Glorioso mattino o triste sera?
Né l’uno né l’altra, ma – inesprimibile dolore – solo il vasto campo desolato, avvolto dalle brume, di tutto quello che non può trovare espressione, nel tempo e al di fuori di esso.
Né giorno né notte, dunque ma, nel segno obliquo delle loro voci coniugate insieme, lo spazio indefinito: lo spazio lasciato vuoto dal ritrarsi della lingua spossessata in seno alla lingua ritrovata.
(Jabès, La memoria delle parole)
***
Le parole che ti scrivo, le parole che ti parlo … sono parole dell’Altro. Non sono io che ti scrivo o che ti parlo, ma è l’Altro che parla e scrive all’Altro tramite noialtri.
Sin dalla prima volta che delirò, il mio linguaggio – sin dal primo istante che saltò (op-là) dalla fantasia dritto in bocca all’Altro, o come dicono i filosofi, dritto nelle fauci della Balena che è l’Immaginazione Umana – sin da allora s’incappiò nei nervi della Coscia di Zeus, nei tendini di desiderio, e nei flussi di orgoglio e umiltà, di voluttà e di angosce, della Macchina Riproduttiva Umana. Sin da allora si contentò, fu costretto a contentarsi, delle riproduzioni immaginali di quelle fantasie (insensate, insane) a cui dovette umanamente abdicare.
A onor del vero, quel linguaggio non era mio. O perlomeno, non ancora il mio «corpo» era così stolto da pensare che il linguaggio potesse essere un «che» di privato, una faccenda dell’io. Era, semmai, il linguaggio dei geni naturali della mia Specie. Il linguaggio che la Natura aveva inscritto nel «corpo senz’organi» di un uomo a venire: in quel corpo, in cui l’Uomo non era ancora avvenuto, e i cui «organi» non erano ancora attrezzati a delirare al modo sociale, a rinunciare cioè, nel bene e nel male, all’autismo delle proprie fantasie per riprodurle in immagini e idee a beneficio dell’Altro – dei suoi segni e delle sue parole.
Il Discorso dell’Altro, dice Lacan, è l’inconscio. Corre da un corpo all’altro, e in ciascun corpo attraversa e manipola nervi, e tira o allenta tendini, e contrae o distende muscoli, finché non impone la sua propria Maestà, la sua propria Volontà di Potenza. È quando nervi e tendini, sensi e perfino unghie e peli (al termine di questa Titanomachia) infine si assoggettano, è allora che i nostri organi vengono a essere «soggetti» consci del Discorso: quando sono diventati suoi «oggetti», suoi «giocattoli», servi e ministri della sua Volontà. E della sua Onnipotenza.
L’Altro vuole l’Altro – tramite noi, trapassando i nostri corpi. L’altro può l’Altro – a dispetto della nostra impotenza. L’Altro decide il bello e il brutto, il bene e il male, e assoggetta i nostri «organi» a prendere su di sé le «misure» sociali. Maschili e/o femminili, questi nostri poveri cristi di «organi» devono piacere all’Altro. Sennò, sono cavoli amari.
Non devo piacere io a te, ma l’Altro all’Altro – tramite noialtri. È scritto e detto nel Discorso, solo però che è scritto e detto a quel modo inconscio, subdolo, tale che trova sempre un altro idiota che arriva fresco fresco dall’altro mondo, pronto a giurare sulla coscienza del proprio «io» solo perché «pensa». Cogito ergo sum. Ma, in realtà, «io» non sono che quel pensiero che l’Altro mi costringe a pensare mentre impone ai miei organi i suoi pesi, e alle mie (dionisiache) frenesie le sue misure ideali, le sue (apollinee) proiezioni immaginali.
Penso: vado bene così? che dici? le piacerò? – mi guardo allo specchio, non io però! È lo sguardo del Giaguaro che dallo specchio, severo, mi esamina. Sono i miei vicini, i compagni più stretti, gli amici più fraterni che mi scrutano coi suoi occhi, e mi spogliano finché non mi costringono, per pudore, a vestirmi di bugie.
Ma quante bugie dovremo ancora dirci prima di smascherare l’Altro?
È Lui che vuole e, stanne certo, è solo Lui che può piacere alla «nostra» bella. È un suo problema, perché ce lo facciamo scaricare addosso? perché lasciamo che continui a intossicarci la vita? dov’è che ci facciamo ricattare – raccattando quel poco e male che avanza degli «organi» di cui l’Altro ci ha espropriati, e che ora, solo dopo averli guastati coi suoi pesi e le sue misure, con magnanima misericordia ci restituisce?
Tutto ciò che di «vivo» rimane e avanza di quella «rimozione» che i dottori chiamano primaria – non è che un dispettoso Dioniso, un seme d’eresia, di trasgressione, un acino blasfemo: non è forse lui il «rimosso» dal grembo del linguaggio naturale? E non è sempre lui quello che Sua Maestà (Zeus, il Giaguaro, l’Es, l’Altro, non importa sapere esattamente chi) ha scippato alla pazziella infantile e alle sue gratuite transumanze fatte di fumi di fantasie di nuvole gonfie di nulla?
Ma tu guarda invece quello scemo di Apollo. Va nudo, fiero della sua nudità, non fa che andare in giro a esibirla. Apollo vuole essere visto. Sa che lo sguardo dell’Altro si compiace dei suoi organi. Sa che l’Altro lo trova «bello». E, per giunta, sa pure suonare. Sapessi che musicista! non senti una nota stonata nelle sue melodie! mai una stecca! Apollo non tradisce mai la musica per far venire a galla il grido blasfemo, o lo strillo disperato di chi, sotto lo sguardo del Giaguaro, si trova «brutto», difettoso in questo o in quell’organo, non all’altezza dei requisiti che piacciono all’Altro.
Dioniso sa che le parole che dice sono le brutte, le «male»-parole dell’Altro. Le parole con cui l’Altro sempre gli rinfaccerà di essere appena un aborto di linguaggio. Di un linguaggio strozzato sul nascere. Proprio l’Altro che gliel’ha strozzato, glielo rinfaccerà.
Cosa ci vuoi fare? Dioniso è un caprone, laido, peloso e scorbutico. E tale resterà fino all’estinzione della nostra Specie.
È l’Altro che vuole così. È l’Altro che l’ha destinato a vivere la «tragedia» (ma anche il «dramma satiresco», anche la «commedia», anche la «risata») di cui Apollo nulla saprà mai.
Che la destra non sappia quel che fa la sinistra. Che Apollo eternamente ignori la clandestinità, la timidezza e il tremore che assalgono Dioniso dinanzi allo specchio.
Sono anch’io un essere umano, dice nell’omonimo film l’«uomo-elefante», il deforme, lo sgorbio di natura. Dice: vengo anch’io di là, anch’io vengo da Delfi, dal grembo di mammà.
Che la mano con cui ti scrivo continui pure a fingere di non sapere che è l’altra, la mano analfabeta, la barbara, quella che / sempre acquistando sul lato mancino / anela a rapirti, mia «bella» Elena.
C’è un solo «posto», dice il Racconto, ce n’è uno solo al mondo in cui Apollo e Dioniso convivono: è presso l’oracolo di Delfi. Letteralmente: è presso le Voci del «Grembo» che ha messo entrambi al mondo. È là dove quelle Voci prendono strade diverse. L’una, quella di Apollo, «canta». L’altra, quella di Dioniso, «bestemmia». L’una si nutre degli artifici e delle invenzioni «culturali», affinché la sua «macchina desiderante» non cessi di desiderare, sebbene il suo desiderio non sia più il suo «natio» desiderio, ma ridotto a desiderare il desiderio della Legge. L’altra invece rimane barbara e selvaggia, e continua a nutrirsi di ciò che non ha nome né rappresentazione nel Teatro dell’Immaginazione Umana: l’altra è la voce di un dio che nessuna «cultura» è riuscita mai a «scritturare»… dio dei rapimenti, dio delle fughe dal mondo, dio delle passioni folli, dio dell’estro che, sempre, extra legem rimarrà.
Solo Euripide ebbe la faccia tosta di far esibire Dioniso sulla scena. Euripide non poteva non saperlo (il suo perciò era un «dispetto», e dunque un atto di devozione al dio dei dispetti), Euripide sapeva benissimo che il posto di Dioniso è sul lato inconscio del Teatro, nell’ombra subdola delle parole e dei gesti dell’Altro, dove l’Altro trova sempre un altro «caprone» che arriva fresco fresco dall’altro mondo, pronto a disfare ogni sua messinscena.
Cogito ergo sum. Ma, in realtà, «io» non sono che quel pensiero che l’Altro è costretto a ripensare mentre impone ai miei tendini le sue tendenze, ai miei organi i suoi pesi, e alle mie (dionisiache) frenesie le sue misure ideali, le sue proiezioni immaginali, le sue sedicenti bellezze (apollinee).
Ma se proprio devo cogitare, se davvero è necessario abortire la lingua delle mie fantasie, e che anch’io salga sul palcoscenico di questa «moderna democratica» Atene, allora vuol dire (dice Dioniso) che sarò un pensiero in rivolta che cogita contro chi vuole e può metterlo in castigo, contro chi vuole e può farlo sentire in colpa, e costringerlo a pensarsi brutto, deforme, sporco, e peccaminoso. Se è proprio necessario che sia anch’io uno «spirito» del Teatro e della Cultura, allora vuol dire che sarò quello spirito di contraddizione che l’Altro vuole e può che «io» sia. Vuol dire che, qui, a Delfi dove l’Altro non può non concedermi di coesistere accanto ad Apollo, continuerò a nascondermi dentro la Voce della Pizia, e di questa Voce continuerò a rinnovare il suo «eterno ritorno» all’Arbitrio.
In che lingua posso dirtelo? Le parole che ti scrivo, le parole che ti parlo … sono le dolenti note dei miei «organi», mentre l’Altro ci canta suona e balla sopra. Sono gli echi di un linguaggio che l’Altro ha «rimosso», i resti di una passione «spossessata» alla sua Madrelingua.
Le parole che ti scrivo e che ti parlo, sono parole che vogliono (ma non so se possono) dispiacere all’Altro, per la storpiatura a cui le assoggetto. Non conosco altro modo per essere Dioniso che piace a te sola, mia immacolata fantasia rimossa, mia dolce e malinconica Arianna.
Ma tu, non starmi a sentire. Tu cercati pure il tuo Teseo. Ché io, intanto, dispero.
M’ami? Non m’ami?
Glorioso mattino o triste sera?
Come può il sole sorgere a occidente
se io per primo non ci credo?