Erodoto – Il ladro più scaltro d’Egitto

Dicevano che a Proteo successe Rampsinito [Ramses III], il quale lasciò come monumenti i propilei del tempio di Efesto volti verso occidente, e davanti ai propilei eresse due statue dell’altezza di 25 cubiti; gli Egiziani quella rivolta verso nord la chiamano Estate, Karnak-Ramses-3quella rivolta verso sud Inverno; e quella che chiamano Estate la riveriscono e la trattano con riguardo, a quella invece chiamata Inverno fanno il contrario.

Narravano che questo re aveva una grande quantità di ricchezze che nessuno dei re vissuti poté superare e nemmeno andarvi vicino. Volendo egli conservare i suoi tesori in luogo sicuro, fece costruire una camera di pietra, una parete della quale era contigua alla parte esterna della casa. Ma il costruttore ideò il seguente inganno: dispose una delle pietre in modo che fosse facilmente rimovibile dalla parete, sia da due uomini sia da uno solo.

Quando la camera fu compiuta e il re vi ebbe riposto le sue ricchezze, passato il tempo il costruttore, essendo verso la fine della vita, chiamò i figli – ne aveva due – e ad essi spiegò come, provvedendo loro perché avessero abbondanti mezzi di sussistenza, aveva ordito un tranello nel costruire il tesoro del re. Illustrata loro chiaramente ogni cosa riguardo al modo di togliere la pietra, ne diede loro le dimensioni, dicendo che curando bene ciò sarebbero stati i tesorieri delle ricchezze del re. Egli dunque morì, e i suoi figli non si astennero a lungo dall’opera, ma, andati di notte alla reggia e trovata la pietra nella costruzione, facilmente la rimossero con le mani e asportarono molte ricchezze.

Ma poiché per caso il re aprì la camera, si meravigliò nel vedere scemati i vasi contenenti i tesori, ma non sapeva chi incolpare, essendo i sigilli intatti e la camera chiusa. Ma, poiché, avendo egli aperto due o tre volte la camera, i tesori gli apparivano sempre più scarsi – infatti i ladri non cessavano dal depredare – egli fece questo: ordinò di preparare dei lacci e di porli attorno ai vasi nei quali erano le ricchezze.

Venuti i ladri come per il passato e essendo uno di essi entrato dentro, appena si avvicinò al vaso rimase preso nel laccio. E, poiché comprese in qual brutta situazione si trovava, Gericault-testa-mozzatachiamò subito il fratello e gli svelò quel che gli capitava e gli ordinò che al più presto entrasse e gli tagliasse la testa, perché, una volta visto e riconosciuto chi era, non facesse perire anche lui.
A quello parve che dicesse bene e persuasosi fece proprio così; rimessa quindi a posto la pietra se ne andò a casa, portando la testa del fratello.

Fattosi il giorno, il re entrato nella camera rimase sbalordito al vedere nel laccio il corpo del ladro che era senza testa e la camera intatta, senza possibilità né di entrata né di uscita. Trovandosi in imbarazzo, fece così: fece appendere il cadavere del ladro sulle mura e, postegli delle guardie, ordinò loro di prendere e di condurgli chi vedessero piangere o lamentarsi.

La madre si affliggeva perché il cadavere stava appeso e, rivolgendosi al figlio superstite, gli ordinò che in qualunque modo facesse sì da sciogliere il corpo del fratello e da riportarlo a casa: se avesse trascurato quest’ordine lo minacciava che si sarebbe presentata al re e avrebbe denunciato che egli aveva i tesori.

Poiché la madre trattava duramente il figlio superstite e questi, per quanto adducesse varie ragioni, non riusciva a persuaderla, egli ordì questo tranello: equipaggiati alcuni asini e riempiti degli otri di vino li caricò sugli asini e poi se li spinse avanti. Allorché giunse presso quelli che montavano la guardia al cadavere appeso, tirate le cinghie annodate di due o tre otri egli stesso le sciolse; e poiché il vino colava giù, si percuoteva la testa urlando a gran voce come se non sapesse a quale degli asini rivolgersi per primo.

asino-antico-Egitto

Le guardie allora, appena videro il vino che colava in abbondanza, corsero tutte insieme sulla strada portando vasi e raccoglievano il vino versato considerando ciò una fortuna, e quello distribuiva ingiurie a tutti, simulando ira. Ma, consolandolo le guardie, dopo un certo tempo fece finta di placarsi e di cessare dall’ira, e infine spinse egli stesso gli asini fuori dalla strada per sistemarli. Ma, quando la conversazione divenne più animata e qualcuno perfino lo schernì e lo indusse al riso, egli diede loro in dono uno degli otri. E quelli allora, lì così come stavano, sdraiatisi, pensarono solo a bere e lo accolsero e lo invitarono a bere insieme con loro. Quello alla fine si lasciò persuadere e rimase.

Poiché mentre bevevano lo trattavano cordialmente come amico, donò loro anche un altro degli otri; le guardie allora con le copiose libagioni si ubriacarono fuor di misura e, vinte dal sonno, là dove bevevano si addormentarono.
Il giovane, quando fu notte inoltrata, sciolse il corpo del fratello e per derisione rasò a tutte le guardie la guancia destra. Poi, posto il cadavere sugli asini, li guidò verso casa, avendo compiuto per la madre ciò che ella gli aveva ordinato.

Il re, quando gli fu annunciato che il cadavere del morto era stato rapito, si sdegnò molto e, volendo assolutamente scoprire chi mai fosse colui che ideava tali azioni, fece questa sesso-Egittocosa, per me incredibile: pose una figlia in un postribolo imponendole di accogliere indifferentemente tutti ma, prima di concedersi, di costringere ciascuno a dirle l’azione più abile e più empia che fosse stata da lui compiuta nella vita: chi avesse narrato ciò che era accaduto riguardo al ladro, lo prendesse e non lo lasciasse andar via.

Poiché dunque la figlia faceva ciò che le era stato imposto dal padre, il ladro, venuto a sapere per quali ragioni faceva questo, volendo superare il re in scaltrezza, fece così: tagliato all’altezza della spalla il braccio di un cadavere fresco, portandolo sotto il mantello, andò presso la figlia del re e, interrogato al pari degli altri, diceva che l’azione più empia l’aveva compiuta quando aveva tagliato la testa al fratello preso nel laccio dentro il tesoro del re, e la più scaltra quando, ubriacate le guardie, aveva sciolto il cadavere appeso del fratello. Quella appena l’udì, s’attaccò a lui, ma il ladro nel buio le porse la mano del morto, e quella afferrata la teneva stretta, credendo di tenere la mano di lui. Il ladro invece, lasciatagliela, se ne andò fuggendo dalla porta.

Quando anche queste notizie furono riferite al re, egli rimase sbalordito della scaltrezza e dell’ardire di quell’uomo e alla fine, inviando messi in tutte le città, fece annunziare che gli concedeva impunità, promettendogli grandi doni se si fosse presentato a lui.
Il ladro, prestatagli fede, si recò presso di lui; Rampsinito lo ammirò assai e gli diede in sposa quella sua figlia, come all’uomo che sapeva il maggior numero di cose: poiché gli Egiziani erano superiori agli altri uomini, ma quello era superiore agli Egiziani.

(Erodoto, Storie, 2: 121)

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Tutankhamen-Louvre

Faraone (come, per es., Lévi-Strauss) s’illude che «la struttura» terrà al sicuro il suo «tesoro», e che nessun «ladro» (neanche con la protezione del divino Ermes) mai vi penetrerà. E invece è un gioco da ragazzi… sì, è proprio una pazziella infilarsi «tra l’ossessione strutturalista e l’inquietudine del linguaggio» (Derrida). Faraone (come ogni strutturalista) è così attento alla «forma» della costruzione da perdere di vista la «forza» che clandestinamente agisce nel linguaggio. Quella «forza» che anima il linguaggio dall’interno, e che ne mette continuamente in crisi qualunque «forma» esso si trovi in un dato momento ad aver assunto. Il linguaggio non «dice» se non «disdicendo» ciò che ha già «detto» (Anassimandro).

Come Leibniz a Cartesio: qualsiasi atomo del tuo cogito di oggi può rivelarsi domani per quello che non sa di essere, una «pietra amovibile», e aprire così un pertugio nel muro. Basta appena un «muratore» un po’ disonesto, uno che sia mosso dalla «forza» del linguaggio stesso ad aprire il chiuso (la forma del già detto) – ed ecco: il tesoro ha dei nuovi tesorieri. La «forza» del linguaggio non è forse quella di ingannare? e qualunque «forma» esso assuma, non è già pur essa un inganno? Il tesoro, Faraone non se l’è forse procurato ingannando gli Egizi? E non darà sua figlia – dopo averla costretta a prostituirsi, e perché mai, se non per ripetere la stessa domanda a tutti gli avventori del Thot-Luxorpostribolo? – non la darà infine in sposa al ladro, proprio perché, in quanto a scaltrezza e inganno, è pure lui al di sopra della Lingua degli Egizi?

La «forza» del linguaggio è la sua «pietra angolare». Da sempre è così: i costruttori del Tempio (della Grammatica) la gettano via, la scartano perché… è «deforme» o, peggio ancora, «informe». La «forza» del linguaggio è la sua eterna Forma Vuota.
Come Totò a Peppino: l’hai presentata male, ecco perché la tua manfrina non ha funzionato. L’hai riempita, e invece dovevi svuotarla. Non dovevi fare l’errore di aggiungere. Dovevi, semmai, togliere il superfluo. Ma tu quest’arte non ce l’hai, tu sei troppo ingenuo per conoscere l’arte dell’inganno.

Non in battere, ma in levare. Non presentandosi, ma assentandosi alle forme che esso stesso ha prodotto – ecco come «funziona» la Cosa delle cose, la Parola, il Logos dell’uomo. Per ripetere «all’infinito» la sua riluttanza e la sua irriducibilità alle sue stesse «forme», funziona disdicendole – le ripete mascherandole e spostandole, per metafora e/o per metonimia, su altre frequenze d’onda, in altre ridondanze, in sempre nuove e soggettive risonanze d’echi e di miraggi. Ovunque rinnovando la stessa illusione: l’illusione di poter mettere al sicuro in una struttura, in un sistema, il tesoro sottratto a un popolo di babbei…

Oh, se un giorno esponessero in un museo una scimmia morta, chissà quanti Egizi correrebbero a vederlo! (Majakovskij rivisto e scorretto).
Se però uno solo di essi fosse anche solo un po’ meno babbeo, almeno un pelo della scimmia riuscirebbe a portarselo a casa. La scimmia non è morta. È finito il bolscevismo, ma la scimmia continua a morire ogni volta che canta il gallo: io, quello lì, neanche lo conosco!
Il linguaggio è la «forza» che si rinnega. La menzogna che si smentisce, parola per parola, segno per segno. Ma agli Egizi chi glielo insegna il gioco, chi li inviterà mai alla pazziella, se non un padre che vuole provvedere ai mezzi di sussistenza dei suoi figli?

Lascia dunque detto a te stesso che hai imbrogliato dicendo che volevi aprire un negozio di parrucchiere a Roma, o che volevi mostrare al mondo «la più bella delle forme» dipingendola, scolpendola, o portandola in versi. Lasciati detto che era solo una scusa, Faraone-tronosolo un pretesto per tenere in piedi il tuo prestigio, mio caro Faraone. E fatti il favore di non stare troppo appiccicato alla tua mitologia. Perché ne sei tu, proprio tu, la «pietra amovibile». Proprio tu, il Volubile, dovresti sapere che nessun tesoro può mai essere, se non là dove manca.

Torna dunque a capo. E prova a ricordare: poco prima di morire, tuo padre divise il suo «segreto» tra i suoi due figli. Su, come puoi non ricordarti? Foste in due a penetrare nella Camera Segreta: una voce che parlava «da dentro» (aiuto! aiuto!) e un’altra che rispondeva «da fuori» (che ti è successo?).
Suvvia, gli hai tagliato la testa. Non può esserti passato di mente. A meno che non menti: macché, non è successo niente.

Ma come? ti guardi allo specchio, e non vedi che sei tu «l’anima morta»? Lo so, comprendo: a te come a me, se non ci fosse una «madre» (prova tu a indovinare di chi si tratta, io continuerò a mentire che è Titina de Filippo, e beato chi mi capisce), se non ci fosse Lei a rinfacciarci «l’orizzonte della Colpa», del corpo del fratellino che abbiamo decapitato, a quest’ora, ci saremmo già sbarazzati.
E invece ci siamo dovuti dare da fare a ubriacare di parole le Sentinelle e i Gendarmi di Faraone, e come se non bastasse (in verità, non basta mai!), ci siamo messi anche a girare per i bordelli della vita finché non abbiamo incontrato Quella a cui «confessare» i nostri «segretucci».

Questa è la Forza del linguaggio. Dire la verità, tutta la verità, ma per sicurezza non dare a chi la si confessa… altro che un braccio del «morto», nient’altro che un «resto» dell’Altro. In modo da rimanere sempre estraneo anche alla più sincera delle confessioni. In modo che a doverci rimettere è sempre l’Altro, il (fratellino) morto, la voce che parla da dentro la Camera del Tesoro. La Colpa, gira e rigira, è sempre della voce che chiede aiuto.
Di’ quello che ti pare. La Forza del linguaggio è di rinnovare eternamente la sua eternamente prostituita «innocenza». Le sue «colpe» se le prendono le forme del Passato. Se lo capisci, mio caro Peppino, la prossima volta fatti la cortesia di non prenderti sul serio, quando dici che sei un parrucchiere.