Kant – La sintesi della riproduzione immaginale

È in verità una semplice legge empirica, quella per cui le rappresentazioni, che si sono spesso seguite o accompagnate, alla fine s’associano tra loro, e si mettono pertanto in una connessione tale per cui, anche senza la presenza dell’oggetto, una di queste Kantrappresentazioni fa passare lo spirito alle altre secondo una regola costante. Ma questa legge delle riproduzioni presuppone che i fenomeni stessi siano effettivamente soggetti a una tale regola, e che nel molteplice delle loro rappresentazioni abbia luogo una concomitanza e successione [sincronia e diacronia] conforme a certe regole; perché senza di ciò la nostra immaginazione empirica non riceverebbe mai qualcosa da fare in modo conforme al poter suo, onde rimarrebbe nascosto come un potere morto e ignoto a noi stessi nell’interno dello spirito.

Se il cinabro fosse ora rosso e ora nero, ora leggero e ora pesante, se un uomo si trasformasse ora in questa, ora in quella forma animale, se, nello stesso giorno, la terra fosse coperta ora dai prati, ora di ghiaccio e di nebbia, la mia immaginazione empirica non potrebbe mai avere l’occasione di ricevere nel pensiero, con la rappresentazione del color rosso, il pesante cinabro; o se una data parola fosse attribuita ora a questa cosa, ora a quella, o la stessa cosa fosse chiamata ora in questo modo, ora in un altro, senza che vi dominasse una regola certa cui i fenomeni già per se stessi fossero soggetti, nessuna sintesi empirica della riproduzione potrebbe aver luogo.

Dev’esserci dunque qualche cosa che, a sua volta, renda possibile questa riproduzione dei fenomeni, essendo fondamento a priori di un’unità sintetica necessaria. Ma a questo si viene tosto, se si riflette che i fenomeni non sono cose in sé, ma il semplice gioco delle nostre rappresentazioni, che si riducono infine a determinazioni del senso interno.

Ora, se noi possiamo dimostrare che anche le nostre più pure intuizioni a priori non procurano alcuna conoscenza, se non in quanto esse implicano una connessione del molteplice tale da rendere possibile una sintesi generale della riproduzione, allora questa sintesi dell’immaginazione, ancor prima d’ogni esperienza, è fondata su princìpi a priori, e si deve ammettere una sua sintesi pura trascendentale, che stia ella medesima a fondamento della possibilità di ogni esperienza (come quella che presuppone necessariamente la riproducibilità dei fenomeni).

Cooper-ripetizione

Ora è manifesto che, se io tiro nel pensiero una linea, o voglio rappresentare il tempo da un mezzodì all’altro, o anche solo un dato numero, io devo prima di tutto necessariamente pensare queste molteplici rappresentazioni una dopo l’altra. Che se le precedenti (le prime parti della linea, le parti precedenti del tempo, o le unità successivamente rappresentate) io, intanto che passo alle seguenti, le perdessi sempre dal pensiero e non le riproducessi, giammai si potrebbe formare una rappresentazione intera, né uno di tutti i pensieri predetti, anzi, né anche mai le più pure e prime rappresentazioni fondamentali dello spazio e del tempo.

La sintesi dell’apprensione è dunque legata inscindibilmente con la sintesi della riproduzione. E poiché quella costituisce il fondamento trascendentale della possibilità di tutte le conoscenze (non solo di quelle empiriche, ma anche di quelle pure a priori), così la sintesi riproduttiva dell’immaginazione appartiene alle operazioni trascendentali dello spirito, e poiché ha a che fare con queste noi chiameremo trascendentale anche questa facoltà dell’immaginazione.

Ma a fondamento di ogni necessità è sempre una condizione trascendentale. Ci dev’essere dunque un fondamento trascendentale dell’unità della coscienza nella sintesi del molteplice di tutte le nostre intuizioni; quindi anche dei concetti degli oggetti in castello-in-ariagenerale, e per conseguenza altresì di tutti gli oggetti dell’esperienza; senza di che sarebbe impossibile pensare un qualsiasi oggetto per le nostre intuizioni; perché questo non è altro che quel qualcosa, di cui il concetto esprime una tale necessità della sintesi.

Ora, questa condizione originaria e trascendentale non è altro che l’Appercezione trascendentale. La coscienza di se stesso, secondo le determinazioni del nostro stato nella percezione interna, è meramente empirica, sempre mutabile; non può darci un Sé stabile e permanente in questo flusso di fenomeni interni, e viene detto abitualmente senso interno o appercezione empirica. Quel che dev’essere necessariamente rappresentato come numericamente identico, non può esser pensato come tale per mezzo di dati empirici. Ci dev’essere una condizione, che preceda ogni esperienza e renda possibile l’esperienza stessa, la quale deve render valido un tal presupposto trascendentale.

Ora in noi non possono aver luogo conoscenze, non può aver luogo alcun rapporto e unità di esse tra loro, senza quell’unità della coscienza, la quale precede tutti i dati delle intuizioni, e in rapporto alla quale soltanto ogni rappresentazione di oggetti è possibile. Ora questa pura immutabile coscienza originaria io voglio denominare appercezione trascendentale. Che essa meriti questo nome, risulta già da questo, che anche la più pura unità oggettiva, ossia quella dei concetti a priori (spazio e tempo), non è possibile se non per il riferimento delle intuizioni a essa. L’unità numerica di questa appercezione sta dunque a priori a fondamento di tutti i concetti, a quella guisa che la molteplicità dello spazio e del tempo sta a fondamento delle intuizioni del senso.

(Kant, Critica della ragion pura, Appendice alla 2a edizione: Parti della 1a edizione escluse dalla 2a: 2: 2)

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McCarty-trascendenza
McCarty – Trascendenza

Secondo Kant, la «sintesi dell’immaginazione», che nella 1a edizione della Critica è la prima delle tre «sintesi a priori», e dunque il fondamento di ogni «conoscenza», deve a sua volta essere fondata su princìpi a priori
A «dettare» questi princìpi all’immaginazione, non può essere, secondo lui, altro che una sintesi pura trascendentale – una «sintesi» capace di trascendere dal suo «chissà dove» in un’immaginazione – una arcaica «promotrice» dei moti della nostra immaginazione. Essa, la forza e lo slancio che muove, sommuove e rimuove (secondo princìpi sintetici a priori) le nostre «immagini e idee». Essa, quindi, il fondamento della possibilità di ogni esperienza.

L’esperienza richiede la «riproducibilità dei fenomeni» [che il cinabro, per es., ripeta il suo «rossore», che il sole sorga come d’abitudine sempre a est, e così via], ma proprio perciò essa presuppone una memoria: bisogna perciò che l’esperienza «riproduca» in qualche modo il ricordo di un quasi-uguale, un ripasso per dove si è già passati, il che lascia sottintendere che ogni «conoscenza» è solo lo sbocco di un’«apprensione» che ha appreso a non dimenticare l’assente.
L’esperienza non è che un fenomeno che si ripete, e se c’è «accordo» tra la nostra «mente» e la Natura, non è nella «cosa in sé» [= x], ma è nell’Abitudine che bisogna cercarlo, è Birch-country-lifenella costanza della Regola «trascendentale» della Ripetizione. Ripetendo l’«appreso» e riproducendo il già prodotto, ecco com’è che la «mente» giunge all’esperienza: a furia di associare, giunge a sintetizzare in un’immagine presente lo «spirito» di un’altra assente.

Trascendere [il Presente] è riprodurre [l’Assente]. Trascendere le impressioni e sensazioni è riprodurre le loro «ceneri» [i «resti» di Memoria], e la «facoltà» addetta a questa «riproduzione» è quella che noi chiamiamo Immaginazione – «facoltà» che Kant dà per innata nella nostra mente (eccolo qua l’«idealista» all’opera!), una sorta di «organo» dell’«io penso», una dote congenita alla logica di un Soggetto Pensante a priori, di un «Intelletto» che, senza il medium della riproduzione immaginale, resterebbe in noi «nascosto come un potere morto e ignoto a noi stessi».

Kant dice che se le «precedenti» rappresentazioni (bada bene: egli non parla di impressioni, ma di rappresentazioni), se le «molteplici», le «innumerevoli» rappresentazioni cadessero nell’oblio senza lasciare alcuna traccia – dice che se io le avessi «perdute», o anche: che se esse si fossero del tutto «estinte», sarebbe impossibile formarmi una qualunque «rappresentazione intera», cioè una qualunque «sintesi immaginale», e dunque ancor meno potrei giungere alle più pure e prime rappresentazioni fondamentali dello spazio e del tempo. Perché in una sintesi c’è, insieme, il presente e il passato appreso in un ricordo, il vicino e l’eco di un lontano senza corpo. La sintesi è sempre una sintesi della distanza. Bisogna dunque, secondo Kant, che sia già in atto un’attitudine ad apprendere il «distante». È su questa attitudine innata che si fonderebbe la possibilità di una sintesi (ri-creativa) ad opera dell’immaginazione.

Insomma: la sintesi immaginale è l’esperienza «arcaica», il Dato che è dato a Dioniso nel momento del trapasso dal grembo di Semele alla coscia di Zeus (dalla fantasia, dal molteplice … e … e … e … all’immaginazione che viene ad «associare», «unificare» e «sintetizzare» questo molteplice).

Non è possibile, infatti, conoscere nulla se non venendo via dal molteplice «fantasioso» … e … e … e … senza capo né coda. Nulla, se nella successione pura di «differenze», non ci immaginassimo uno Stesso. Nulla, se queste diacronie e queste distanze, l’immaginazione non le «sintetizzasse»: se, cioè, non le contemplasse entrambe, ma Klee-introduzione-miracolocontinuasse [come nell’ … e … e … e …] a immaginarle una alla volta, scordandosi ogni volta della distante dal «qui e ora». L’immaginazione presuppone, dunque, una memoria – ecco perché essa apre la strada a una nuova connessione «tale per cui, anche senza la presenza dell’oggetto, una di queste rappresentazioni fa passare lo spirito alle altre secondo una regola costante».

Ma quel che ci dobbiamo domandare è se questa Regola che la Logica vuole che «preceda» le immaginazioni e le rappresentazioni, sia innata in Dioniso, congenita al «bambinello», o se per caso non sia da fuori che gli provenga?

Certo, c’è una regolarità già nel sentire, una ciclicità che va e che ritorna da una sensazione all’altra, già nel giardino d’infanzia delle sensazioni – il che è come dire: prima di giungere a farcene delle rappresentazioni. In quanto empirica e cangiante – essa però non è la Regola costante, di cui parla Kant. Perché la «logica» di Kant è dalle rappresentazioni che prende il la, da un mondo che è già fatto di segni e di parole, non dalle impressioni che ne sono la «materia prima». La Regola di Kant non ha, dunque, nulla a che vedere con la Regola emotiva – empirica e individuale, arbitraria e inconstante – delle nostre «fantasie» infantili. La Regola di Kant è la Regola dispotica – quella cioè che vige nel Reame delle rappresentazioni logiche, e che di queste si serve per spostare e/o rimuovere le emozioni del selvatico Dioniso, sovrascrivendo a esse un’altra Regola.

L’«io penso» di Kant non sente, è un Soggetto anestetico che, a insaputa dello stesso Kant, non mira ad altro che ad anestetizzare tutte le sensazioni, specie le più sofferte, un Soggetto astratto dalle sue concrete impressioni, che rischia solo d’ingannarsi a dare loro ascolto. Ma questo Milite Ignoto della Logica, questo Paranoico che da sé bandisce ogni tentazione dei sensi per trattenerne solo la «colpa», solo quel «debito» che non giungerà mai a ripagare, questo Triste Precursore come lo chiama il Francese, che si auto-progetta «uomo» dal fondo senza fondo di chissà quale remota Trascendenza, questo Idealista per forza (sennò, gli tocca fare i conti con la pazzia del suo libero arbitrio!) che, contro ogni Baziotes-Congomiscredenza, ci vuole rassicurare (ah, sì, che ce n’è bisogno!) che siamo pur sempre «figli di un dio», figli di una Ragione, e di Una Sola … ebbene, questo Zombie vagante nella filosofia tedesca, si nutre del terrore sparso tra le righe dei nostri «arcaici» sentimenti, e tutto ciò che ha da annunciare non è che l’ennesimo funerale di un Morto Precoce … ‘u bambenielle!

L’unico, infatti, che forse merita d’esser detto «trascendentale» è l’Arbitrio del Caso in cui s’imbatte l’«infante» – ma questo a Kant proprio non va giù. Kant parte dal presupposto che a monte di tutti gli a priori ci deve essere un Soggetto (o, se si preferisce, un Progetto) Logico, e non comprende che, se pure in principio ci fosse una minima memoria (la logica presuppone che si ricordino le sue regole), e non un capriccio del Caso, non si tratterebbe di una memoria logica, di una memoria cioè già fatta di parole o di rappresentazioni – ma, al più, come la chiama il Francese, di una memoria «biocosmica».

Il guaio è che Kant non sa resistere alla tentazione di risalire, attraverso la logica del Logos, attraverso la logica delle rappresentazioni, fino alla Causa «trascendentale» – anziché, come il buon empirista, limitarsi a indagare quelli che nel linguaggio sono gli «effetti» di un Arbitrio, i «resti» di un’origine indeterminata, le «ceneri» di un Passato che, se mai ebbe una passione, fu solo quella del gioco.

In questa premura («teologica») di dover riandare alla «condizione che precede ogni esperienza», per rintracciare quel «Sé stabile e permanente» che non si trova in nessuna «esperienza empirica», essendo ogni «esperienza» mutevole da soggetto a soggetto, insomma in questo viaggio alla ricerca di un «Sé» di cui nessuna «esperienza» fa mai esperienza – in cerca di quell’Astratto di cui ogni «esperienza» sarebbe un effetto concreto – Kant finisce per sostituire all’Arbitrio dell’Origine Casuale la Necessità Logica della sua Grammatica. Quando si dice: lasciar libero il Logos di delirare … quando, invece di «filosofare» sul concreto, su qualcosa che il Caso per puro caso ci ha dato, si insiste a «idealizzare» la potenza del Logos e la Memoria d’una logica, quale che sia, comunque fatta di parole. Neanche di voci, no – non di dicerie, ma di parole scritte, di quelle che si prendono e che pretendono d’essere prese sul serio.

Fuseli-Satana-peccato-morte

Più esse delirano l’Appercezione trascendentale, più si appellano all’Uno, a ciò «che dev’essere necessariamente rappresentato come numericamente identico» per tutti, più chiudono gli occhi sul molteplice, sull’arbitrio del Caso, sull’imprevedibile, sull’irripetibile che è il «proprio» di ogni «esperienza»… e tanto più le «scritture trascendentali» di Kant e degli «idealisti» a lui più o meno affini, parenti, cugini o antagonisti, si fanno cupe, meste, tetragone, funeree. Le loro sono le parole scritte di un Testamento. Ma chi è il «morto», e di che male è morto, questo non lo dicono.
Ebbene, te lo dico io: è morto il corpo, è morto il concreto, è morto il sentire, è morta la «fantasia» che Dioniso fantasticava nel grembo di Semele – nel cuore oscuro di un arbitrio tutto suo – nientemeno, nella frenesia di annientarsi nel proprio desiderio, di bruciare nel fuoco della propria brace!

Il presupposto «trascendentale» della Logica (e di tutte le «idee») è l’Arbitrio «codificato», eretto cioè a Legge, da un Prepotente per il bene della tribù – questo è quanto dice Lui. Dice che il suo Arbitrio non è poi così arbitrario. È semmai tragico, luttuoso, terribile – ma necessario alla convivenza sociale.
E se il suo «Sé» non è poi così stabile e permanente, come vuole Kant, è solo perché c’è sempre un altro Più Prepotente che viene a imporre le «scritture» (e, va da sé, anche la Kreepers-spaventapasserigrafia) del suo «nuovo» arbitrio.

Non c’è bisogno di presupporre una «unità della coscienza» al di là della molteplicità dei suoi momenti empirici, una «unità soggettiva» più arcaica di tutte le sue intuizioni, Soggetto ancor prima di fare un’«esperienza» concreta, Soggetto pensante, cosciente, ancor prima di sentire il mondo – coscienza originaria vuota di sensazioni – malata di «logica» fin dai suoi esordi. Che tristezza! Che aria gelida si respira nelle lande desolate dell’idealismo! Bisogna proprio esser morti, ma di una morte piena, di una morte che non si rivolta contro se stessa, per sentirsi a proprio agio da queste parti.

La «coscienza originaria», la «più pura unità oggettiva» dei suoi concetti – non scende dalle stelle, non è nella nostra natura congenita – Dioniso nel grembo di Semele, disperso nel labirinto delle sue fantasie, non ha nessuna «idea» dell’Uno: non ha neanche una mezza idea della sua Identità, e soprattutto non ne sente la necessità!
Perché queste «idee cupe», queste «strane idee» (dell’unità e dell’identità), circolano solo nella Coscia di Zeus, dove solo l’arbitrio di Zeus fa legge. Anzi, fa ius, come dicevano i Latini. Fa giustizia di tutti gli altri arbitrii, di tutti gli altri capricci, e delle loro molteplici connessioni peccaminose.

La «coscienza originaria» non è che una memoria logica, una «mente» estranea, che Zeus sovrascrive alla «memoria biocosmica» di Dioniso. Una seconda memoria, una memoria di segni e di parole, una memoria di servi e di ministri del Significante, si è arrogata l’arbitrio di «surcodificare» il vecchio codice fatto solo di sensazioni e impressioni. Gli ha imposto il suo Arbitrio come l’Unico creatore possibile, il Solo misericordioso dispensatore di una «seconda vita». Amen.

L’«unità numerica», di cui vaneggia Kant, non è che il Memento dei memento imposti di prepotenza a un «sentire» che non poté non sentire dolore, a essere estratto dal Grembomano-nodo-fune di Semele.
E certo che questo Uno è il fondamento a priori di tutti i nostri concetti. Ma bisognerebbe domandarsi: come potrebbe essere altrimenti, se l’imposizione al nostro corpo di una Mente «logica», di una Memoria fedele e rispettosa dei suoi «ricordi», è stata, proprio essa, la (terribile e meravigliosa) esperienza «rimuovente»? Essa, la «demenza» di un Soggetto. Di un sentire che si ritrovò a doversi assoggettare al pensare di una Mente inscritta, con la forza, nei suoi nervi.

Di connessioni, i nostri nervi già se ne intendevano, eccome! – prima che li spaventasse la Strega, prima che li pungesse il Fuso di Ananke, prima di ogni Cosmo, prima di ogni rappresentazione, il linguaggio dei nostri nervi già associava e faceva sintesi dei suoi patimenti. Eppure, la Logica, il Logos … erano ancora di là da venire.

Non c’è bisogno, quindi, di scomodare un «soggetto logico trascendentale» di queste sintesi passive che «passano» nei nervi di un analfabeta, e che da qui si estendono nella sua voce senza divenire (non ancora) parole. Non c’è bisogno di appellarsi all’Unico o all’Identico, tanto più che è proprio questa l’idea arbitraria che mani estranee s’incaricano di sovrascrivere al corpo e alle sue impressioni. L’Unità è sempre la pretesa di un Despota. E quando il Despota non c’è, rimane comunque la presunzione di un pensiero che ha preso il vizio di fare sul serio quello che una volta era solo un gioco a padrone e servo. Solo un gioco di ruoli tra Dominazione e Desiderio.

Se l’«idealismo» è così cupo e mefitico, è proprio perché insiste dispoticamente a rimuovere, assoggettandolo al regime della sua Logica, il racconto di come fu che quel gioco divenne questa cosa così seria – questa unificazione sotto la Legge del «Sé» di molteplici insensate molteplicità di impressioni e di sintesi senza parole. Ed è perché insiste a mistificare e a giustificare l’arbitrio di un Despota, coniando per esso altri dittatore-surrealneologismi in cui imboscarlo: il Despota, lui solo fuori dal gioco, detta la Regola seria della convivenza tra gli appetiti e i desideri dei membri della Tribù. La Regola logica della morale che solo un Despota, lui solo l’Immorale, sancisce per tutti i membri della Tribù. Solo Edipo può giacere con sua madre. Perciò Edipo, se si fosse dato ascolto al Detto oracolare, non doveva neanche vivere. Era destinato a essere punito, come il Signor K., prima ancora di macchiarsi di una colpa.

Ecco come va a finire il gioco. Va a finire che le parole, solo le parole, si possono permettere la stravaganza di ideare un «futuro anteriore». Solo le parole possono allestire il trionfo di un delirio così arbitrario, che arriva nientemeno a posporre la colpa alla pena che infligge a priori a tutti i bambini, per fare di loro dei nuovi mansueti aspiranti idealisti.

L’idea di punire a priori l’arbitrio e d’imporre una regola al gioco, tale che tutti i membri della Tribù potessero giocare – chissà per quanti millenni dovette essere abbozzata dai nostri progenitori. Si trattava, in realtà, di rimuovere il disordine sociale che necessariamente consegue agli appetiti e ai desideri lasciati liberi di appagarsi, ciascuno secondo il suo gusto, il suo tempo e il suo modo. L’arbitrio è una necessità del Caso, e l’indifferenza che comporta (agli appetiti e ai desideri altrui) è «dispotismo» di natura, è «crudeltà» che si rifiuta di prendere coscienza di se stessa, e di darsi un limite.

E, allora, in un mondo dove tutto è (ancora) arbitrario, casuale, contingente, più o meno crudele, ma naturale, da dove può mai venire la Regola, se non dall’indifferenza sempre in agguato, dal capriccio estemporaneo e dalla prepotenza di un «giocatore» sugli altri?
In principio è il suo Arbitrio. È l’arbitrio di uno solo, tenuto fuori dalla Regola del gioco, fuori dalla Logica. Lui solo lasciato allo stato naturale, nella libertà dei suoi insaziabili appetiti e desideri. Lui solo a testimoniare da dove noialtri veniamo, e insieme perché siamo venuti via di là. Vedi, per es., che fine ha fatto Edipo, e capisci la «ragione» del Detto che, per bocca dell’Oracolo, diceva: meglio sarebbe stato per lui – non nascere!

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Se il gioco è diventato così serio, è perché in principio la sua gioia sregolata ha dovuto fare karakiri, uno a uno, di tutti i suoi capricci. Se la pazziella d’una volta è diventata questa presente pazzia, è perché in principio ha rimosso l’umorismo, la commedia, la farsa, dalle sue impressioni, dalle sue sintesi e dalle sue fantasie.
L’arbitrio di Edipo è quello tragico di ogni Capro Espiatorio – del Capro sacrificato alla legalizzazione del divieto di fare come lui, di rimanere come lui – selvatico fuorilegge. La colpa di Edipo è di vivere nel Passato Senza Legge, senza Memorie, senza Morale. La colpa di Edipo è di non obbedire alla Legge – a una Legge però che egli non può non ignorare, perché la Legge e tutta la sua Logica è fuori dalla sua natura, altro dalla sua natura, ancora da essere sovrascritta alla sua natura.

La colpa che la Legge imputa a Edipo, l’hai capito o no?, è della Legge che a Edipo impone una pena prima ancora che nasca: la pena riservata a tutti gli appetiti e desideri che restano selvatici e asociali, a tutte le passioni ed emozioni vagabonde che si rifiutano di mettersi in riga col «codice» dei totem e tabù legali.
La Legge pretende che ogni nascituro, da qui alla fine del mondo, «rimuova» i propri appetiti e desideri, che li svezzi, che li sposti via dal vezzo naturale (il seno di mammà), Arrivabene-Crisostomoper allinearli alla sua logica.

Ma è proprio qui che il dramma si tinge di colori cupi, e il logos del Tragico di turno si fa serio, austero, spirituale, ideale, trascendentale. Qui dove, invece di rivoltarsi contro chi l’ha «spostato» (da Semele alla Coscia di Zeus), contro chi gli garantisce un «qui e ora», ma soltanto dopo averlo amputato del suo passato «biocosmico», per rimpiazzarlo con una protesi «logica», il Tragico che fa? per il bene della tribù dice, anzi ridice, rimette in scena la Colpa di tutti gli appetiti e desideri fuorilegge.

E l’«idealista», dal canto suo, invece di filosofare sul dolore che la Logica sociale impone alle nostre impressioni infantili, invece di processare il suo incipit arbitrario e crudele, chi è oggi ancora così cieco da non vederlo?, s’è calato nella buca del suggeritore, perché nessun attore della Tragedia si scordi una sola battuta della sua parte «edipica».
La Logica è nella nostra natura, suggerisce da là sotto. Quelle tue impressioni infantili, in quanto arbitrarie e rispondenti solo al tuo gusto, erano dunque già fuorilegge: volevi fotterti la mamma! confessa!

La Logica non «cancella» la memoria del suo Arbitrio, la sposta. Non vi stende sopra il velo del silenzio, ma ne moltiplica le rappresentazioni. La Logica ridice infinite volte, e in tutte le salse possibili e immaginabili, dice e poi disdice ciò che ha detto mille e mille volte – togliti questi desideri perversi dalla testa: dai! confessa: volevi uccidere tuo padre, per avere campo libero!

E poiché tutti siamo stati processati da bambini, e non solo l’Imputato di Kafka, poiché tutti siamo morti che eravamo bambini, e non solo quelli che escono dal camino di una vecchia canzone, poiché tutti i nostri appetiti e desideri ci furono guastati con l’accusa infamante d’essere perversi – eccoci qua a dire pure noi, per l’ennesima volta, una qualunque cosa al posto di quel «vezzo» che ci fu tolto [e il modo ancor m’offende], eccoci pure noi a fare tante belle chiacchiere invece di dare voce alla sola domanda che Dioniso rivolge a Zeus: chi sei tu che mi scippi al mio linguaggio naturale? e perché sei così misericordioso da attribuirmi un «cogito» o un «io penso» innato, se non per nascondere la malafede del tuo Arbitrio, elevato a ius di tutti gli appetiti e desideri?