Solo chi ritrova la «forza attiva» di dimenticare, solo chi rivive la «ripulsione» originaria della sua fantasia, la riluttanza a ogni memoria, può apprezzare la sottigliezza di un’archeologia della morale – di uno «scavo» tra le rovine della nostra mente, come quello che ci suggerisce il «visionario» Nietzsche.
Solo chi si è scordato del suo «io», e di tutte le storie di quell’«io» non sa più che farsene – solo a condizione di questo estremo delirio, può guadagnare una «seconda vista», uno sguardo sulla Specie, sulla Tribù delle tribù umane e, di lassù, se ha un pizzico di passione filologica, può perfino arrivare a «vedere le voci», le frequenze cioè con cui vanno e vengono dall’una all’altra tribù le dolenti «strofe» di certi antichi gridi «rimossi».
Dunque: se «originario» è l’oblio attivo, se dimenticare (qui nel senso più letterale possibile di non volere una mente, di sottrarsi all’impostura della Mente) è una «necessità» del nostro linguaggio congenito, allora … non sono io che mi dimentico – ma è essa, la Forza naturale dell’oblio, che si dimentica in un corpo che ancora non è mio, e si dimena contro la Mente che da fuori vuole imporle una memoria, assoggettarla a una soggettività. La scaccia come si scaccia un’intrusa (la Strega delle favole), e la respinge … finché ce la fa – finché cioè non si punge al suo crudele telaio. Perché, quando la disgrazia accade, è poi impossibile dimenticarsene.
E così, alla fine, la Memoria che è la Mente di una Gente, la Memoria che è la Strega di una Gente, la Macchina della Coscienza Gentile che rimugina inconsciamente il problema da cui è afflitta, alla fine piega ogni resistenza molecolare allo strapotere della sua macina.
Gira il Mulino delle stelle, passano gli anni, i secoli, i millenni. Siamo noi il grano, sono le nostre impressioni infantili le spighe falciate senza pietà, per un sacco di farina! – per un sacco di idee e di immaginazioni.
Un giorno, forse, qualcuno ci aiuterà a comprendere perché questo Mulino è finito com’è finito. Finito nelle mani di quel vendicativo che risponde al nome di Amleto …
La Mola di questo Mulino stritola ogni resistenza dei nostri corpi. Impietosa, la «forza mentale» della Moltitudine s’impone ai nostri organi, la Memoria stregata dalle parole si sovrascrive alla memoria dei nostri nervi, perché è più forte della «forza» dell’oblio del corpo-linguaggio individuale.
C’è poco da illudersi. È un fatto: la chiacchiera, il popolo, alla fine, vince. E più vince – più facilmente si dimentica di ciò che fu dimenticato in ogni singolo corpo, di ciò che a ogni nato dal grembo di una donna fu imposto, per fare posto alla Memoria «collettiva», a quella «cicatrice» del linguaggio che noi chiamiamo Mente …
Chiudere porte e finestre, consiglia Nietzsche. Sbarrare ogni entrata alla propria memoria mentale. Dimenticarsi d’essere (stati ridotti a) una mente. Dimenticarsi della propria mente. Dimenticarsi, anzi, di tutti i propri organi. Lasciarli liberi di fare quello che hanno da fare. Rientrare nel proprio Corpo senz’organi … facendo tabula rasa di tutte le loro «lagnanze». Congedare, se così si può dire, servi e cortigiani, sgombrare la corte di ogni altro pensiero, e scommettere tutto su quella «forza» là, la guardiana che sorveglia chi entra e chi esce dal suo «non-dove». Scommettere su quella Madonna che una volta, tanto tempo fa, era così necessariamente obliosa che non lasciava entrare a casa sua neanche uno spiffero della Mente Popolare.
Cosa fu che ti fiaccò, Signora? Cosa, infine, ti vinse, Madonna Dimenticanza?
Una volta sgomberato il terreno di ogni memoria, non resta che questa sola domanda da farle: cosa violò la soglia della tua sorveglianza?
Tu, Guardiana Paranoica, sospettosa d’ogni intrusione, come fu che ti lasciasti andare a una perversione della tua «purezza»? godevi di spensieratezza allora, eri serena, sorridente, e ti era più che bastevole il presente. Senza nessuna storia, senza nessuna memoria, potevi leggera immergerti tutta quanta nel caso e nell’arbitrio del momento. In una parola: vivevi – come non hai più vissuto dacché hai lasciato entrare il primo «dato» di memoria.
Cosa ti ha potuto piegare e mettere in catene?
Eri mentalmente più forte della Mente divina. Com’è che ti sei lasciata vincere?
Suvvia, non ti deprimere. Una «spiegazione» te la puoi immaginare: se solo ti dimentichi di tutte le storie che si sono scritte poi nella tua memoria, se di nuovo interpelli la tua dimenticanza, vedrai non ti sarà difficile ricordare la violenza fisica con cui la tua Gente ti «iniziò» alla memoria dei suoi segni e delle sue parole.
Come?, non li rivedi – i Titani che squartano Dioniso per scriversi a forza nei suoi organi?
C’è voluto tutto un Teatro assai più crudele del «teatro della crudeltà», per fare breccia, Signora, sulla tua linea di frontiera. Li avresti respinti facilmente certi ricordi, se non ci fosse stata tutta quella sadica messinscena di punizioni, castighi e supplizi corporali (voglio proprio vedere se sei capace di scordarti anche di questi!)…
Escissioni, circoncisioni, infibulazioni, scarnificazioni … a questo son servite: solo a stamparti addosso una Memoria – tu appartieni al Popolo, e se sei, è solo perché sei uno dei nostri, togliti questo maledetto vizio di disperderti nella Terra dei Dispersi – ricorda! – a partire da questo marchio di sangue con cui il Popolo si appropria dei tuoi organi – ricorda!
Tu, potente Inibizione, tu – Incontaminata Dimenticanza – così fosti inibita: con la violenza esercitata dalla Gente, dal Socio, sul tuo organo immacolato.
Altro che memoria innata! Altro che facoltà congenita alla nostra mente! È l’ora di farla finita con queste sciocchezze! l’ora di guardare in faccia la realtà – la nuda e cruda crudeltà – la realissima – su cui «filosofi e scrittori» da tempo immemorabile, dalla preistoria, dice Nietzsche, hanno steso il velo pietoso del loro idealismo. E se le loro «idee» non vengono a capo di nulla – è solo perché la loro dimenticanza infantile fu danneggiata in modo pressoché irreparabile. E quanto più quelle loro «idee» sono adesso immemori della violenza patita, tanto più funzionano a meraviglia in mezzo al Popolo. Macchine sono, che «realizzano» credenze smemorate, credenze ignare della loro cruenta origine.
La realtà del Popolo, la realtà che ogni «idealismo» realizza nella chiacchiera popolare, si nutre di tutti i «guasti linguistici» che ogni singolo nato dal grembo di una donna ha dovuto patire. Non serve a niente, perciò, mio caro Federico (ma tu lo sai meglio di me), è fatica sprecata provare a contraddire la Chiacchiera su cui il Popolo fonda le sue credenze e miscredenze.
Lo sai benissimo che la Chiacchiera ama girare in tondo, ama il tiro alla fune tra «guelfi e ghibellini», tra «guardie e ladri», ama essere tirata di qua e di là all’infinito senza mai venire a capo di nulla, ama i suoi problemi ma si guarda bene dal risolverli. Lascia che ogni problema spari il suo colpo a vuoto a casa di ogni singolo «io». Che ciascuno in silenzio ne sconti il fallimento per i fatti suoi, sulla sua pelle. Privatamente. Evviva la privacy! Amen.
Il corpo di ciascun «io» diventa così la «tomba» (era questo che intendeva Platone?) – il corpo sepolto sotto il Segno con cui il Socio l’ha marcato da bambino. Il corpo di cui il Socio si è appropriato, per scriverci addosso il suo Mito, il suo Rito, il suo Racconto.
A futura memoria, anche da morto, il Segno non ha altro da consegnare che la sua contraddizione: nient’altro che la discordanza tra ciò che Esso pretende di «significare» (il «senso» che l’Impostore pretende da ogni «associato» al suo problema), e l’«indicibile» tortura che infligge al corpo vivente (per torcerlo alla convenienza sociale, e spingerlo ad abdicare alle sue «arbitrarie» fantasie).
Al corpo vivente quel Segno è vietato ignorarlo o misconoscerlo: la sofferenza gli impone di farci i conti. Come potrebbe essere altrimenti, se la sofferenza lo «guasta» una volta per sempre, costringendolo a non dimenticare? Ogni corpo «segnato» ha sperimentato sulla sua pelle il Guasto. Ogni corpo «associato» ha fatto esperienza del Danno inferto alla libidinosa spensieratezza della sua infanzia. E di questa «esperienza» porta per tutta la vita il segno, lo porta scritto nei suoi nervi.
La fantasia che, fino a un attimo prima, fantasticava – la macchina distratta, la macchina dispersa nelle sue dimenticanze – si torce e si contorce: là dove, fino a un attimo prima, scorreva libero il flusso dei suoi «appetiti», adesso c’è un nodo.
È il nodo del Problema – il nodo a cui il Socio stringe, perché nessuno se lo scordi, il ricordo del suo Problema. Il Socio ha marchiato l’«animale» che allevava, lo ha contrassegnato (sei uno dei nostri, tu ora – come noi – speri prometti e giuri – tu pure aspetti il futuro), gli ha insegnato il Segno (quale che sia accidentalmente) con cui gli impone la contraddizione tra il suo «significato ideale» (il suo senso sociale) e il «dolore materiale» (il pathos individuale) del corpo che a questo senso viene sacrificato. Il Segno è scritto sul corpo di un «morto», dice Platone. E dice che quel corpo è la tomba di chi, fino a un attimo prima, era vivente.
… ciò che nel profondo si è conservato in silenzio è solo la tomba della mia anima di un tempo.
(Rilke)
Ogni «io» è, dunque, una lapide – se ho capito bene. Ma non una lapide qualsiasi, indefinita. No – ogni «io» è una lapide vigilante, una paranoica sentinella per sé e per i suoi [arbitrii]. Quale che sia, la sua «iscrizione» è stata scritta col terrore.
Ecco ciò che omette di dire Platone: che il «mondo delle idee» è l’effetto, non la causa, delle nostre affezioni infantili – il loro effetto perverso, dal momento che quelle affezioni sono state costrette a fare i salti mortali per potersi illudere di essere ancora vive.