La famosa novella del Brutto anatroccolo di Andersen – cioè del cigno capitato per errore in un branco di anatre – può essere tradotta in termini matematici «nell’avventura di un elemento A, capitato per errore nell’insieme degli elementi B, che non trova pace fino a quando non rientra nel suo insieme naturale, quello degli elementi A …».
Il fatto che Andersen non abbia potuto pensarla in termini di insiemistica non ha importanza. Che probabilmente non lo abbia nemmeno sfiorato il sospetto di star giocando con le classificazioni di Linneo, a lui pur note, non conta nulla. Egli aveva in mente ben altro: soprattutto una parabola della sua stessa vita, da «brutto anatroccolo» a cigno di Danimarca.
Ma la mente è una sola e non c’è angolo di essa che possa rimanere estraneo ai movimenti e all’attività mentale, comunque intenzionata. La novella, a sua insaputa, è anche un esercizio di logica. Ed è difficile rintracciare un confine tra le operazioni della logica fantastica e quelle della logica senza aggettivi. Così il bambino che ascolta o legge la novella, passando dalla tenerezza all’entusiasmo, e scoprendo nel destino del «brutto anatroccolo» una sicura promessa di trionfo, non può accorgersi del fatto che la novella stampa nella sua mente l’embrione di una struttura logica: ma il fatto rimane.
Ora la domanda è questa: è lecito battere il percorso inverso, partire da un ragionamento per trovare una favola, utilizzare una struttura logica per un’invenzione della fantasia? Io credo di sì. Se racconto ai bambini la storia di un pulcino smarrito che va in cerca della mamma e dapprima crede di riconoscerla in un gatto (« – Mamma! – Miao, pussa via o ti mangio!»), poi in una mucca, in una motocicletta, in un trattore … e infine incontra la chioccia che lo stava cercando e che sfoga su di lui la sua ansia in quattro scapaccioni (ricevuti, per una volta, con beatitudine), io mi ricollego fondamentalmente a uno dei loro bisogni profondi, che è quello di avere in ogni momento la sicurezza di ritrovare la madre; faccio rivivere loro, prima dello scioglimento consolante, la tensione con cui spesso hanno temuto e temono di perdere i genitori; tocco certi meccanismi del riso; ma al tempo stesso metto in moto nella loro mente un processo essenziale alla fabbricazione di strumenti conoscitivi. Associando, essi si esercitano a classificare, a costruire insiemi possibili, a escludere insiemi impossibili di animali e di oggetti. Immaginazione e ragionamento, nel loro ascolto, fanno tutt’uno e noi non siamo in grado di predire se ciò che resterà in loro durevolmente, a storia finita, sarà una certa emozione o un certo atteggiamento verso il reale.
Un’altra storia da raccontare al bambino, in quest’ordine di idee, è quella che io intitolerei Il gioco del «chi sono io». Un bambino domanda alla madre: – Chi sono io? – Sei mio figlio, – risponde la madre. Alla stessa domanda, persone diverse daranno risposte diverse: «tu sei mio nipote», dirà il nonno; «mio fratello», dirà il fratello; «un pedone», «un ciclista», dirà il vigile; «il mio amico», dirà l’amico … L’esplorazione degli insiemi di cui fa parte è per il bambino un’avventura eccitante. Egli scopre d’essere figlio, nipote, fratello, amico, pedone, ciclista, lettore, scolaro, calciatore: scopre, cioè, i suoi molteplici legami col mondo. L’operazione fondamentale che egli compie è di ordine logico. L’emozione ne costituisce un rafforzamento.
Conosco maestri che inventano, e aiutano i bambini a inventare, bellissime storie manovrando i «blocchi logici», i materiali strutturati per l’aritmetica, i gettoni per l’insiemistica, personificandoli, attribuendo loro ruoli fantastici: questo non è «un altro modo» di fare insiemistica, in opposizione al modo operativo-manuale che questo insegnamento esige nelle prime classi. È sempre lo stesso modo, ma arricchito di significati. Si trova impiego così non solo alla capacità del bambino di «capire con le mani», ma anche a quella, ugualmente preziosa, di «capire con la fantasia». In fondo, poi, la storia del Triangolo Blu che cerca la sua casa tra i Quadrati Rossi, i Triangoli Gialli, i Cerchi Verdi, ecc., è ancora la storia del Brutto anatroccolo, ma ricreata da capo, reinventata e rivissuta con un di più di emozione che le conferisce una colorazione personale.
Un’operazione mentale più difficile è quella che porta a capire che «a più b è uguale a b più a». Non tutti i bambini ci arrivano prima dei sei anni. Il direttore didattico Giacomo Santucci, di Perugia, domanda regolarmente agli scolari di prima classe: – Tu hai un fratello? – Sì. – E tuo fratello ha un fratello? – No, è la bellissima e recisa risposta, nove volte su dieci.
Può essere che a questi bambini non siano state raccontate in numero sufficiente storie magiche in cui la bacchetta della fata, o uno scongiuro del mago, possono produrre con la stessa facilità certe operazioni e le operazioni contrarie: mutare un uomo in topo e un topo di ritorno in uomo. Storie del genere possono benissimo (e mettiamoci pure un «fra l’altro», per non indurre in equivoci) aiutare la mente a fabbricarsi lo strumento della reversibilità.
Una storia in cui un poveretto, caduto in città da chissà dove, dovendo prendere per arrivare in piazza del Duomo il tram numero tre e poi il tram numero uno, immagina che risparmierà un biglietto prendendo invece il tram numero quattro («tre più uno»), potrà invece aiutare i bambini a distinguere tra addizioni corrette e addizioni impossibili. Prima di tutto, naturalmente, li divertirà.
Laura Conti ha raccontato nel «Giornale dei genitori» che da bambina coltivava questa immaginazione: «In un piccolo giardino c’è una grande villa, nella grande villa c’è una piccola stanza, nella piccola stanza c’è un grande … giardino». Questo gioco sulla relazione tra «grande» e «piccolo» rappresenta una prima conquista della relatività. Penso che sia molto utile inventare storie del genere, di cui siano protagoniste le relazioni-opposizioni: «piccolo-grande», «alto-basso», «magro-grasso», ecc. C’era una volta un piccolo ippopotamo. E c’era anche un grosso moscone. Il grosso moscone scherzava il piccolo ippopotamo, perché era piccolo … Eccetera (fino alla scoperta che un piccolo ippopotamo è sempre più grande di un grosso moscone). Si possono immaginare viaggi «verso il più piccolo» o verso «il più grande». C’è sempre un personaggio più piccolo del più piccolo personaggio. C’è sempre (la storia è di Enrica Agostinelli) una signora grassa più grassa di un’altra signora che si dispera perché è grassa …
Un altro esempio, per illustrare la relazione e la relatività di «poco» e «molto»: Un signore aveva trenta automobili. La gente diceva: uh, quante automobili! … Quel signore aveva anche trenta capelli. E la gente diceva: ih, che pochi capelli ha quel signore … Finì che dovette comprarsi una parrucca. Eccetera.
Fondamento di ogni attività scientifica è la misurazione. Esiste un gioco per bambini che dev’essere stato inventato da un grande matematico: il gioco dei passi. Il bambino che comanda il gioco ordina ai suoi compagni, di volta in volta, di fare «tre passi da leone», «un passo da formica», «un passo da gambero», «tre passi da elefante»… Così lo spazio del gioco è continuamente misurato e rimisurato, creato e ricreato da capo secondo diverse unità di misura fantastiche. Da questo gioco possono prendere spunto esercizi matematici molto divertenti, per scoprire «quante scarpe è lunga l’aula scolastica», «quanti cucchiai è alto Carletto», «quanti cavaturaccioli ci sono dalla tavola alla stufa»… Dal gioco alla storia il passo è breve.
Un bambino ha misurato, alle nove di mattina, l’ombra del pino che sta nel cortile della scuola: è lunga trenta scarpe. Un secondo bambino, incuriosito, scende alle undici a ripetere la misurazione: l’ombra è lunga soltanto dieci scarpe. Discussione, litigio. I due bambini vanno insieme a misurare l’ombra alle due del pomeriggio e trovano una terza misura. Il mistero dell’ombra del pino mi sembra un titolo adatto per una storia che può essere vissuta e raccontata insieme.
La tecnica, per così dire, «esecutiva» per inventare storie di contenuto matematico non diverge da quella che abbiamo qua e là illustrato in relazione ad altre storie. Se un personaggio si chiama «Signor Alto», ha nel nome il suo destino, nella sua natura le sue avventure e le sue disgrazie: basta analizzare il suo nome per dedurne i casi. Egli rappresenterà una certa unità di misura del mondo, un punto di vista speciale, che avrà vantaggi e svantaggi: vedrà più in alto di tutti, ma si romperà spesso in tanti pezzi che bisognerà pazientemente rimettere insieme … Si presterà a fare da simbolo, come ogni altro giocattolo, ogni altro personaggio. Potrà perdere per strada le sue origini matematiche, per acquistare altri significati: e bisognerà lasciar libera la fantasia di seguirlo fin dove si può spingere, senza imprigionarlo in uno schema della volontà e dell’intelletto. La storia, per riuscire, deve sempre essere servita con fedeltà, nella sicurezza che l’esercizio di fedeltà sarà compensato al cento per uno, come dice giustamente il Vangelo, quando raccomanda di pensare al Regno dei Cieli, perché il resto verrà da sé.
(Rodari, Grammatica della fantasia)
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In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato […], codesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A, sebbene stia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico. (Kant, Critica della ragion pura, Introduzione: 4)
È per errore che il cigno (elemento B) si trova immischiato nell’insieme delle anatre (elementi A). La cosa è insolita, dal momento che i cigni sono soliti associarsi ai cigni, e le anatre alle anatre – i simili ai propri simili, i prossimi ai loro prossimi, i figli ai loro genitori e gli effetti alle loro cause. Che ci fa dunque il cigno in mezzo alle anatre?
Te lo dico subito: fa l’errore di una fantasia che, vagando tra le immagini, si localizza fuori di sé. L’uovo di un cigno che si schiude in un nido di anatre fa la sintesi: il «brutto anatroccolo». Non un anatroccolo qualsiasi, un predicato cioè già implicito nel soggetto «essere anatra» (giudizio analitico), ma quello «brutto», quello cioè che dell’anatra predica qualcosa che è interamente al di fuori del concetto «anatra», qualcosa di «incompreso», qualcosa addirittura di «inconcepibile», dal momento che nessun’anatra potrà mai concepire un cigno.
Il «brutto anatroccolo» è l’estensione di una fantasia errabonda al di fuori del suo linguaggio naturale, al di là delle sue solite associazioni d’immagini e/o idee. È la somma (che è qualcosa in più, qualcosa d’altro, molto altro di più di una semplice associazione, un «sovrappiù d’argilla», un surplus, un eccesso): al soggetto A («essere anatra») addiziona un predicato B («essere cigno») che non è contenuto nell’insieme degli elementi A. Quel che ne viene fuori non è né anatra né cigno – è soltanto un brutto anatroccolo, un essere «deforme». A deformarlo è la relazione «fantastica» tra i due termini (soggetto e predicato, insieme A e insieme B). La relazione è l’«eccedente», non è né cigno né anatra, è una terza «cosa», una «cosa» che in sé non si mostra, sebbene il suo effetto sia decisamente un mostro, anche fin troppo evidente.
Questo mostro, questo sgorbio di natura (nel nostro caso il brutto anatroccolo) è il resto che una «intensità di fantasia» partorisce altrove – non la trattiene né la estingue nel suo grembo, ma la estende fuori di sé, in un altro linguaggio: traduce il canto del cigno nell’idioma delle anatre. Chi mai potrà intenderlo? È il canto della fine. Semele finisce là dove Dioniso inizia a parlare la lingua di Zeus. Strana lingua, è questa. Lingua impotente a dire la sua erronea provenienza da un altro linguaggio.
Le scimmiette sanno solo associare analiticamente, là dove invece il genio del linguaggio umano si azzarda a sintetizzare saltando di palo in frasca, da un insieme all’altro, da un flusso emotivo all’altro. Le scimmiette non saltano che di ramo in ramo, di simile in simile: esse sono assai più «coerenti» di noi uomini – non si consentono la stramberia di sovrapporre il sacro al profano, l’ideale al reale, e tantomeno bazzicano il cammino inverso.
Solo il genio di un linguaggio mariuolo, solo la razzia di una fantasia pirata, ammucchia la refurtiva più disparata. Ogni sua pirateria, come fantasiosamente qualcuno l’ha voluta chiamare, è un esercizio di bricolage che consiste nel prendere a volo quello che per caso si trova a portata di mano, un insieme di anatre per es., per farne il «luogo» in cui non si associano più anatre ad anatre (impressioni a impressioni simili o contigue, affezioni ad affezioni dello stesso «colore»), ma si sintetizza il simile col dissimile, il solito con l’insolito, il più familiare con l’estraneo.
La sintesi è qualcosa in più, la «sintesi» è un salto, una capriola algebrica nel linguaggio (a prescindere se questo sia il linguaggio di una «mente» individualmente già in atto, di un «io penso» trascendentale, come vuole Kant, o se non sia piuttosto il linguaggio di un «corpo» analfabetico, di un corpo passivo, come suggerisce Hume, di un corpo patetico in cui viene attivata una «mente» sociale).
La sintesi non associa semplicemente due «patemi» simili o prossimi – la «sintesi» si avventura nella lontananza: se ha voglia di ciliegie (per parafrasare Freud), non si limita ad arrampicarsi sull’albero, ma va sulla luna a cercare «qualcos’altro», un «nutrimento» che trascenda il sapore di tutti i frutti del paradiso, un «cibo» remoto.
E già … la «mela di Eva» è il bel male di cui si ammala il linguaggio del desiderio: saltando di palo in frasca (il male non è implicito nell’«essere bello», eppure la sintesi ve lo aggiunge), saltando dalle ciliegie alla Luna (dalla fedeltà ad Adamo al tradimento col Serpente), il desiderio sovrascrive su una vecchia immagine ciò che impressiona ed eccita, nel momento presente, il suo «gusto».
Sintesi immaginale: un’immagine attuale, per non affondare nel «non-dove» del solito oblio, per stare a galla, per tenersi in superficie, si concentra, si dà un centro, si fissa, si specchia, si scrive su un’altra immagine, fa di quest’altra il suo «antico documento», ne diviene la «seconda pelle», più superficiale e peccaminosa della precedente.
La nuova non cancella l’antica. Perderebbe il sostegno alla sua sussistenza. La nuova non somiglia all’antica. Non sarebbe una sintesi, ma una qualunque abituale associazione. La nuova non è contigua all’antica. Idem. La nuova non è un effetto dell’antica. Idem. La sintesi è un movimento libero dall’una all’altra. Libero dai «legami» di appartenenza a uno stesso «insieme», a una stessa serie di impressioni, a uno stesso flusso di percezioni. La sintesi è un balzo, un soprassalto del desiderio. I due «termini» del desiderio (le mele, la Luna; il paradiso e l’inferno) sono lontanissimi, irriducibili l’uno all’altro. La sintesi eleva al quadrato il gioco delle differenze, il gioco ad associare differenti. A differenza di tutti gli altri linguaggi animali, solo il linguaggio umano sintetizza, si rende disponibile ad aggiungere e sommare.
Sappiamo come stanno le cose. Kant dice che ne abbiamo nella mente un concetto a priori. Dice che noi non sappiamo a priori quanto fa 7 + 5. Eppure sappiamo a priori praticare quella certa operazione che si chiama addizione. O come a me piace dire: sappiamo a priori praticare il sacrificio e il tradimento di qualunque «identità», sia essa di immagine, numero, nome o idea. Lo sappiamo per averlo empiricamente sperimentato nel nostro fantasticare infantile – un continuo caotico disordinato saltare di palo in frasca, in piena libertà di gusto, di desiderio, di erotismo.
Kant parla di «giudizi sintetici». Ma tu, togli soggetto e predicato e, invece della kantiana «analisi logica», prova a trattare A + B come la «somma errata», l’addizione tutt’altro che «giudiziosa» di due impressioni patite l’una lontana dall’altra, in due diversi «non so dove» (il cerchio e il quadrato, il paradiso e l’inferno), in due distinte serie affettive (il piacere e il dolore, il riso e il pianto). Prova a immaginarla come la loro «confusione estetica». L’una riproduce la storpiatura, la distorsione dell’altra. L’una sacrifica l’altra. La profana. La volgarizza. Sulla «santa» Beatrice scrive la Donna «gentile». Tradimento sintetico. Il linguaggio umano è il solo che tradisce, che dice le bugie e inganna – perché è il solo a praticare l’erotismo delle sintesi. Gli altri animali non sanno sommare, perché non mentono. Non mentono, perché non fanno all’amore fino al punto di spingersi al di là della loro naturale lussuria.
La menzogna lussuriosa, la sintesi libidinosa, non è né cigno né anatra – ma il brutto anatroccolo. E il brutto anatroccolo, chi è?
La risposta erudita sarebbe: è Dioniso, il «frutto» di Madonna Fantasia, che si sorprende a esistere in tutto un altro mondo. Lui, il «figlio» di una passione, a non dover più vivere nel grembo del suo gusto e del suo arbitrio, ma a fare i conti con la «logica» degli insiemi fissati da Zeus.
La risposta analfabeta, quella che i bambini capiscono meglio dei loro dotti maestri, è invece un’altra. Il brutto anatroccolo (ogni bambino sa di esserlo, lo sente sulla sua pelle) è l’errore in cui incappa una fantasia quando, come Narciso, si riguarda allo specchio delle immaginazioni sociali. Non ne viene fuori che uno scarabocchio … un aborto di sentimento, un desiderio guasto, un canto del cigno che non fa in tempo a cominciare, che viene subito risucchiato nel vortice dei risentimenti umani. Il cigno si trova, suo malgrado, a doversi riflettere sullo specchio delle anatre. E questo specchio non può fare a meno di farlo apparire distorto – di renderlo brutto, anche se è uno splendore.
Se le fantasie infantili «partoriscono» splendori (solo ciò che le abbaglia, è), non c’è però splendore che, una volta riflesso nelle immaginazioni e nelle significazioni sociali, duri più di un istante. Il cigno «muore», e nel vuoto aperto da questa «morte», si staglia l’istante, il bagliore della sintesi immaginale, il miraggio, ahimé – l’errore. L’incorreggibile errore, che è fondamento di ogni «io». L’istante dell’avvento miracoloso del Soggetto della Mente.
Quello splendore – quella folgorazione in cui, miracolo!, stupore!, ogni somiglianza torna, per così dire, alla sua materia prima, e vi si dissimula in un’altra finzione – non dura che l’istante della sua eterna Mezzanotte. Quello, solo quello, è l’istante di Dioniso. L’istante in cui tutto si rimescola, dove impera l’Altro, dove l’Oscuro fulmina ogni emozione allucinando di colpo tutte le somiglianze e tutte le differenze, ed è di nuovo il caos senza logica. Ma, di nuovo, è anche la «credenza» che da questo caos, per sbaglio, un cigno «rinasca» in una nidiata di anatre, per essere l’Evidente dissimile dalla loro somiglianza. Allora, dissimulata tra le immaginazioni e le significazioni sociali, la fantasia falsifica un’altra volta il suo falso, l’eleva di una potenza, e in un istante, per sbaglio, fantastica la sintesi del brutto anatroccolo – di quel mostro altro dal cigno e dalle anatre, altro da ogni altra cosa, l’Altro fatto persona, maschera, velo di una rivelazione in cui si oscura ogni «differenza» e, di nuovo, è l’illusione di una «identità» senza passato, senza origine, senza arkhé, senza colpe né peccati originali. L’allucinazione dura quel solo istante – quel solo sentire che, però, appena risentito, produce la sua propria eco perversa. Quel sentire non può più fare a meno del suo errore.
Questa è la verità, che ci sembra tuttavia errore, ma che è vera appunto perché le accade di essere errore (Hegel)