore un cigno – un cigno che cantava la sua morte, finché dal fondo di una sconosciuta lontananza non gli tornò la sua stessa eco a incantarlo. L’eco vagamente diceva: ricomincia da qui … ricomincia dalla coda del Passato.
È dalle nozze di impressioni individuali e di immagini e/o idee sociali che nasce Eros: nasce il Poeta Sconosciuto, di cui – in ogni infante – Psiche s’innamora. Psiche non l’ha mai visto, e mai lo vedrà. Psiche ci crede. Eros è la sua esperienza nascosta – quell’esperienza così intensa, quell’emozione così pazza, quell’entusiasmo così demente da spingersi ad accendere la luce, per dare un volto, una figura, una materialità d’«oggetto» all’invisibile, al fascinoso Numen che l’Immaginazione dallo specchio restituisce alle sue fantasie – ai suoi desideri ancora senza oggetto.
Stile libero o delfino, rana o farfalla – a volte perfino facendo il morto – le emozioni individuali imparano poco a poco a nuotare sull’onda dell’Immaginazione sociale. Le affezioni infantili non sono di per sé credenti. Lo diventano quando si riflettono nelle immagini e/o idee di un dialetto volgare. È là, in quello specchio, che esse si affezionano a un miraggio. L’immagine e/o idea – è essa la Creduta, la Santa, la Gloriosa Beatrice. È la mente e la memoria umana che si sposa alla loro natura. Perché non c’è altra Sostanza Credente, né altro Soggetto che si fida ciecamente dei suoi stessi giochi di prestigio, all’infuori dell’Immaginario Umano, della sua Coscienza e del suo Inconscio.
Altro che profondo. L’immaginario è il solito Superficiale, nella cui lingua le affezioni infantili si traducono per errore – per un insolito errore del tutto casuale e contingente. Nientemeno un cigno costretto a morire cantando nella lingua (per il piacere e secondo il gusto) delle papere. È l’Immaginazione, l’Idioma delle papere, a fargli credere in una coerenza tra le sue impressioni – tra il loro essere passato indifferente a ogni credo, e il loro essere presente a questa o a quella fede. È il Discorso delle papere a suggerire al cigno la finzione delle finzioni umane: ossia, che c’è una continuità tra l’assenza e la presenza. È l’Immaginario sociale a prestare una fede alle emozioni primitive – esso a farmi credere che tu ci sei anche se non ti vedo, non ricordo più da quando, esso a farsi garante dell’esistenza di tutti i continenti, delle stelle e perfino delle galassie da me più remote.
Non solo, né per prima la «retorica», ma insieme e tra loro confuse – musica, poesia e ogni altra «arte» – tutte le «voci», dapprima enunciate e poi messe per iscritto, parlano il presente idioma di papere che credono nel Mondo. Eppure, non ce n’è una fra loro che non sia stata una volta un cigno … finché un desiderio del cigno non è stato così folle da voler vedere coi suoi occhi lo Sconosciuto – perché in quella follia gli avvenne di trasformare la sua collezione patetica di immagini e/o idee in un sistema di artifici e di finzioni, nel sistema del sapere e degli oggetti del sapere, nel sistema del desiderare e degli oggetti di desiderio, in cui localizzare e attivare la sintesi delle proprie fantasie.