L’immaginario non esiste. L’immaginario non è niente o, peggio, è menzogna, illusione, che ci distoglie dalla vera esistenza, dal nostro essere al mondo, dalla realtà, così come il sogno ci distoglie dalla vita. Se tentiamo di riafferrarlo, di realizzarlo, subito svanisce. Non esiste un «mondo» dell’immaginario, che possa accompagnarci staccato dal nostro, parallelamente al nostro, un mondo in qualche modo più spirituale, più duttile, più arioso, più malleabile, liberato dalla pesantezza e dalle servitù della realtà, in seno al quale sia possibile attestarci contro di essa e forse trovar rifugio. Il sogno non è una seconda vita, non è neppure l’ombra di una vita. E tuttavia l’immaginario ci ossessiona.
Non c’è un solo istante della nostra esistenza che non sia percorso dall’immaginario, impregnato dalla sua lontananza inaccessibile, dal suo aprirsi al di là di ogni apertura; e non solo nei nostri sogni, nelle nostre fantasticherie marginali, nei nostri ricordi che sono immagini o nelle immagini che ci sollecitano in continuazione, ma talvolta nel cuore stesso di quella realtà che da ogni parte ci condiziona e ci sollecita, come ciò che d’un tratto sembra annunciare in esso una sorta di conversione imminente, la promessa e quasi il pegno di una surrealtà …
L’immaginario ci ossessiona, non però come qualcosa che sia l’altro versante della nostra esistenza, la sua faccia interna in rapporto alla sua faccia esterna, la sua possibilità infinita in rapporto alle sue possibilità limitate, la sua parte negativa in rapporto alla sua parte positiva, la sua irrealtà in rapporto alla sua realtà. No (sul piano delle categorie definite si potrebbe parlare a buon diritto dell’ambiguità dell’immaginario), se l’immaginario ci ossessiona, nel seno stesso della nostra esistenza, è piuttosto come un «di fuori», come un «altrove » che certamente ce ne distoglie, e dal quale tuttavia non possiamo distoglierci. […]
Ma che cos’è l’immaginario? Possiamo tentare di definirlo come un altro mondo, o come un non-mondo, o, con Blanchot, come «l’altro da ogni mondo». Ma forse l’immaginario si riconosce innanzitutto in questo: è lo spazio di cui le immagini parlano, o che parla in esse. Porre la questione dell’immaginario vuol dire dunque porre prima di tutto la questione dell’immagine.
Quel che Blanchot dice dell’opera, possiamo qui dirlo dell’immagine. Dire cioè che, come l’opera, neppure l’immagine esiste come un qualunque oggetto del mondo, neppure l’immagine si lascia ridurre a una qualsiasi realtà. Essa non esiste che superandosi verso altro, significando in virtù della somiglianza, qualcosa di altro, di assente. Qualche cosa di cui, anzi, dobbiamo dire che non si costituisce ancora come tale se non grazie al marchio fondamentale di quest’assenza che la scava, che la svuota del suo essere, e insomma della sua realtà. (Dice da qualche parte Blanchot che «l’immagine ci dà l’essere, ma ce lo dà privo d’essere»). L’immagine non appartiene alla realtà, e tuttavia vi rimanda, attraverso questa somiglianza, attraverso tutto il contesto di significazioni che l’accompagna, che accompagna esattamente la cosa, la cosa quale essa è senza l’immagine. […]
È raro che l’immagine si lasci tradurre integralmente in qualcosa di «sensato». Vi permane sempre una specie di nucleo irriducibile, come se tutta la rete di significazioni non potesse ancora esaurirla; non si tratta certo di un nucleo nel cuore delle significazioni, di un nodo centrale che arrivi a fonderle nella forza di un’unità polivalente e che trionfi in esse del loro vario sparpagliamento. Si tratta, al contrario, tra l’immagine e le significazioni, di una differenza essenziale, di una differenza di natura.
Della natura specifica dell’immagine in quanto immagine, la sola cosa che possiamo dire è che essa «si sottrae». La lettura ordinaria, questa prima «versione» dell’immaginario, non solo non esaurisce la natura dell’immagine ma, peggio, la tradisce. Non soltanto «l’immagine diviene, in questo caso, la seguace dell’oggetto, ciò che viene dopo di esso, ciò che ne resta e ci permette di disporne ancora quando non ne resta niente», ma noi «rovesciamo (in questo modo) il rapporto che le è proprio […]. L’immagine di un oggetto non soltanto non è il senso di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a sottrarvelo mantenendolo nell’immobilità d’una somiglianza che non ha niente a cui somigliare» (Blanchot). Avvertiamo già, in tal modo, tra il mondo, lo spazio proprio alle immagini, in altri termini l’immaginario, e il mondo della realtà una distinzione, una incompatibilità fondamentale che il pensiero di Blanchot non cesserà di approfondire.
La semplice somiglianza è già di per sé un fenomeno conturbante. Che un volto somigli a un altro, possa – quasi – essere preso per un altro, è cosa che già può farci pensare, renderci inquieti. A maggior ragione qualora il volto cui un altro somigli sia il mio. Un altro potrebbe dunque essere me, o quanto meno farsi scambiare per me? Si affacciano immediatamente i problemi del doppio e dell’impostura. E inoltre, allo stesso tempo, l’altro, non soltanto quello che mi somiglia ma, per il tramite insolito della somiglianza, ogni altro (o tutto l’altro) si è come surrettiziamente introdotto in me. In senso proprio, io non mi appartengo più. Che un essere somigli a un altro, un luogo a un altro, un momento a un altro, è cosa che già introduce l’equivoco, una inquietudine che l’andamento abituale del mondo non arriva a placare. La somiglianza significa lo stesso, ma sotto le specie dell’altro. In essa l’identità si specchia in se stessa, ma per sottrarsi a sé e per esporsi alla vertigine. L’immaginario risiede forse già tutto in questo iato. Ogni somiglianza è immagine, fa dell’oggetto la preda della sua immagine.
L’immagine non è un oggetto, e non può in nessun modo lasciarsi riassorbire nel mondo. La cosiddetta somiglianza dell’immagine non solo non si sostiene in rapporto al mondo, ma invoca un altro definitivamente inafferrabile, definitivamente irrecuperabile. La sua essenza si trova in qualche modo in questa radicale alterità. Per questo Blanchot può dire che non vi è nulla cui essa possa somigliare. Ed è anche per questo che essa «non ha niente a che vedere col significato, col senso, come lo implicano l’esistenza del mondo e lo sforzo della verità, la legge e la chiarezza del giorno».
Entrare nell’immaginario è dunque entrare in uno spazio radicalmente estraneo, operare, in rapporto al mondo e alla realtà della nostra vita, una sorta di conversione fondamentale, entrare nello spazio di una assenza che esclude ormai ogni correlativo di presenza, nella dimensione di un altrove che esclude ogni possibilità di essere qui.
Tuttavia, non bisogna dimenticarlo, il primo nome che l’immaginario ha in noi è il nome di desiderio. «Pour l’enfant amoureux de cartes et d’estampes», quanto le immagini annunciano si presenta come lo spazio di una infinita possibilità. Una sorta di «tutto è possibile» verso il quale il desiderio si slancia. Nel desiderio l’immaginario si fa promessa e fa risplendere come una promessa il fascino dell’altrove. Possiamo dire del desiderio ciò che Blanchot dice del «bisogno interiore di scrivere»: esso «è legato all’approccio di quel punto in cui (…) non si può far niente, da cui nasce l’illusione che se si mantiene il contatto con questo momento, ma ritornando al mondo della possibilità, “tutto*’ potrà essere fatto …».
Tale infatti è il paradosso del desiderio, che comprende in un solo sguardo l’immagine e l’oggetto, lo spazio dell’impossibilità e il mondo della possibilità, l’irrealtà senza limite e la realtà limitata. Ma questo sguardo è, per l’appunto, una perturbazione, e sconvolge le condizioni di una realtà ben strutturata. (Basti pensare al desiderio amoroso). E d’altra parte è chiaro che proprio attraverso questo impulso il desiderio diviene prigioniero dell’immagine, della sua fascinazione. Poiché il termine a cui il desiderio mira nel suo slancio non consiste affatto nel ricondurre l’immagine alle dimensioni del mondo, ma viceversa nel convertire il mondo alla dimensione dell’immaginario. Ed è ancora per questo che il desiderio non può avere fine, annunciando quest’inesauribile, quest’inespiabile che confusamente adombriamo quando parliamo di passione.
«La fascinazione – scrive Blanchot – è passione dell’immagine». Dunque entrare nello spazio dell’immaginario è innanzitutto entrare nello spazio della fascinazione. Il desiderio è, certamente, affascinato dal suo oggetto. Ma forse ogni fascinazione provoca desiderio. O forse, completando quanto si è detto precedentemente, il desiderio, primo nome in noi dell’immaginario, è appunto soltanto il primo dei suoi nomi. Poiché quel che dapprima evocava come una possibilità infinita, diventa nella passione la ragione stessa della sua impossibilità. Ciò cui inizialmente mirava il desiderio diviene in fondo ciò che solo una passione può vivere, ciò che può esser vissuto solo nella forza consumante, e inesauribile, di una passione.
Ma che cos’è la fascinazione? Diremo: è il tramite per cui l’immagine ci parla, è, se così si può dire (ma si può?) il modo d’espressione proprio all’immagine, in forza del quale ciò che essa esprime è precisamente l’inaccessibile. Ma è anche il mezzo stesso attraverso il quale essa ci attira. E non con la chiarezza, la franchezza, la persuasione di un discorso, ma al contrario, con la forza irreprimibile e la vertigine di un canto. «Vivere un avvenimento in immagine – scrive Blanchot – non vuol dire disimpegnarsi da questo avvenimento, disinteressarsene, come vorrebbero la versione estetica dell’immagine e l’ideale sereno dell’arte classica, ma vuol dire impegnarvisi ma non più con una decisione libera: vuol dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene …».
E non c’è alcun significato che non subisca questo rovesciamento radicale. Eppure, dei significati che un’immagine può significare, possiamo ben dire che sono inesauribili proprio perché l’immagine li ritrae, con sé, fuori dalla nostra portata; con l’immagine, essi sono entrati nello spazio insieme cangiante e neutro dell’immaginario. Non vi è comportamento di fronte all’immaginario, perché di una immagine non possiamo fare nulla, perché essa capovolge proprio il rapporto che possiamo avere con l’oggetto, perché, lungi dall’esserne in possesso (e quest’affermazione, sentita generalmente come derisoria, è al cuore dell’immagine, che nella fascinazione diventa il nostro stesso cuore), ne siamo, al contrario, «posseduti».
Possiamo cosi cominciare a intravedere quali siano le tappe della passione dell’immagine, il cui termine iniziale era il desiderio. La fascinazione è la passione dell’immagine perché ogni passione è, a sua volta, più cosa subita che vissuta. «Ciò che ci affascina ci toglie il potere di dare un senso, abbandona la sua natura “sensibile”, abbandona il mondo, si ritrae al di qua del mondo, attirandoci, non si rivela più a noi e tuttavia si afferma in una presenza estranea al presente del tempo e alla presenza nello spazio».
Queste diverse tappe sono però già racchiuse in qualche modo nell’immagine stessa. L’immaginario è «l’area assoluta, là dove la cosa ridiventa immagine, dove l’immagine, da allusione a una figura, diventa allusione a ciò che è senza figura, e, da forma disegnata sull’assenza, diventa l’informe presenza di questa assenza». Là dove, essenzialmente, non regna che «l’interminabile, l’incessante», nel «tempo dell’assenza di tempo», dove nulla è mai cominciato perché ad ogni istante tutto ricomincia.
È indubbiamente per questo che mentre nell’immagine il desiderio si dava come un aldilà del mondo, come la speranza luminosa di una surrealtà, esso si rivela alla prova dei fatti non essere altro che un «al di qua». Ed è ancora indubbiamente per questo che la passione non può aver fine. Poiché l’inizio e la fine sono avvenimenti del mondo, come lo sono anche il vivere e il morire. Così come è sempre al mondo che si nasce, è in qualche modo sempre al mondo che moriamo. Ed è infine per questo che, contrariamente all’opinione corrente, la passione non può trovare nella morte il suo riposo, il suo compimento.
Blanchot vede nella spoglia mortale una forma esemplare dell’immagine. Come l’immagine, la «spoglia mortale sfugge alle categorie comuni». Essa «non realizza la verità di essere pienamente qui». D’altra parte il cadavere non somiglia all’uomo vivo che è stato, «è più bello, più imponente, già monumentale». Non somiglia che a se stesso, e cioè «a niente». E quel che esso evoca non è più, come per l’immagine ingenua, un altrove che l’illusione del desiderio crede suscettibile di essere realizzato e consumato. In quello che un cadavere evoca, l’«altrove» è diventato «in nessun luogo». «Dov’è? Non è qui e tuttavia non è altrove; in nessun luogo? ma allora questo luogo è nessun luogo». Il cadavere incarna così nella sua presenza materiale quanto è percepito solo in modo confuso, e anche contraddittorio, nell’immagine: la coincidenza insostenibile di qui e di «in nessun luogo».
Immagine insostenibile, e anche, in questo senso, immagine limite e limite dell’immagine. Ma immagine di cosa, dunque? L’abbiamo detto: immagine di nessun luogo. Ma nessun luogo è pure in qualche modo il fondo di questo spazio senza fondo che chiamiamo l’immaginario, di quest’assenza senza contropartita di presenza che non si annuncia ancora se non come la sua stessa dissimulazione. Poiché solo ciò che è dissimulato ci affascina, solo ciò che si sottrae nella dissimulazione. Al punto che se fosse possibile parlare di un essere dell’immagine, di quest’essere si potrebbe dire che è quello della dissimulazione. E l’immagine del cadavere in cui l’assenza essenziale si fa presente – nessun luogo come luogo congenito di questa assenza – è ancora ciò per cui la morte ci rimane estranea, ci tiene eternamente a distanza, si ritrae dal mondo e da noi.
Si è detto impropriamente, che nell’immagine è la morte che parla. Non la morte, ma senza dubbio la passione. Tuttavia tra questa e la morte permane una relazione sorda ed ambigua. Come se solo l’approfondimento di una passione ci introducesse nello spazio di una morte vera. E non certo nel senso che in essa si compirebbe l’immagine di noi stessi, la nostra somiglianza a noi stessi, in altri termini il nostro Io, ma perché si compirebbe al contrario la nostra interna somiglianza alla morte, in una sorta di avvicinamento in cui, appunto, l’Io sparirebbe per non lasciar posto che a una somiglianza ormai senza somiglianza, in seno alla quale sarebbe scomparso perfino il «fatto della morte».
(Pfeiffer, La passione dell’immaginario)