Grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza che mi sia data così, all’interno dell’esperienza assurda, è la rivolta. Privo d’ogni scienza, incalzato a uccidere o ad acconsentire a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova forza dal dissidio in cui mi trovo.
La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l’ordine in mezzo al caos e l’unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora si scriveva senza posa sull’acqua. È ansiosa di trasformare. Ma trasformare è agire, e agire, domani, sarà uccidere, mentre non sa se l’omicidio sia legittimo. La rivolta genera appunto le azioni che le si chiede di legittimare. Bisogna pure che essa tragga da sé le proprie ragioni, poiché non può trarle da null’altro. Bisogna che acconsenta ad esaminarsi per imparare a comportarsi. […]
L’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è. Si tratta di sapere se questo rifiuto possa condurlo soltanto alla distruzione degli altri e di sé, se ogni rivolta dovrà concludersi in una giustificazione dell’uccisione universale, o se al contrario, senza pretendere a un’impossibile innocenza, essa possa scoprire il principio di una colpevolezza ragionevole. […]
Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se pure rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica a un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo «no»?
Significa, per esempio, «le cose hanno durato troppo», «fin qui sì, al di là no», «vai troppo in là» e anche «c’è un limite oltre il quale non andrai». Insomma, questo «no» afferma l’esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell’impressione dell’uomo in rivolta che l’altro «esageri», che estenda il suo diritto al di là di un confine oltre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita. Così, il movimento di rivolta poggia, a un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere «il diritto di …». Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Appunto in questo lo schiavo in rivolta dice a un tempo di sì e di no. Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui «vale la pena di …», qualche cosa che richiede attenzione. In certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere.
Insieme alla ripulsa rispetto all’intruso, esiste in ogni rivolta un’adesione intera e istantanea dell’uomo a una certa parte di sé. Egli fa dunque implicitamente intervenire un giudizio di valore, e così poco gratuito, che lo mantiene in mezzo ai pericoli. Fino a quel punto taceva almeno, abbandonato a quella disperazione nella quale una condizione, anche ove la si giudichi ingiusta, viene accettata. Tacere è lasciar credere che non si giudichi né desideri niente e, in certi casi, è effettivamente non desiderare niente. La disperazione, come l’assurdo, giudica e desidera tutto in generale, e nulla in particolare. Ben la traduce il silenzio. Ma dal momento in cui parla, anche dicendo no, desidera e giudica. La rivolta, in senso etimologico, è un ribaltamento. In essa, l’uomo che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte. Oppone ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore. Si tratta almeno di un valore?
Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, a un tratto sfolgorante, che c’è nell’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente. Questa identificazione, fin qui, non era realmente sentita. Tutte le concussioni anteriori al moto d’insurrezione, lo schiavo le sopportava. Sovente, anzi, aveva ricevuto senza reagire ordini più rivoltanti di quello che fa prorompere il suo rifiuto. Portava pazienza, respingendoli forse in se stesso, ma poiché taceva, si mostrava più sollecito, per il momento, del proprio interesse immediato che cosciente del proprio diritto. Con la perdita della pazienza, con l’impazienza, comincia al contrario un movimento che può estendersi a tutto ciò che precedentemente era accettato. Questo slancio è quasi sempre retroattivo. Lo schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore, respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo. Il moto di rivolta lo porta più in là del semplice rifiuto. Egli oltrepassa anche il limite che fissava al suo avversario, chiedendo ora di essere trattato da pari a pari. Quanto era dapprima resistenza irriducibile dell’uomo, diviene l’uomo intero che con essa s’identifica e vi si riassume. Quella parte di sé che voleva far rispettare, la mette allora al disopra del resto, e la proclama preferibile a tutto, anche alla vita. Essa diviene per lui il sommo bene. Prima adagiato in un compromesso, lo schiavo si getta di colpo («visto che è così …») nel Tutto o Niente. La coscienza viene alla luce con la rivolta.
Ma come si vede, essa è coscienza, a un tempo, di un «tutto» ancora piuttosto oscuro, e di un «niente» che annuncia la possibilità del sacrificio a questo tutto. L’uomo in rivolta vuole essere tutto – identificarsi totalmente con quel bene di cui a un tratto ha preso coscienza e che vuole sia riconosciuto e salutato nella propria persona – o niente, vale a dire trovarsi definitivamente scaduto per opera della forza che lo domina. Al limite, accetta quell’estrema caduta che è la morte, se dev’essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la propria libertà. Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio. […]
L’insorgere del Tutto o Niente mostra che la rivolta, contrariamente all’opinione comune, e benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’uomo, mette in causa lo stesso concetto d’individuo. Infatti, se l’individuo accetta di morire, e muore quando se ne presenta l’occasione, nel suo moto di rivolta, mostra con questo di sacrificarsi a pro di un bene che egli giudica trascendente il proprio destino. Se preferisce l’eventualità della morte alla negazione del diritto che difende, è perché pone quest’ultimo al disopra di sé. Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno, di avere in comune con tutti gli uomini. Vediamo dunque che l’affermazione implicita in ogni atto di rivolta si estende a qualche cosa che eccede l’individuo in quanto lo trae dalla sua supposta solitudine e gli fornisce una ragione d’agire.
Ma importa osservare fin d’ora che questo valore preesistente a ogni azione contraddice alle filosofie puramente storicistiche nelle quali il valore viene conquistato (ove lo si conquisti) al termine dell’azione. L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non s’ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? È per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che l’insulta e l’opprime, hanno pronta una comunità.
Corroboreranno questo ragionamento due osservazioni. Si noti innanzi tutto che il moto di rivolta non è, nella sua essenza, un moto egoista. Può avere senza dubbio delle determinanti egoistiche. Ma ci si ribellerà contro la menzogna quanto contro l’oppressione. Inoltre, muovendo da queste determinanti, e nel suo slancio più profondo, l’uomo in rivolta non preserva niente, poiché pone tutto in gioco. Senza dubbio, esige per sé il rispetto, ma nella misura in cui s’identifica con una comunità naturale.
Osserviamo inoltre che la rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima un altro. C’è dunque, in questo caso, identificazione con l’altro individuo. E bisogna precisare che non si tratta di una immedesimazione psicologica, sotterfugio per il quale l’individuo, nella sua immaginazione, sentirebbe che l’offesa gli viene personalmente diretta. Può al contrario accadere che non si sopporti di veder infliggere altrui offese che noi stessi abbiamo subite senza rivolta. I suicidi di protesta, all’ergastolo, fra i terroristi russi i cui compagni venivano frustati, illustrano questo grande movimento. Né si tratta del senso di una comunione d’interessi. Possiamo infatti trovare rivoltante l’ingiustizia imposta ad uomini che consideriamo nostri avversari. C’è soltanto una identificazione di destini, e un prender partito. L’individuo non è dunque, in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno tutti gli uomini per costituirlo. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Semplicemente, si tratta per ora soltanto di quel genere di solidarietà che nasce tra le catene.
Si può meglio precisare l’aspetto positivo del valore presunto da ogni rivolta mettendolo a confronto con un concetto affatto negativo come il concetto di risentimento, quale l’ha definito Scheler. In realtà, il moto di rivolta è più che un atto di rivendicazione, nel senso più forte della parola. Il risentimento è molto ben definito da Scheler come un’autointossicazione, la secrezione nefasta, in vaso chiuso, di un’impotenza prolungata. Al contrario la rivolta frange l’essere e l’aiuta a traboccare. Libera dei flutti i quali, da stagnanti come erano, divengono furiosi. Lo stesso Scheler pone in risalto l’aspetto passivo del risentimento, notando quanto posto esso occupi nella psicologia delle donne, destinate al desiderio e al possesso. Alla radice della rivolta sta invece un principio di attività sovrabbondante e di energia.
Scheler ha ragione di dire che l’invidia incide fortemente sul risentimento. Ma s’invidia ciò che non s’ha, mentre nella rivolta l’uomo difende ciò che egli stesso è. Non reclama soltanto un bene che non possiede o di cui sia stato privato. Mira a far riconoscere qualche cosa che ha, e che egli stesso, in quasi tutti i casi, ha già riconosciuto più importante di ciò che potrebbe invidiare. La rivolta non è realista. Sempre per Scheler, il risentimento, a seconda che cresca in un animo forte o debole, si fa arrivismo o acredine. Ma in ambedue i casi, si vuole essere altri da ciò che si è. Il risentimento è sempre risentimento contro se stessi. Invece, nel suo primo movimento di rivolta, l’uomo rifiuta di lasciarsi toccare in quello che è. Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere. Non cerca innanzi tutto di conquistare, ma d’imporre.
Pare infine che il risentimento si diletti in anticipo di un dolore che vorrebbe veder provare all’oggetto del suo rancore. Nietzsche e Scheler hanno ragione di vedere una bella esemplificazione di questa sensibilità nel passaggio in cui Tertulliano informa i lettori che in cielo la maggior fonte di felicità, per i beati, sarà lo spettacolo degli imperatori romani consumati all’inferno. È la stessa felicità della brava gente che andava ad assistere alle esecuzioni capitali. Invece la rivolta, da principio, si limita a rifiutare l’umiliazione, senza chiederla per altri. Accetta persino il dolore per sé, purché la sua integrità venga rispettata.
Non si capisce dunque perché Scheler identifichi assolutamente lo spirito di rivolta con il risentimento. La sua critica del risentimento nell’umanitarismo (che egli considera, nella sua trattazione, come la forma non cristiana dell’amore per gli uomini) s’applicherebbe forse a certe forme vaghe d’idealismo umanitario, o alle tecniche del terrore. Ma non può applicarsi alla rivolta dell’uomo contro la propria condizione, al moto che solleva l’individuo in difesa di una dignità comune a tutti gli uomini. Scheler vuol dimostrare che l’umanitarismo va di pari passo con l’odio per il prossimo. Si ama l’umanità in generale per non dover amare gli esseri in particolare. È giusto, in qualche caso, e si comprende meglio Scheler quando si veda che per lui l’umanitarismo è rappresentato da Bentham e Rousseau. Ma la passione dell’uomo per l’uomo può nascere da altri elementi che non siano il calcolo aritmetico degli interessi, o una fiducia, del resto teorica, nella natura umana.
Di fronte agli utilitaristi e al precettore d’Émile, c’è per esempio quella logica, incarnata da Dostoevskij in Ivan Karamazov, che va dal moto di rivolta all’insurrezione metafisica. Scheler, che lo sa, riassume così questa concezione: «Non c’è al mondo abbastanza amore perché lo si sprechi altrimenti che sull’essere umano». Anche se quest’affermazione fosse vera, la vertiginosa disperazione che essa presuppone meriterebbe ben altro che il disdegno. Infatti, essa misconosce il carattere straziato della rivolta di Karamazov. Il dramma d’Ivan, al contrario, nasce dall’esservi troppo amore senza oggetto. Quest’amore che, negato Dio, rimane inutilizzato, ci si decide allora a trasferirlo sull’essere umano in nome di una generosa complicità.
D’altra parte, nel moto di rivolta quale l’abbiamo sin qui considerato non si elegge un ideale astratto, per povertà di cuore, e allo scopo di una sterile rivendicazione. Si esige che venga considerato quanto, nell’uomo, non può ridursi all’idea, quella parte calorosa che a null’altro può servire se non ad essere. Questo significa che nessuna rivolta sarebbe carica di risentimento? No, e lo sappiamo abbastanza nel secolo dei rancori. Ma dobbiamo assumere questo concetto nella sua più larga comprensione sotto pena di tradirlo, e a questo riguardo, la rivolta da ogni parte eccede il risentimento. Quando, in Cime Tempestose, Heathcliff preferisce il suo amore a Dio e chiede l’inferno pur di essere riunito all’amata, non è solo la sua giovinezza umiliata a parlare, ma la bruciante esperienza di un’intera vita. Lo stesso moto fa dire a Mastro Eckhart, in un sorprendente accesso d’eresia, che preferisce l’inferno con Gesù al cielo senza di lui. È il moto stesso dell’amore. Contro Scheler, non insisteremo mai troppo sull’affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché nulla crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto, nell’uomo, è sempre da difendere.
(Camus, L’uomo in rivolta)