La rivolta è assurda, e perciò è esclusa da ogni «ragionamento». È l’esclusa della cui esclusione si fa forte il «ragionamento» che la rinnega. È tenuta lì, fuori dalla porta, come un cane da guardia, al servizio della Storia. La rivolta non ha da rivoltarsi che contro la Storia che le impone il «ragionamento». La rivolta è estranea a ogni comandamento, la sua dimenticanza ignora ogni memoria, si oppone e resiste all’arbitrio di ogni legge. La rivolta è quella assurdità che ci portiamo dentro, una vecchia assurdità che non cessa d’insorgere in ogni nostra emozione intensa. D’insorgere contro chi le impone un limite «ragionevole», o una «ragionevole colpevolezza», come ben dici tu, mio caro Camus.
È come un ritornello che si gira e si rigira, inquieto, tra le strofe d’una vecchia canzone per seminarvi la zizzania delle sue incompiute monotonie. La rivolta è sempre di uno «spiritello» che viene a prendersi gioco di ogni «limite», per dare una svolta ai divieti e alle proibizioni, con l’illusione, sempre smentita dalla Storia, di poter dare un avvenire alle sacre reliquie di una memoria a lutto: questo, nel suo gergo, ci manda a dire perfino Mastro Dante dal Convivio. Ci manda a dire che la Rivolta, qualunque rivolta, è solo e sempre «nel suo primo insorgere» che va scrutata, perché poi, subito dopo, si ammala pur essa del male contro cui si è rivoltata – pur essa, ahimé, diventa memoria, fedeltà, abitudine, storia, stantia ripetizione, stretta osservanza di un culto, di una pietà, di un rituale. Pur essa diventa, ahimé, una superstizione dispotica.
In ogni rivolta, solo quel «primo momento» si dovrebbe mettere a fuoco – perché esso, da solo, dice assai più di quel che dice la dialettica del servo che insorge, tutto sommato, solo per divenire lui il padrone. Cogliere si dovrebbe quel «primo momento» di reazione, quel «primo moto» di sovversione, quando ancora è nudo di ogni «valore», vuoto di ogni «idea» e ignaro di una qualsiasi «strategia». Coglierlo, dunque, quando ancora non sa che l’attende una lunga Guerra, e che molti rivoltosi finiranno per vendersi al buon-senso per quattro spiccioli di gloria.
Ma, insomma, cos’è mai questa «vecchia assurdità» che incessantemente si ripeterebbe, sempre capace di ricominciarsi da capo, nello slancio iniziale, ma solo in quello, di ogni rivolta? Non è il caso di girarci ancora intorno con le parole.
In questione qui sono le affezioni, le passioni infantili – sono esse le «Amazzoni» che si rivoltano contro ogni «disciplina» che pretenda di allinearle al proprio regime. Ogni grammatica, ogni memoria, ogni coscienza, ogni struttura logica, a loro va troppo stretta. Ogni significazione, finanche la più poetica, è in contraddizione con la loro natura, e di fatto serve solo a una loro ennesima «rimozione», solo a un altro loro «spostamento», sempre più in là, sempre più alienato dal Grembo di Semele, sempre più fuori, nel Paese dell’Altro, di Zeus – il padreterno.
Quando principiano a riflettersi sullo specchio delle significazioni, le affezioni infantili non fanno ancora nessun «ragionamento». Si rivoltano contro l’arbitrio che vuole imporre loro una museruola, un abito di scena, una qualifica, un ruolo. La loro prima reazione è, dunque, ripulsiva – ribelle a ogni morso laccio o catena con cui si tenta di imbrigliarle. In principio, le affezioni protestano, le passioni contestano: siamo noi, gridano ad alta voce. Anche se non hanno ancora le parole, si capisce benissimo l’urlo del loro dolore: siamo noi, urlano, noi il pretesto di ogni testo! Siamo noi la passione di quel povero cristo sacrificato alla «scritta» che lo domina dall’alto della Croce. Siamo noi le pecorelle immolate, noi lo smarrimento che provammo sotto i colpi di gendarmi feroci custodi del Gregge. Siamo noi le tradite – le tradotte e tramandate in un’altra lingua nata dalle ceneri di nostra madre Semele. Siamo noi le Troiane afflitte di cui narra Euripide.
Se c’è «rivolta» nel senso comune della parola (rivolta sociale, insurrezione politica, sommossa popolare), è dunque solo perché avanza sempre un «seme di discordia» al patto che hanno stipulato le affezioni e le significazioni (ma, se vuoi, puoi anche dire: Faust e Mefistofele). Rimane qualcosa di quella che fu la prima rivolta, qualcosa di non pattuito né col Padreterno né col Diavolo, qualcosa di indeterminato e di arbitrario, qualcosa di assurdo, qualcosa che sfugge al dispotismo delle determinazioni logiche.
Perciò, mio caro Camus, se proprio vogliamo vederci un «sì» implicito nel «no» della rivolta, qualcosa per cui la rivolta, a sua stessa insaputa, si batterebbe – qualcosa che la rivolta vorrebbe «affermare» quando ancora non ha le parole per farlo – non sono certo i «diritti dell’individuo», bensì quelli delle passioni e delle affezioni, sono i diritti dei desideri che ancora acerbi e indeterminati vagano liberi nella fantasia infantile … finché non incontrano una Legge che li «incolpa»… sono essi che vengono torti e ritorti, essi a essere sacrificati al Diritto. La rivolta è più «arcaica» di ogni soggetto – non è di uno schiavo contro il suo padrone, ma di un Libero Bacco, di un movimento di desiderio, a cui viene proibito il suo capriccio.
Non esiste alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; colui che fa non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto.
(Nietzsche, Genealogia della morale)
Il «fatto» (quello, ad es., a cui si appella in principio la logica di Wittgenstein), il fatto (e non la «cosa»: c’è una bella differenza!), l’effetto dunque di un «fare», l’atto di un «agire», il divenuto di un «divenire», il «dato» che a ciascuno è dato (non si sa e non importa da chi) – non ha un Soggetto se non a posteriori, e solo quando esso cade «sotto la seduzione della lingua che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un soggetto» (Nietzsche). Nel «fare», nelle onde del «tutto scorre», nella corrente dei nostri nervi infantili, non è sottinteso nessuno. Sono le rappresentazioni, le finzioni, le «falsità», le «maledizioni» del Logos che s’incaricano di aggiungerlo. È il Teatro a pretendere la presenza di un Attore, non il «fare» che da sé si fa e si disfa nella tela delle nostre fantasie infantili.
Se per qualcosa perciò la rivolta si batte, non può essere per i diritti di colui che si rivolta, perché nel «fare» della rivolta, nel momento del suo primo insorgere, non c’è ancora un soggetto individuale. In quel momento non ci sono che impressioni e percezioni che si ribellano. Ecco perché la rivolta si batte per il diritto delle passioni alla sopravvivenza (perché la questione, qui più che mai, è di vita e di morte). Nulla sapendo di «diritto», meno che mai mentre patisce il torto, la rivolta non anela che a rimanere fuori da ogni storia – a ritrarsi da ogni immaginazione, da ogni futuro.
È quando la rivolta si riflette nello Specchio dell’Immaginazione Umana, è allora che essa si tradisce. Guardandosi allo specchio, la rivolta si rivede sacrosanta, giusta e degna di non so quale interesse, per cui, a furia d’interessarsi a se stessa, alla sua «giustizia» e alle sue «legittime» rivendicazioni, si dà una profondità che inizialmente non ha, e si avventura in una sfida ai codici del Diritto, in una ricerca del proprio «senso» nei meandri del Logos, finché non si costruisce una sua finzione immaginale e si attribuisce un «significato», e perciò stesso diventa malvagia. Si perverte alla Pazzia, alla Lingua Nemica, a cui la sua Pazziella faceva, fino a un attimo prima, resistenza.
A nessuna passione ripugna il gioco immaginale. Non ce n’è una a cui dispiaccia il veleno, il farmaco, l’afrodisiaco, la fascinazione delle immagini. No. Le passioni si rivoltano contro il dispotismo, contro il «dover-essere», che s’erge a loro innanzi a sancire divieti, tabù e proibizioni. C’è della crudeltà finanche nell’imperativo categorico di un Kant. Essere soggetti a qualunque genere di imperativo, è crudele. Impone un limite, un freno, una frontiera alla libertà dell’arbitrio – ammesso e non concesso che l’arbitrio delle nostre affezioni infantili abbia una sia pur vaga idea di libertà. Esse succedono, e non c’è nient’altro che il loro succedere l’una all’altra – e fino a che non trovano uno specchio che le riflette, esse disdegnano qualunque intrusione di regole, di rigori, o di grammatiche varie. Esse dicono «no», ma non al veleno da cui amerebbero tanto farsi intossicare. Dicono «no» ai Farmacisti che glielo vietano o, nel migliore dei casi, glielo annacquano. Dicono «no» ai digiuni e alle astinenze di tutte le ricette, che le obbligano a «dover essere» portando su di sé il peso di una memoria, di un’amara, tragica, memoria. Le passioni resistono – finché proprio nello specchio che le «affascina» e, insieme, le «incatena» a un’illusione, non intravedono una via di fuga dalla tragedia, una loro propria singolare svolta dalla «retta via». Un viottolo che devia dalla Strada Maestra, e che non le riporta a nessuna casa, ma che le risospinge incautamente di nuovo nel loro bosco. Sulla Strada Maestra si gioca a Padrone e Sotto. Si gioca al gioco crudele dei rancori e dei risentimenti. Solo nel bosco è rivolta.
Solo in quel mondo «arcaico», in quel «fare» senza nessun «fattore», in quel «divenire» non ancora divenuto un soggetto, un individuo, un «io sovrano», si può immaginare, alla Eraclito, un fluire indifferente di differenti flussi di passioni che giocano tra loro a padrone e sotto, e nel fluire di quei flussi non vedervi avvenire che simpatie, alleanze, scontri e guerre «fratricide»… la libertà di un flusso si scontra con l’arbitrio di un altro flusso, giocano a chi è più prepotente, più forte, più resistente – giocano alla guerra, giocano a fare all’amore senza sapere nulla né della caccia al bisonte né della furbizia richiesta in ogni corteggiamento.
La rivolta, nel suo primo insorgere – la rivolta in principio non è del Servo asservito all’arbitrio di un Padrone. La rivolta in principio è di uno Spirito Libero contro chi vuole ma non lo ha ancora asservito. La rivolta in principio non è di un povero che si ribella ai soprusi di un ricco, ma di un ricco che si difende da chi vuole spossessarlo dei suoi beni, delle sue fantasie, dei suoi liberi organi.
Tutto ciò che viene dopo (lo so, a volte semplifico troppo), ma tutto ciò che solo dopo diviene coscienza di un rivoltoso – non è più la rivolta a cui, per es., tenta di risalire Ivan Karamazov. Non è più l’inattuale, l’utopico, il gratuito sovrappiù d’argilla che avanza alla nascita di Adamo.
Tutto ciò che viene dopo – l’attuato, il localizzato, l’interessato – è risentimento sin dal suo primo «sì». Il risentimento è solo un’eco perversa della rivolta. È la sua ribaltata messinscena nel mondo delle rappresentazioni. Il risentimento è la Tragedia delle nostre (ahimé, rimosse) fantasie infantili.
Troia è distrutta! Che ne sarà delle Troiane? Espatriate, ridotte in schiavitù dai vincitori (i risentimenti vincono sempre sui sentimenti), costrette a fare da sguattere nella Casa dei nuovi Legislatori – torneranno un giorno a gioire come gioivano quando erano passioni che giocavano per il solo gusto di farsi padroneggiare dalla loro stessa fantasia?
Solo nell’insensatezza d’un vecchio ritornello, esse forse possono tornare a godere di quella loro gaia soggezione. A godere di nuovo di quel «troppo amore senza oggetto», di quell’«eccesso» di desiderio senza scopo (perché senza castigo e senza premio) di cui nessuna Logica può rendere conto – perché l’«assurdo» sragiona, e irragionevole (che è come dire colpevole) è destinato per sempre a rimanere, senza mai specchiarsi o, peggio, incarnarsi in nessun «sì», in nessuna «tesi», in nessun «valore».