La creatura che in terra più propriamente si accompagna a quel tratto dell’Angelo, per cui egli appare deciso nella sua decisione, necessitato da essa, è l’animale. L’Angelo si chiama cherubino e farfalla e ape per questa affinità. L’Angelo imparadisa (o demonizza) l’animale. Mehr Vogel… titola Klee uno dei suoi disegni sul tema dell’Angelo: più uccello… che Angelo. Uccelli dell’anima, li chiama Rilke: l’«uccel divino» di Dante (Purgatorio, 2: 38).
L’angelologia dantesca è dominata da questo motivo (e non poteva essere altrimenti, dal momento che proprio in Dante l’idea dell’Angelo, di tutti gli Angeli, come di enti inesorabilmente collocati nell’ordine cosmico giunge alla sua più dura espressione). Poiché il conoscere dell’Angelo è diretta intuizione, poiché l’identità di conoscere e vedere («dominante» di tutta la nostra cultura) è in lui perfetta, sogna chi gli attribuisce la troppo umana facoltà della memoria (Paradiso, 29: 79-82); la visio facialis ne rende inutile l’«arte».
Gli Angeli non avranno perciò neppure il ricordo di quella decisione che li ha divisi in due regni. L’assenza di timore e tremore nell’Angelo dantesco si spiega sulla base di questa sua perfetta smemoratezza. Solo l’uomo ricorda l’istante di quella decisione; solo l’uomo conosce l’avventura e il peccato dell’Angelo. Ma come potrà l’Angelo, invece, sapere qualcosa dell’uomo, se non ha idea neppure del più profondo dolore che ne tormenta l’esistere: dover ricordare?
I motivi rilkiani della lontananza dell’Angelo trovano qui il proprio fondamento teologico. L’onda del nostro Erinnerungleben [vivere che ricorda] può, a volte, sorprendere l’Angelo, ma mai egli vi ha parte. Dante giunge ad ammirare il trionfo e la luce viva del Coro angelico, ma nessun Angelo lo chiama e gli parla. Se la decisione originaria dell’Angelo è irreversibile già-stato, è necessario che egli perda la memoria e il suo stesso ad-tendere si rappresenti come istantanea riflessione della Luce che egli loda.
Noi soli siamo custodi della memoria; è Tobia che si muove alla ricerca del messaggio che Raffaele ha scordato – è Maria che detta a Gabriele le parole dell’Annuncio. Non per essere «tenuti a cuore» invochiamo l’Angelo, ma, all’opposto, per nostalgia di quella perfetta dimenticanza di cui egli è maestro, di quella Lethe compiuta, «contenta» di sé, coincidente con la stessa visione, alla cui fonte si alimenta incessantemente la sua luce. La felicità dell’Angelo significa, in Dante, oblio.
Ma Beatrice, Madonna Intelligenza, non spiega soltanto che sogna chi ritiene l’Angelo dotato di memoria. In terra, «per le vostre scole», si equivoca anche affermando che egli intende e vuole (Paradiso, 29: 70-72). L’opera della «schiera d’ape» non si svolge discorsivamente e per intenzione. Quella «animale», dunque, appare qualcosa di assai più forte che una semplice metafora: un vincolo davvero simbolico sembra correre tra la necessità fissa al suo presente e alla sua Luce del «lavoro» angelico e la vita dell’animale, della creatura in quanto animale, tra la semplicità a-intenzionale e immemore dell’Angelo e l’innocenza dell’animale. […]
Dante teorizza l’Angelo creatura muta nel De vulgari eloquentia, 1: 2.3: «all’uomo soltanto è dato parlare, perché solo a lui era necessario; non agli angeli, non agli animali inferiori fu necessario parlare». Per annunciare le proprie «gloriose concezioni» gli Angeli hanno «una prontissima e ineffabile sufficienza d’intelletto», grazie alla quale possono conoscersi reciprocamente «totaliter». Come nell’animale inferiore l’istinto è tutt’uno con la sua natura, così intelligenza e riflessione nell’Angelo: conoscere è per l’Angelo riflettere nell’istante la Luce che egli eternamente circuisce. La sua intelligenza è immediatamente speculativa, così come il comportamento dell’animale, il suo habitus, riflette «sanza mezzo» la sua più propria natura.
La spirituale speculazione dell’Angelo procede spontaneamente dalla sua natura, come «atti e passioni» da quella animale. Pura in-fanzia quella dell’Angelo – ma in-fante anche l’animale. Questa corrispondenza stabilisce un vero e proprio asse dell’ordinamento cosmico: intelligenza, ma senza memoria né linguaggio, da un lato, lassù – natura, ma non «seducibile» da atti o passioni, dall’altro, quaggiù. Muti entrambi, Angelo e animale, poiché entrambi estranei al «commercium» che la nostra ratio istituisce. Proprio al sommo della sua forza speculativa, la figura dell’Angelo manifesta questa sconcertante affinità con l’altra infanzia, quella dell’animale. I loro zodiaci si intrecciano. E sembra che una stessa necessità li comprenda.
Nel «giallo de la rosa sempiterna» (Paradiso, 30: 124) balenano l’Angelo e ape e farfalla. La forma della rosa li stringe indissolubilmente: forma completa, che sa contenersi in se stessa pur attraverso infiniti giri – come le miriadi di Angeli intorno al loro invisibile «ubi».
Rose, toi, ô chose par excellence complète
qui se contient infiniment
et qui infiniment se répand, ô têtê
d’un corps par trop de douceur absent.
(Rilke, Les Roses, 3)
Rilke paragona l’interno della rosa (quello spazio che, come egli dice in un’altra poesia della sua raccolta in francese dedicata al Fiore, «sans cesse / se caresse») ad una dimora angelica. Nella «grande unità» sono di casa gli Angeli; abitano quella dimensione ou-topica che unisce-divide esserci e al di là. Di questa dimensione è simbolo la rosa; di questa «grande unità» è come memoria la sua completezza.
La citazione dell’immagine dantesca è evidente in Rilke, ma altresì la profonda trasformazione che questa subisce. In Dante il silenzio dell’Angelo mantiene un necessario rapporto con i movimenti del mondo terrestre; il loro tempo è un altro, un’altra la loro natura, ma la possibilità della comunicazione tra noi e quelle separate sostanze rimane ben salda, come lo stesso viaggio del Poeta verso l’Occhio della totalità dimostra.
Questa possibilità si trasforma in Rilke in un puro interrogare. Potrebbero mai gli Angeli rivolgersi a noi? E che cosa mai vedrebbero, se lo facessero?
Viste dagli Angeli, le cime degli alberi forse
sono radici, che prendon linfa dai cieli;
e le profonde radici di un faggio
sembrano loro vette silenziose.
Non è per loro trasparente la terra
di fronte al cielo, e il cielo denso come un corpo?
(Rilke, Vergers, 38)
Il punto di vista degli Angeli rovescia i metri del nostro sensibile orizzonte. La loro rosa, che si accarezza e si contiene, non li racchiuderà tanto perfettamente da impedire che un solo loro sguardo possa raggiungerci? Se anche questo Angelo-Narciso rivolgesse lo sguardo oltre la sua rosa, la nostra terra, l’apparente solida terra, gli apparirebbe un soffio trasparente. Nulla potrebbe qui trattenerlo.
Di nuovo, l’unica immagine. «Nel giallo de la rosa», che sembri far cenno, l’unico possibile passaggio tra l’intelligenza senz’ombra dell’Angelo e la molteplicità sfuggente delle nostre memorie, lingue, attese, appare quella dell’animale. […]
Questo animale, che non ha memoria, né intende o vuole secondo il senso che noi attribuiamo a questi termini, questo Narciso perseguitato e battuto è quaggiù l’unico segno dell’Angelo incorporeo e incorruttibile. Non sa di esserlo, e se anche lo sapesse non potrebbe dirlo – ma proprio la sua in-fanzia lo annuncia.
Perciò la corrispondenza tra la rilkiana Lettera a Witold von Helewicz e le immagini dell’angelologia dantesca può risultare perfetta. Come la «schiera» di Dante, «ventilando il fianco» (Paradiso, 31: 18), corre tra fiore e alveare, «là dove il suo amor sempre soggiorna» (ibid., 12), così noi «raccogliamo disperatamente il miele del visibile, per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile». Allorché imprimiamo in noi «questa precaria, caduca terra così profondamente, così dolorosamente e appassionatamente, che la sua essenza in noi risorga invisibile», il nostro lavoro è essenzialmente analogo a quello delle api dantesche. «Noi siamo le api dell’invisibile».
Soltanto che, mentre l’operari dell’ape-Angelo insiste nella pienezza della Rosa, non sa di alcun arrischio oltre tale perfezione (e neppure ricorda un prima di questa dimora), l’ape di Rilke ha memoria, linguaggio, intenzione. È come se la necessità dell’angelologia dantesca (espressione coerentissima della visione generale della Commedia) fosse stata sconvolta da quel pneuma escatologico che Dante raggela nella dimensione dello iam.
Poiché noi salviamo la cosa nell’invisibile essenzialmente attraverso il linguaggio, per quella dimensione simbolica del nome, di cui la perfetta in-fanzia dell’Angelo nulla può sapere. All’Angelo questa salvezza apparirebbe un compito disperato, e infatti disperatamente «raccogliamo il miele del visibile» (Rilke). Ma proprio l’istante di questa disperazione crea quella improvvisa frattura nel contesto apparentemente continuo del visibile e delle sue parole, dove poter raccogliere (ri-cor-dare) «la precaria, caduca terra». In questo istante avveriamo le ali di Gabriele; in questo istante hanno origine le nostre astrali amicizie con l’Angelo.
In Dante, il miele che l’Angelo raccoglie dalla mistica Rosa è sicuro nell’alveare d’oro dove lo depone; nessuna memoria e nessuna attesa mai lo inquieteranno; nessuna domanda dimenticata lo arrischierà di nuovo. Ma la stessa figura «animale» balenante nella sua luce basta a mostrare quanto partecipi dello Jesus patibilis che segna il volto di ogni creatura – e quanto perciò corrisponda all’interrogazione escatologica che proprio quel patire incessantemente rinnova.
È vero che il volto dell’animale sembra aver quaggiù la stessa direzione di quello dell’Angelo; entrambi danno all’Aperto, guardano a «das Offene» (Ottava Elegia, 1-2), mentre i nostri occhi sono sempre come «rigirati». «Quello che c’è fuori, lo sappiamo soltanto / dal viso dell’animale». Le costruzioni del mondo riprodotto dal pensiero riempiono gli occhi dell’uomo; quelli dell’animale, invece, profondi specchi dell’Aperto, vanno «ins Freie»; «il libero animale / ha sempre il tramonto dietro di sé / e dinanzi ha Dio, e quando va / va in eterno, come vanno le fonti» (Ottava Elegia, 10-13).
Con uguale misura, in Dante, l’Angelo circuisce il Punto, cui tiene fisso «viso e amore». E «lo spazio puro in cui sbocciano / i fiori senza fine» (Ottava Elegia, 15-16), di cui l’animale è specchio, appare evidente memoria del Fiore dantesco. Animale e Angelo appaiono sicuri nel e del loro spazio, giustamente in esso disposti; nulla li «infutura», nessuna forza può trascendere il loro presente. «E dove noi vediamo il futuro, lì l’animale vede Tutto / e se stesso in Tutto salvato per sempre» (Ottava Elegia, 41-42).
Lo sguardo dell’animale gode della stessa autonomia dalla frammentarietà dello spazio e dalla successione del tempo, di cui godono i ludi angelici areopagitici e danteschi. Al sicuro consistere (ai due poli dell’axis mundi) di Angelo e animale si oppone il nostro gesto: quello di creature colte sempre sul punto di partire, figure dell’esodo, sorprese nell’istante in cui si volgono a prender congedo dalla propria terra: «così noi viviamo per dire sempre addio» (Ottava Elegia, 75).
Ma l’analogia nasconde una differenza inesorabile – ed è perciò che l’animale può esserci immagine dell’Angelo, ed è perciò che il suo volto patibilis può custodire per noi un battito delle ali dell’Angelo. E questa differenza si riverbera nel «sicuro» spazio dell’Angelo, sconvolgendone la necessità cantata da Dante. «Nel vigile caldo animale / c’è il peso e l’ansia di una grande tristezza» (Ottava Elegia, 43-44), che l’ape paradisiaca non conosceva, ma che ben conoscevano gli Angeli dei due Gregori, il Teologo e il Nisseno, l’Angelo di Narsai e di Isacco di Ninive.
Questo peso e quest’ansia vengono anche all’animale dalla forza che schiaccia noi: «die Erinnerung»: memoria, ma come facoltà di internarsi in se stessi, e attraverso questo movimento internante in sé la cosa, trasporla così nell’invisibile. L’animale ricorda e dunque patisce un distacco dalla terra, dal grembo. Anche lui è ex-pressione; e questa espressione è irreversibile. Non basta l’in-fanzia, il silenzio per sopprimere l’espressione. L’Angelo, invece, persiste nella sua Rosa, come «il moscerino che saltella ancora dentro / persino quando va a nozze» (Ottava Elegia, 54-55).
L’animale di Rilke vola, sì, come l’Angelo, ma vola via e ricorda da dove. La memoria costituisce il passaggio tra noi e l’animale, così come la direzione dello sguardo e l’infanzia quello tra animale e Angelo. Ma noi ricordiamo l’Angelo unicamente attraverso questi gradi: dall’immagine ou-topica di una felice, completa dimenticanza, alla «creatura piccola», per la quale ancora «grembo è tutto», fino alla «mezza sicurezza dell’uccello», che «passa per l’aria indeciso / e va come un’incrinatura lungo un vaso» (Ottava Elegia, 63-64), giù giù fino all’animale più misero, costretto al suolo e al peso della Erinnerung. Nel trapassare di queste forme vive l’Angelo, connesso ormai per sempre all’inquietudine del nostro sguardo, al gesto del nostro addio.
(Cacciari, L’Angelo necessario)