Heidegger – Rilke, la creatura e l’aperto

Hanson-paesaggio

È soprattutto nell’Ottava Elegia che Rilke parla dell’«aperto». Una spiegazione dettagliata di questa elegia non è qui prevista e nemmeno necessaria. Necessario rimane soltanto il chiaro riferimento al fatto che la parola di Rilke circa l’«aperto» si differenzia in tutti i sensi da ciò che è da pensare in merito all’«aperto» nel suo nesso essenziale con l’ἀλήθεια e nel senso di una domanda che pensa.
L’inizio dell’Ottava delle Elegie duinesi dice:

Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. Gli occhi nostri soltanto
son come rivoltati e tesi a lei intorno:
trappole al suo libero cammino.
Ciò che è fuori, puro, solo dal volto
animale lo sappiamo…

I primi versi dell’elegia dicono senza indugi a chi è concesso di vedere l’«aperto» e a chi no. In questo senso, gli occhi della «creatura» vengono contrapposti ai «nostri» occhi, Guerra-autoritrattocioè agli occhi dell’uomo.
Che cosa significa qui «la creatura»?
La parola latina creatura, che deriva da creare, significa «l’insieme di ciò che è stato creato». Creator è il Creatore. La creatio, cioè la creazione così intesa, è una determinazione fondamentale biblico-cristiana dell’ente. Omne ens est qua ens creatum, a eccezione del Creatore increato stesso, che è summum ens. Creatura nel senso di ens creatum è quindi anche l’uomo. […]

Ora, però, se Rilke contrappone «la creatura» all’uomo, e se tale opposizione è il tema centrale dell’Ottava Elegia, allora la parola «creatura» non può significare creatura nel senso dell’insieme della creazione. Una chiara definizione di questa parola nel linguaggio di Rilke richiederebbe una interpretazione delle Elegie duinesi come poema unitario, e precisamente nella sua connessione con i Sonetti a Orfeo, che spesso si spingono ancora più in là. Tuttavia, non è questa l’occasione per farlo, ma ci mancano ancora i «presupposti ermeneutici» che devono anzitutto venire creati dalla poesia stessa di Rilke.

Nella poesia di Rilke la parola «creatura» indica «gli esseri creati» in senso stretto, coincidente con la parola e il concetto di «esseri viventi», a esclusione dell’uomo. Questo uso linguistico di «creatura» ed «essere creato» non pensa, in termini cristiano-credenti, alla creazione operata dal Creatore, giacché entrambe le espressioni sono nomi per quel vivente che, a differenza dell’essere vivente dotato di ragione, cioè l’uomo, è in modo caratteristico «abbandonato», «misero» e incapace di badare a se stesso. La «creatura» di Rilke è soprattutto «l’animale»: cfr. la «piccola» creatura, il moscerino, il «grande» uccello; cfr. anche la lettera a Lou Salomé del 1° marzo 1912 da Duino: «animale» e «angelo». Per Rilke sono esattamente la «coscienza» umana, la ragione e il logos a costituire i limiti che rendono l’uomo meno dotato dell’animale. Dobbiamo dunque diventare «animali»?

Va sottolineato ancora una volta che la creatura, qui, non viene intesa nella sua differenza dal creator, e quindi non viene nemmeno messa in relazione a Dio in termini Friesz-tentazionedi differenza, ma è piuttosto l’essere vivente privo di ragione differenziato da quello dotato di ragione.
Viceversa, Rilke non intende, in linea con la concezione corrente, l’«essere creato» «privo di ragione» come l’inferiore, poiché meno capace, nella differenza dall’uomo superiore, in quanto più capace. Egli piuttosto rovescia il rapporto tra la capacità dell’uomo e quella della «creatura» (cioè dell’animale e della pianta).

Questo rovesciamento è ciò che l’elegia dice in termini poetici. Il rovesciamento del rapporto gerarchico fra l’uomo e l’animale si compie riguardo a ciò che i due «esseri-viventi» sono di volta in volta capaci di fare in riferimento all’«aperto». L’«aperto» è quindi ciò che domina interamente entrambi e ogni altro ente.
Ma allora non è forse l’essere? Certamente. Eppure appunto per questo tutto dipende dal fatto di meditare sul «senso» in cui qui è esperito e detto l’essere dell’ente. L’«aperto» non è senza riferimento all’ἀλήθεια, se quest’ultima è l’essenza ancora latente dell’essere.

Come potrebbe essere diversamente? Tuttavia l’«aperto» evocato da Rilke e l’«aperto» che, rammemorando, viene pensato come essenza e verità dell’ἀλήθεια stessa sono estremamente differenti, e tanto distanti l’uno dall’altro quanto lo sono l’inizio del pensiero occidentale e il compimento della metafisica occidentale – distanti, e tuttavia proprio per questo coappartenenti: lo Stesso.

Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. Gli occhi nostri soltanto

non vedono l’aperto, e non immediatamente. L’uomo vede tanto poco l’aperto da avere prima bisogno dell’animale per vederlo. I versi seguenti (5 e 6) lo dicono chiaramente:

Ciò che è fuori, puro, solo dal volto
animale lo sappiamo…

Ciò che Rilke intende per aperto lo possiamo capire, e in generale domandare in modo autentico, solo se vediamo chiaramente che il poeta guarda alla differenza tra l’animale, in genere l’essere vivente privo di ragione, da un lato, e l’uomo, dall’altro. […]

uomo-e-cane

Con la contrapposizione fra uomo e animale, essere vivente dotato di ragione e privo di ragione, ci troviamo all’interno di una differenza la cui forma iniziale va cercata nella grecità. L’uomo è quindi «l’animale che ha il logos», ovvero «che ha la parola». Al contrario, l’«animale» è quello a cui la parola è negata. Ma per i Greci, e ancora per Platone e Aristotele, l’essenza del dire è il lasciar apparire lo svelato in quanto tale, il rendere manifesto l’aperto. Solo ed esclusivamente l’uomo è quell’ente che, avendo la parola, vede nell’aperto e vede l’aperto nel senso dell’ἀλήθεια. L’inizio dell’elegia di Rilke dice invece esattamente l’opposto. È dunque questo il modo in cui Rilke produce un rovesciamento della determinazione metafisica occidentale di uomo e animale nel loro «rapporto» con l’aperto?

Ma l’essenza di un rovesciamento («rivoluzione») implica come condizione fondamentale che proprio il punto di riferimento rispetto al quale avviene il rovesciare rimanga lo stesso e venga tenuto fermo come lo stesso.
Nel nostro caso, tuttavia, ciò non accade, giacché l’aperto di cui parla Rilke non è l’aperto nel senso dello svelato. Rilke non sa né presagisce nulla, al pari di Nietzsche. Resta quindi Pacheco-fantasiatotalmente entro i confini della determinazione metafisica tradizionale dell’uomo e dell’animale, di cui assume per l’appunto quella forma che nel frattempo, passando attraverso l’epoca moderna, si è consolidata nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo. L’«animale dotato di logos» greco si è trasformato nell’animale razionale.

Questa definizione dell’essenza dell’uomo come «essere vivente dotato di ragione» è tanto lontana da quella greca quanto la verità e la certezza lo sono dall’ἀλήθεια. In quanto animale razionale, l’uomo è «l’animale» che calcola e progetta, che si volge all’ente come a qualcosa di oggettivo e che «pone dinanzi a sé» l’oggettivo e gli impone un ordine. Ciò a cui l’uomo si rapporta sono ovunque gli oggetti, gli ob-ietti. Il che comporta che egli stesso sia il «soggetto», l’essere che, stabilendosi su se stesso, si procura «ciò che sta di fronte», ponendolo così al sicuro.

Rilke pensa sempre l’uomo nel senso della metafisica moderna. La concezione metafisica dell’uomo oggi in voga costituisce ovunque il presupposto del tentativo poetico di interpretare l’essenza dell’uomo nel senso della moderna metafisica biologica. L’uomo è l’essere vivente che, rappresentando, si procura gli oggetti e nel procurarseli li sta a guardare; nell’incalzante stare a guardare li ordina, e nell’ordinare rimette a se stesso (cioè all’uomo) quale proprio possesso quanto ha ordinato come ciò che di volta in volta padroneggia.

Nella parte finale dell’elegia tutto ciò è detto in modo inequivocabile, confermando al tempo stesso che la differenza tra uomo e animale, ovvero l’interpretazione dell’essere umano in base all’essere animale, è il tema ricorrente della poesia:

E noi: sempre, ovunque spettatori,
rivolti a tutto questo e fuori mai!
In noi trabocca. Lo ordiniamo. Si disgrega.
Torniamo ad ordinarlo e siamo noi dissolti.

L’espressione decisiva di questa sequenza di versi dice: «… e fuori mai!», cioè mai «all’aperto» che «la creatura», «quali che siano i suoi occhi vede», mentre noi del «fuori» e di quello che c’è «di fuori» possiamo sapere «solo dal volto animale».

Dalì-occhio-paesaggio

Ma che cosa intende dunque Rilke con «l’aperto»?
Secondo il significato più ovvio, nel caso dell’«aperto» pensiamo a ciò che è aperto a differenza di ciò che è chiuso. «Aperto» è uno «spazio». A questo ambito essenziale si riferisce in senso proprio anche l’«aperto» se lo pensiamo come il diradato nel senso dello svelato e del non svelato.
Nel corso del pensiero che pensa l’ἀλήθεια nella sua essenza si raggiungerà un giorno il luogo in cui dovremo domandare come stiano le cose circa il rapporto fra lo svelato e lo spazio: dobbiamo pensare cioè lo svelato in base all’essenza dello spaziale, o lo spaziale e ogni spazio si fondano sull’essenza dell’ἀλήθεια esperita in termini più iniziali?
In ogni caso, l’aperto rinvia a qualcosa di spaziale. Anche la parola di Rilke che parla di «mai fuori» e di «quello che c’è di fuori» fa riferimento a questo ambito.

L’elegia dice inoltre:

Noi non abbiamo mai, neppure un giorno
lo spazio puro innanzi, nel quale all’infinito
si schiudono i fiori.

Fiori «all’infinito», cioè sia senza fine, senza fermarsi a un confine, sia «nell’insieme», si schiudono di quello «schiudersi» che qui è un «dissolversi», mediante il quale, Kush-fioreanalogamente alla zolletta di zucchero nell’acqua, ciò che si dissolve si scioglie e si diffonde nell’insieme dell’aria e di tutte le relazioni cosmiche. Un simile dissolversi è possibile dal momento che all’«essere vivente» (animale e fiore) nulla sta di fronte in quanto oggetto da cui il vivente è continuamente rinviato a se stesso e spinto alla ri-flessione.

Il significato fondamentale, determinante e basilare della parola «l’aperto» è per Rilke lo sconfinato, l’infinito, ciò in cui gli esseri viventi esalano l’ultimo respiro dissolvendosi liberamente nelle incessanti relazioni dei nessi naturali, per librarsi nello sconfinato. In virtù di tale assenza di confini Rilke chiama l’animale «il libero animale».
Ma in che senso egli possa dire: Quali che siano i suoi occhi, la creatura vede l’aperto, e in che senso «l’aperto» nel volto animale è sì profondo – questo il poeta può anche giustificarlo poeticamente, ma ciò che qui «vedere» voglia dire necessiterebbe comunque di un chiarimento.

Dei «nostri occhi» Rilke dice che sono «come rivoltati»; non procedono nel vuoto privo di oggetto, bensì, al contrario, rappresentando l’oggetto, ne vengono rigirati su se stessi in direzione opposta. Se quindi i nostri occhi guardano la creatura, essa viene catturata in quanto oggetto del rappresentare, cosicché la «libera uscita» dello sguardo creaturale nell’aperto viene sbarrata e accerchiata dalla nostra oggettivazione.
Per lo sguardo animale i nostri occhi sono «trappole» in cui esso cade, restandone prigioniero. «Trappole» che catturano, chiudono e sbarrano l’aperto (il cui significato ci viene indicato nel modo più semplice dalla locuzione «mare aperto», che è raggiunto allorché tutti i confini terrestri sono scomparsi). L’aperto è mancanza e assenza di confini e limiti; è il vuoto privo di oggetto, pensato tuttavia non come carenza, ma come l’insieme originario del reale in cui la creatura è immediatamente rilasciata, cioè lasciata libera.

battello-mare-aperto

L’uomo, al contrario, è inserito forzatamente nella relazione che gli oggetti hanno con lui in quanto soggetto, una relazione che, là dove si presenta, barrica e chiude l’insieme dell’aperto com’è inteso da Rilke.
Secondo Rilke l’animale vede più dell’uomo: dal momento che il suo sguardo non viene arrestato dagli oggetti, ma al contrario (ovviamente non si sa come) può procedere infinitamente nel vuoto privo di oggetto, esso «ha dinanzi a sé» lo sconfinato. Sul suo cammino l’animale non incontra mai un confine, dunque nemmeno la morte. Nel suo procedere nello sconfinato l’animale è «libero dalla morte», sicché tale procedere non viene mai ripiegato su se stesso come il rappresentare umano, e non vede mai ciò che è alle sue spalle. Con un’espressione approssimativa, lo sconfinato nel suo insieme si può chiamare anche «Dio». È in tal senso che nell’elegia compaiono queste parole:

… il libero animale
ha sempre dietro di sé il suo tramonto
e a sé dinanzi Dio, e quando va, va
nell’eterno; come vanno le fonti.

Tutto ciò suona assai strano, eppure si tratta soltanto di una formulazione poetica della metafisica popolare biologica del tardo diciannovesimo secolo. Se, come di norma Mirò-metamorfosiaccade, e com’è necessario da Cartesio in poi, definiamo il rappresentare umano «la coscienza di oggetti cosciente di se stessa e in se stessa riflessa», allora il comportamento dell’animale è l’incalzare e il premere, privo di autocoscienza, e in tal senso inconscio, delle pulsioni verso l’esterno, in una direzione impulsiva oggettivamente indeterminata.

Alla preminenza del libero animale rispetto all’essenza imprigionante e imprigionata dell’uomo corrisponde la preminenza dell’inconscio sul conscio. Dietro questa poesia c’è dunque lo spirito della filosofia di Schopenhauer, mediato da Nietzsche e dalle dottrine psicoanalitiche. Anche se la metafisica di Nietzsche, in riferimento alla dottrina della volontà di potenza, rimane al di fuori della poesia rilkiana, a dominare è pur sempre quell’unico aspetto comune decisivo, secondo cui l’essenza dell’uomo viene concepita in base a quella dell’animale, in un caso in termini «poetici», nell’altro in termini speculativi.

Da un punto di vista puramente metafisico, cioè in riferimento all’interpretazione dell’ente in quanto realtà razionale-irrazionale, l’ambito dell’esperienza poetica di fondo di Rilke non si differenzia in nulla da quello della posizione speculativa di fondo di Nietzsche.
Entrambi, come del resto tutta la metafisica medioevale e dell’età moderna in generale, sono più che mai lontani dall’essenza della verità in quanto ἀλήθεια. Eppure, proprio perché la metafisica dell’età moderna e l’interpretazione metafisica medioevale del cristianesimo riposano tutt’e due sul medesimo fondamento, cioè sulla metafisica di Platone e di Aristotele reinterpretata in termini romani, si ha buon gioco nell’intendere la poesia di Rilke come ultima propaggine della metafisica moderna nel senso di un cristianesimo secolarizzato, dimostrando che il secolarizzato è per l’appunto solo un epifenomeno rispetto al fenomeno originario del cristianesimo. In questa luce la poesia di Rilke appare come una sorta di cristianesimo fallito a cui si deve prestare soccorso anche correndo il rischio che, con un’apologetica di tal fatta, si finisca per contravvenire non soltanto alla lettera, ma anche alla volontà del poeta.

(Heidegger, Parmenide)