Lévi-Strauss – Arbitrio e motivazione

Keshava-libero-volere

principio) il Segno è arbitrario – tra la cosa segnata e il segno con cui la si marca non c’è nessuna necessità logica (la campana potrebbe altrettanto bene essere detta tamburo, e il bicchiere, che so?, monte di Venere, e così via – e dopo il diciannove potrebbe benissimo esserci il fringuello o il cavatappi al posto del venti)

eccezioni) tutti i casi in cui il Segno è costruito su una logica combinatoria: se per es. finito è un nome arbitrario, infinito è invece un segno relativamente motivato, perché obbedisce allo stesso motivo logico (la contrarietà) che «risuona» tra conscio e inconscio, tra amico e inimico, e così via; se diciannove è un segno motivato, è perché riutilizza segni arbitrari già dati (dieci e nove), segni già memorizzati, per farne una composizione: ogni segno logico è, perciò, sempre un segno in un modo o nell’altro composto: ogni segno logico sboccia da un’associazione di segni arbitrari (in + finito; dieci + nove, ecc.), il che gli impedisce di essere assolutamente motivato, assolutamente affrancato dal principio arbitrario dei Segni che compone – da qualche parte, nel cuore di ogni logica, pulsa il buco nero del suo arbitrio originario

principio) tutte le «radici» di tutte le parole, almeno viste da qui dove siamo noi, dagli ultimi «rami dell’Albero» da cui pendono le nostre foglie, sono arbitrarie – può essere però che queste «radici» che a noi sembrano puri e semplici arbitrii lessicali, abbiano invece delle motivazioni troppo remote, troppo distanti dal nostro fogliame, per non sottrarsi al Stevens-Mississipinostro sguardo: rimane il fatto che finanche la più arbitraria combinazione di «suoni», sia o no una «radice», presuppone una logica in nuce, una logica infantile che già si dà da fare ad associare e combinare: sta dunque a noi intuire che, da qui dove siamo, per quanto lungimirante possa essere, il nostro sguardo vedrà sempre l’arbitrio (il che è come dire la Morte di ogni presunzione logica) in fondo al tunnel – la Morte di ogni Regola, di ogni Senso

eccezioni) man mano che l’Albero cresce e si moltiplicano i suoi rami, e da ogni ramo si ramificano nuove lingue di Babele, una combinazione dopo l’altra – la logica, invece di spuntarla, finisce per dover scendere a patti col diavolo (a ogni dialetto il suo Mefistofele) – la logica è costretta a pattuire nuovi compromessi tra la sua «grammatica» (la sua Struttura, la sua Necessità storica sociale culturale) e i continui imprevedibili «neologismi» (gli eventi, le contingenze, gli «irrazionali» naturali, le «disparità» individuali) che spuntano, sempre più singolari e capricciosi (è il caso di dirlo: sempre più perversi) a ogni ulteriore ramo dell’Albero, finché quassù nel fitto fogliame dove siamo imboscati noi – ogni filamento che ci sfila davanti agli occhi, è inevitabile che finisca per sembrarci sempre più somigliante, in quanto ad arbitrio, alle «radici» dell’Albero: allora la logica è costretta a tentare l’ultima sua mossa disperata, costretta ad aggrapparsi all’unico criterio che le resta per unificare il molteplice – e, insieme, moltiplicare la sua unità di misura per tutte le parti, vicine e lontane, prossime e remote, dell’Albero – e cioè: trattare tutte le «eccezioni» (tutte le «qualità naturali», tutte le «differenze individuali») come «quantità» astratte, tutte indistintamente soggette ai pesi e alle misure, di cui essa, la Logica, rimane unica sovrana dittatrice

effetto) per non morire d’arbitrio, la Logica impone l’arbitrio di una diabolica riduzione di tutto ciò che fu ed è e sarà mai nell’universo a «cosa» calcolabile – e, quando infine la lingua è quella dei calcolatori e nessun’altra delle molteplici lingue sociali possibili, quando tutto ciò che non è calcolabile la lingua l’avrà messo al bando, espulso dall’essere, privato del diritto d’essere una delle sue «cose», allora a trionfare non sarà che uno degli innumerevoli arbitrii – quello più dispotico, quello più prepotente, quello capace di sopravvivere perfino alla morte del padreterno – come? non lo senti pure tu, il battito pulsante del buco nero dell’Arbitrio, del Caso che sta per inghiottirci, di nuovo, Eterno Ritorno – nel principio?

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Da molto tempo i linguisti conoscono il problema e Saussure l’ha risolto con molta chiarezza. Infatti anche Saussure, che pure ha posto il principio (la cui evidenza ci appare oggi meno certa) del carattere arbitrario dei segni linguistici, ammette che questo arbitrio comporti vari gradi e che il segno possa essere relativamente motivato.

Questo è talmente vero, che si possono classificare le lingue in funzione della motivazione relativa dei segni: il latino inimicus è più fortemente motivato del francese ennemi (in cui non si riconosce con altrettanta facilità il contrario di ami); e, per ogni lingua, i segni sono anch’essi inegualmente motivati: il francese dix-neuf è motivato, il francese vingt non lo è. Infatti, la parola dix-neuf «ricorda i termini di cui si compone e altri che le sono associati». Se il principio irrazionale dell’arbitrio del segno fosse applicato senza restrizione, «si arriverebbe alla complicazione suprema; ma lo spirito riesce ad introdurre un principio d’ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni ed è questa la funzione del relativamente motivato».

In tal senso si può dire che certe lingue sono più lessicologiche e altre più grammaticali:

Non che «lessico» e «arbitrio» da una parte, «grammatica» e «motivazione relativa» dall’altra, siano sempre sinonimi; ma c’è qualcosa di comune nel principio. Sono come due poli tra i quali si muove tutto il sistema, due correnti opposte che si dividono il movimento della lingua: la tendenza a impiegare lo strumento lessicologico, il segno immotivato, e la preferenza accordata allo strumento grammaticale, cioè alla regola di costruzione.
(Saussure, p.183)

Per Saussure, dunque, la lingua va dall’arbitrio alla motivazione […] Il dinamismo logico, che è una proprietà del sistema, giunge a superare questa che, per Saussure stesso, non costituisce affatto un’antinomia. […]
Possiamo rappresentarci il sistema come un albero. Nelle sue parti inferiori, un albero è, albero-genealogico-Leidaper così dire, fortemente motivato: bisogna che abbia un tronco e che questo tenda alla verticale. I primi rami comportano già un grado maggiore di arbitrio: il loro numero, benché lo si possa prevedere ristretto, non è determinato in anticipo, come non lo è l’orientamento di ciascuno o l’angolo di divergenza rispetto al tronco; ma questi aspetti restano comunque legati da rapporti reciproci, poiché i rami più grossi, tenuto conto del loro stesso peso e degli altri rami carichi di foglie che essi sostengono, debbono equilibrare le forze applicate su un comune punto d’appoggio.

Ma, via via che l’attenzione si sposta verso i piani più elevati, la parte della motivazione scema e quella dell’arbitrio aumenta; i rami terminali non hanno il potere di compromettere la stabilità dell’albero, né di mutarne la forma caratteristica. La loro molteplicità e insignificanza li ha affrancati dai vincoli iniziali e la loro distribuzione generale può esplicarsi indifferentemente in una serie di ripetizioni, su scala sempre più ridotta, di un piano che pure è iscritto nei geni delle loro cellule, oppure come risultato di fluttuazioni statistiche.

Intelligibile all’inizio, la struttura arriva, ramificandosi, a una sorta di inerzia o di indifferenza logica. Senza contraddire la sua natura originaria, essa può ormai subire l’effetto di incidenti molteplici e variati, che sopravvengono troppo tardi per impedire a un osservatore attento di identificarla e di classificarla secondo un genere.

(Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio)

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… noi, quali le foglie
(Mimnermo)

Basterebbe anche questo solo verso, antico più di duemila anni, a dimostrare che qualcuno già sapeva, tanto tempo fa, che noi non siamo che «gli ultimi arrivati», i rami Monet-pioppi-autunnoterminali di un Albero di cui ignoriamo le «motivazioni». Come potremmo saperle, se da noi sono così remote?

Noi siamo – dice il poeta – quali le foglie. C’è una qualità naturale, dice, che ci accomuna in uno stesso destino. Che importa se la foglia vive un solo anno, e noi invece arriviamo a camparne anche cento? Non lasciamoci ingannare dal quanto, dice il poeta. Noi siamo quali le molteplici foglie che spuntano dai rami più alti dell’Albero – noi, sempre più arbitrarie, sempre più incostanti e mutevoli, spuntiamo dagli «estremi anacoluti» – noi, come i funghi, siamo gli «effetti perversi» di una Storia che, coi suoi Miti, i suoi Riti e i suoi Proverbi ideali, non ce la fa più a nasconderci dove siamo.

Siamo alla fine dell’Albero. E da un po’ di tempo abbiamo cominciato perfino a sospettare che forse ci stiamo sbagliando, e che non si tratta di un Albero. O meglio: che quello che credevamo il nostro Albero genealogico è solo un ramo, e di suo già abbastanza arbitrario, di un altro ramo, sia pur vagamente motivato, di un Racconto del Mondo che ci tramandiamo fin dalla notte dei tempi – senza nemmeno sapere perché continuiamo a raccontarcelo, perfino ora che tutto è affidato all’arbitrio dell’«io sovrano» di ogni foglia. Ognuna, almeno così crede, padrona della sua mente. Che pazzia! Che bugia!

Gli antichi «codici» linguistici sono durati per millenni – troppo a lungo perché il logos delle nostre lingue non ne impazzisse – tale e tanta era la «crudeltà» con cui quei «codici» scrivevano i totem e i tabù del loro «lessico» nel midollo di ogni singola foglia, glieli stampavano a fuoco o glieli tatuavano sulla pelle, a ogni singola foglia imponendo una mente sociale, lasciando che poi fosse questa mente a ramificare nei nervi della singola foglia il loro logos. Solo a questo duro prezzo «iniziatico», solo al prezzo di questo atroce «sacrificio corporale» il codice la autorizzava a prendere la parola, a farsi garante della parola arbitraria datale in consegna, a dare a quest’arbitrio un seguito, una motivazione combinandola con un altro arbitrio, col suo proprio «originale» neologismo. La crudeltà si nutre dei crudeli, come il ballo dei ballerini. Non puoi però essere crudele e pretendere di farci credere che stai ballando, a meno che non sei talmente crudele da imporci pure quest’altro arbitrio.

Rothko-indagine-rosso

Sto giocando con arbitrario e motivato – con due parole altrettanto arbitrarie: a una delle due però assegno la parte motivata – spero che si comprenda che questo è solo un arbitrio ulteriore, un arbitrio elevato a un’altra sua potenza, al suo potersi spacciare per arbitro tra ciò che è arbitrario e ciò che non lo è.
Già, è qui il punto. Se tutte le parole sono arbitrarie, com’è possibile che esse si avventurino in una logica? E che razza di logica è mai questa, che si fonda sulla combinazione di due arbitrii?
Non c’è futuro all’Arbitrio, se non nella prepotenza. Tutto il resto è vuoto a perdere. Nessuna lingua, nessuna bugia, ce la fa più a impedirci di vedere il Buco Nero sempre più vicino.

Si sta
come
d’autunno
sull’albero
le foglie
(Ungaretti)

Troppo a lungo i «codici»-antenati dei nostri dialetti hanno perpetrato il loro «sadismo», perché le nostre parole, i loro «terminali», non si scoprissero – alla fine della Vicenda – a ricadere, dopo un lungo giro perverso, nell’arbitrio dell’Inizio, e a risentire la Storia, tutta la storia della nostra Specie, attraversata da un oscuro presentimento, da una terrifica paranoia, da una mortifera previsione del suo «autunno».

Le «crudeltà» di questi nostri bravi Antenati, le loro «iniziazioni» al gruppo, alla tribù e al territorio linguistico e/o immaginale, si sono ripetute troppe volte perché – dopo tutta Kush-albero-genealogicola trafila millenaria – non le si possa oggi finalmente «identificare in un genere», nel tale o talaltro genere, ma di una comune … paranoia. La paranoia della «complicazione suprema», come la chiama Saussure. La paranoia del liberi tutti!, del disordine universale nel malaugurato caso che ciascun membro del gruppo volesse rifare il mondo secondo il suo arbitrio, a sua immagine e somiglianza – come solo può permettersi di fare il padreterno.

I nostri Antenati escogitarono un modo per «introdurre un principio d’ordine e di regolarità» nella caotica massa delle dicerie arbitrarie – nel mucchio di semi che Psiche deve secernere per trovare il suo «secreto», il suo proprio «scarto differenziale», ci pensa una formichina venuta da fuori a suggerire un ordine, una classificazione, tutto un gioco tra numeri che si ripetono e parole che, di tanto in tanto, s’inventano un neologismo.
Quando se l’inventano – dicevano i pitagorici – è solo perché sono giunti alla fine di una decina, o di un suo multiplo. Altri sapienti che giocavano al gioco al lotto, continuavano a giurare: solo a 90, e solo perché 90 fa paura, l’arbitrio si arresta. Solo la ripetizione della tombola o di un’altra pazziella infantile, può fare di qualcuno di noi un dottore delle «fluttuazioni statistiche». Ossia degli ultimi rantoli autunnali delle foglie, quando si sfogliano l’una con l’altra e l’una nell’altra – sorpresa! – non trovano che «pesi e misure» arbitrari, dispotici e prepotenti, a cui solo la ridondanza millenaria (come un rumore cosmico di fondo) dà la parvenza di «regole».

La logica è l’ultima «favola» che ci rimane. La ragione è tutto ciò che serbiamo di un’antica eccitazione amorosa. L’autunno va e viene. Quest’ultimo è stato bello perché è stato inutile volerti bene. È stato bello perché è stata una folle combinazione di due vocaboli arbitrari (ti amo), un seducente incastro di due arbitrii distinti e separati – qualcosa come un movimento di rivolta della mia mente contro il suo narcisismo, qualcosa come una rivoluzione del mio linguaggio, che faceva del «ti» il motivo (il salmo, il corano) e dell’«amo» il suo neologismo (la sua forcuta irriducibile arbitraria stonatura). È stato bello, quest’autunno, non avere più calcoli da fare per cercare di tenere assieme memoria e immaginazione. È stato bello, com’è bello tutto ciò che si lascia immaginare, senza imporci la crudeltà di una memoria. Com’è bello tutto ciò che si arrende pacificamente all’arbitrio della Morte.