Platone – Scrivere e/o chiacchierare

SOCRATE: Chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi a sua volta la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e di saldo, sarebbe così tanto ingenuo da ignorare completamente il vaticinio di Ammone, illudendosi che i discorsi scritti siano qualcosa in più di un mezzo per richiamare alla De-chirico-il-bambino-cervellomemoria di chi già sa le cose che vi sono scritte.
FEDRO: Giustissimo.

SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, questo ha di terribile, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. E lo stesso fanno anche i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono con l’intenzione di apprendere, continuano a ripetere sempre le stesse parole. Una volta scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso.
FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime.

SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo?
FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce?
SOCRATE: È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere.
FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato [il discorso orale, raccolto dalla viva voce] di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un’immagine?

SOCRATE: Per l’appunto. Ora dimmi questo: l’agricoltore giudizioso farà sul serio seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e da cui vuole ricavare frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e in occasione della festa, se mai lo farà? E invece, i semi di cui si prende cura sul serio li Magritte-viso-genioseminerà in un luogo adatto, osservando le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanto ha seminato giunga a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farà così, Socrate: sul serio in quest’ultimo caso, e nell’altro, come dici tu, soltanto per gioco.

SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell’agricoltore con le sue sementi?
FEDRO: Nient’affatto.
SOCRATE: Allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole attraverso la canna da scrivere in un mucchio di discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato l’ἀλήθεια.
FEDRO: No, almeno non è verosimile.

SOCRATE: Infatti non lo è. Ma, a quanto pare, seminerà e scriverà i giardini di scritture per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro di segni da richiamare alla sua propria memoria, nel caso giunga «alla vecchiaia che porta oblio», e a beneficio di chiunque segua la sua stessa traccia, e gioirà nel vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, dilettandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in questi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui io parlo.
FEDRO: È un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all’altro che è insulso: il gioco di chi trova piacere nei discorsi [vivi, orali], narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.

(Platone, Fedro, 275c-277a)

***

Dalì-rinocerontico

Che Socrate amasse la chiacchiera, l’avevamo capito da un pezzo. Non c’era bisogno che qui ce lo dicesse apertamente: per Socrate il piacere della parola dialogata, della conversazione viva, in presa diretta con le anime, era ineguagliabile da qualunque altro «passatempo». Era il suo gioco prediletto, la sua «pazzia» quotidiana, la sua παιδία e, insieme, la sua παιδεία – il suo modo di educare pazziando o, forse meglio, di pazziare ad educare i suoi giovani interlocutori.

Socrate però non spinse mai questa sua pazziella fin là dove si sarebbe avventurato Platone – fino a scrivere, che dico?, anche solo un frammento di quello che aveva piacere a «dicere» a viva voce.
La Vita (sic) ha una voce, anzi ha molte voci che s’intrecciano e s’intrigano in infinite «dicerie»: questo Socrate non lo perse mai di vista. Che la Vita è dialogos – e che il logos (o piuttosto il monologos) è solo un tardivo concetto degli «scrittori»: questo, il caro Roussimoff-scriba-ebreoSocrate non se lo scordò mai. Ci sono scribi e scribacchini, tutti figli figliocci e figliastri di Ermes/Thot.

Perciò non c’è da meravigliarsi se Socrate qui riprende, alla lettera, la risposta del re Thamus: l’invenzione di cui Thot si vanta tanto, è solo un mezzo, solo un espediente, anzi un farmaco per chi è debole di memoria. La scrittura infatti lo aiuta solo a richiamare alla memoria ciò che s’è scordato di sapere. La scrittura è solo un mezzo per riconoscere quello che già ha conosciuto senza la mediazione dei segni scritti. Solo dunque un sigillo apposto (e quasi sempre a occhio e croce) a un suo «vissuto» presignificante. Lo scrive, ed ecco – quel «vissuto» è morto e imbalsamato, una volta per tutte.

Altra cosa, dice Socrate, sono i discorsi vivi. Essi soli sono capaci di scriversi nell’anima altrui, capaci cioè d’intrigarsi nelle faccende e di imprimersi nei ricordi dell’interlocutore. Altra cosa è il Dialogo, il Discorso pubblico, e il molteplice intreccio dei «colloqui», attraverso cui la lingua continuamente rinvia e arricchisce, glissa altera cancella e aggiorna, da un’anima all’altra, il proprio «repertorio». Voce dell’Es, dirà tempo dopo Freud. Chiacchiera sovrana dell’Esserci, dirà Heidegger. Il «ci» in cui «si getta» il nostro essere, ad esso rimettendo il suo destino. La via lastricata di infiniti blablablà, la via di Polifemo, così l’aveva immaginata Parmenide.

Eccoci allora alla questione: com’è che, da un lato dice che siamo prigionieri della chiacchiera, e dall’altro è proprio chiacchierare ciò per cui Socrate prova piacere e si volto-donna-triplicediletta? Come stanno le cose? Come ci si può non smarrire, non perdersi, in questa Selva che è tanto più oscura, tanto più terribile e potente, quanto meno ne sospettiamo la tirannia?

Non è così difficile, dice Socrate (e Platone, s’intende): per non essere divorati dall’Orco Polifemo, dall’Es chiacchierone, bisogna apprendere l’arte della dialettica, l’arte del dialogare. Oh, niente di logico, mi raccomando: niente di «solitario», personale, individuale – che non sia guardato, concepito e vissuto come il «resto» di un fallimento dialogico, nient’altro che una macchina celibe lasciata lì a macchinare in solitudine (duale), nel buco nero dell’io = io, o nella follia di una passione (Tristano/Isotta = Isotta/Tristano), la sua propria «pazzia», più o meno eroica e/o furiosa (per informazioni rivolgersi al buon paladino Orlando).

Oggi, lo so, dici dialettica, e subito uno pensa: che palle! Tesi antitesi sintesi – che logica da castrati! La logica non è che dialogo castrato. Il dialogo vivo, e non quello scritto da Platone, non obbedisce a nessuna Logica. Il mondo è fatto alla rovescia di come se l’immaginava Hegel. Lo Spirito Assoluto non è che l’ultima macchinazione di una Metafisica prigioniera del suo concetto di Logos.

Va beh, ma anche queste sono chiacchiere. Non è questa la questione. Si tratta di ben altro. E, questo, a Socrate gli va riconosciuto.
Ci sono discorsi, egli dice, discorsi orali, discorsi vivi, discorsi fatti «ad arte» che da sé «si scrivono» nell’anima dell’interlocutore. Discorsi, i cui «segni» trapassano da macchina celibe a macchina celibe. Segni in cui il dialogo continua, nel bene e nel male, ad «animare» la Vita. Segni in cui il «ci» (il qui e ora) dell’Esserci riproduce la formula del suo incantesimo – sempre mancante di tre parole, e tuttavia o forse proprio perciò capace di sempre nuovo incantamento.

Ed eccoci al punto dolente (era a questo che volevo arrivare): se è nel Dialogo che siamo tutti immersi, e se la sola arte per non annegare è la Dialettica – l’arte, cioè, di saper Carrington-ragnatelaparlare (a chi, dove, come e quando), l’arte di stare a parlare in mezzo alla Gente (l’arte del «cor gentile», dicevano gli Stilnovisti) – bene, se è così che stanno le cose… a settant’anni, è ora di dirmelo: io sono il meno «gentile», il più «logico» logorroico, a cui Socrate deve fare il favore di tirare, qui e subito, un orecchio. Fino a farmi male.

Ho parlato a vanvera, a volte perfino di metafisica. Ma, ciò che è peggio è che me n’è mancata l’Arte. Ecco perché ho aperto il mio cuore a chi dove come e quando dovevo tacere. Ho scritto «sull’acqua nera» i segni che il Dialogo aveva inciso nell’infanzia della mia anima.
Ed eccomi, alla mia veneranda età, a prendere coscienza di ciò che, in realtà, sono quando sono nel «ci», quando mi guardo con gli occhi della Gente: sono un vecchio sgangherato motore celibe disincantato… forse non sono più che una delle tre parole che mancano alla formula perfetta del Dialogo. Proprio io, questo mio io (io = io), sono il «peccato» del mio proprio Angelo.
Il Soggetto del Dialogo è sempre noi.
Questo l’ho detto invano alle persone sbagliate.
E sto sbagliando, temo, anche adesso.