Corbin – L’uomo e la mediazione dell’Angelo

A dominare il pensiero dei Sabei di Harrân è il Deus innominatus, il «Signore dei Signori» come erano soliti chiamarlo, «Colui che neanche il pensiero più ardito può raggiungere». Egli è, infatti, di tale trascendenza che non può né farsi conoscere né essere conosciuto Giotto-nascita-Gesù-dettaglio-Angelodirettamente. Gli esseri che ne mediano la conoscenza sono, per i Sabei, quelle essenze di pura Luce che i filosofi chiamano «Intelligenze» e che il lessico religioso designa come «Angeli»: in entrambi i casi, la pluralità di queste figure teofaniche non altera l’essenza dell’Unità divina.

Ecco allora la concezione sabea: i mediatori tra la deità suprema e gli umani non possono essere che di natura spirituale. Non potrebbero essere degli uomini, e nemmeno dei Profeti, perché un profeta è comunque un essere di carne come ogni altro uomo, cioè una creatura fatta di Elementi e di Tenebre.
Gli Angeli, invece, sono Forme di Luce piena e sfolgorante, di natura nello stesso tempo passiva e attiva, ricettiva e produttiva. La loro condizione è tutta serenità, bellezza e bontà caritatevole. Ognuno osserva e custodisce in sé l’Imperativo divino che è costitutivo del suo essere.

I sabei riconoscono in particolare i Sette Angeli che reggono i Sette Pianeti: ognuno di essi ha il suo Tempio, cioè la forma dell’astro, e ogni Tempio ha il suo Cielo e la sua Sfera. Il rapporto dell’Angelo col suo Tempio si può paragonare a quello tra lo spirito e il corpo, con la differenza che l’Angelo ne ha un dominio assoluto e che questo «corpo» non è la sua effigie allo stesso modo in cui il volto è l’effigie del corpo umano.

La preminenza assoluta dell’Angelo, anche rispetto alla figura del profeta, è confermata nella concezione sabea dal fatto che l’universo mediatore dell’Angelo è allo stesso tempo quello in cui le anime hanno origine e quello della loro seconda nascita, a cui esse «fanno ritorno». Il mondo dell’Angelo e il mondo terrestre si corrispondono come la persona e la sua ombra, tanto che la verità di un’esistenza terrena è di essere l’ombra del proprio Angelo.

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Il grande compito dell’anima è quello, perciò, di realizzare uno stato di intimo accordo e di perfetta imitazione nei riguardi dell’Angelo, al fine di abolire ogni ostacolo alla protezione che esso può dispensarle. Ora, la via più diretta per attuare questa esistenza «angelomorfa» consisterà nel conformarsi all’astro che è il Tempio dell’Angelo.

È lo stesso atteggiamento di etica religiosa che ritroviamo nel precetto formulato da Agrippa di Nettesheim: alicui stellae conformari. Tale precetto si riporta alla concezione platonica secondo cui le anime conducono dapprima un’esistenza astrale, essendo associate, ognuna, a un astro «compagno» (synnomon astron). E proprio a questa dottrina di una parentela misteriosa tra le anime e gli astri è legata la concezione aristotelica della «quintessenza», cioè dell’Etere, di cui i corpi celesti sarebbero composti. Le anime erano, in origine, stelle e a questa origine astrale faranno ritorno. Così dice infatti un versetto del libro santo: «Che Dio ci riunisca, noi e voi, in paradiso, fra le stelle del Cielo».

Tutto il rituale, con i suoi colori liturgici, le offerte di incensi e profumi, le osservanze morali, avrà come fondamento e come scopo questo avvicinamento all’astro. Ma questi Giotto-Angelo-discendeTempli celesti sono visibili in certe epoche, invisibili in altre. Bisogna dunque che il fedele raccolto in meditazione abbia dinanzi agli occhi delle figure corrispondenti a quegli astri, tali da fornire un sostegno alla sua devozione.

Di qui la necessità di costruire sulla terra dei Templi di cui astronomia e mineralogia garantiscano la corrispondenza con il Tempio celeste, quanto a struttura, composizione materiale e colore. Attraverso questo Tempio terreno la meditazione accede al Tempio celeste; attraverso quest’ultimo all’Angelo che ne è il Signore e, attraverso l’Angelo, al Signore dei Signori.
Di questi Templi costruiti a immagine degli astri le testimonianze storiche conservano qualche traccia. I sabei avrebbero avuto templi a pianta circolare dedicati a ognuno dei cinque princìpi cosmologici supremi: il Demiurgo, l’Anima del Mondo, la Materia eterna, lo Spazio e il Tempo.

I templi dei pianeti erano: quello di Saturno a forma esagonale; quello di Giove triangolare; quello di Marte un rettangolo; quello del Sole un quadrato; quello di Venere un triangolo inscritto in un quadrato; quello di Mercurio un triangolo in un rettangolo; quello della Luna un ottagono.
Ognuno dei Templi era teatro, nel giorno consacrato al suo astro, di una liturgia particolare, che comportava vesti del colore corrispondente e copiose offerte di incensi, in conformità all’importanza che il rito dei profumi rivestiva tra i sabei (in certe feste aveva luogo un rito che consisteva nell’aspirare il profumo delle rose).

I particolari di questo Ordo si trovano nella descrizione delle liturgie sabee fornita dall’autore del Ghâyat al-Hakîm, «La meta del Saggio» (XI secolo, il cui materiale risale però all’VIII secolo).

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Qui le liturgie sono descritte non come celebrazioni collettive nei Templi, ma come un rituale individuale da celebrare in un luogo di preghiera appartato e appropriato all’astro. L’intenzione però è la stessa: avvicinarsi all’astro conformando ad esso pensieri e gesti, e rendere così possibile l’esaudimento dei propri voti. La prima raccomandazione è questa: «Se vuoi avere un colloquio confidenziale con uno dei Sette astri, purifica il tuo cuore da tutte le credenze corrotte e le tue vesti da ogni lordura; rendi la tua anima limpida e chiara».

Il rituale indica poi il colore delle vesti da indossare, la natura dei profumi da bruciare, le due invocazioni da recitare salmodiando (alcune anche molto lunghe) e di cui la seconda è rivolta espressamente all’Angelo dell’astro.
Per la liturgia del Sole e del suo Angelo, ad esempio, sono prescritti una veste di broccato, un diadema, un anello d’oro, perché a una regina (sole, shams, in lingua semitica è femminile) bisogna rivolgersi in un abbigliamento regale e con parole di questo tenore: «Salute a te, Sole, Regina beata […] risplendente, illuminante […] tu che in te concentri Giotto-Angeli-lamentazionetutta la bellezza, tu che eserciti sui sei pianeti un’autorità che li costringe a obbedirti come a una guida, e che su di essi ti fa regnare».

La pietà sabea ci mette dunque alla presenza degli Angeli che governano gli astri o Templi di Luce visibili nei cieli dell’astronomia. Ma come realizzare, a questo punto, la transizione agli Angeli che governano i Cieli spirituali del Cosmo esoterico?
Il luogo ideale di questo passaggio [dal visibile allo spirituale] è al centro di uno straordinario dialogo che si legge nel filosofo e storico delle religioni Sharastânî (XII secolo). Straordinario perché non si svolge tra «ortodossi» ed «idolatri» eretici, ma tra due gruppi di interlocutori che danno l’impressione di essersi già segretamente accordati sugli argomenti da discutere.

Questi due gruppi sono i Puri e i Sabei. I Puri (honafâ) sono i rappresentanti della religione originaria, la «pura» religione di Abramo che non era né ebreo né cristiano, ma un «puro credente»: la religione insomma che fu creata all’origine del mondo e che sarà restaurata alla fine del nostro Periodo e dell’intero Ciclo.
In quanto ai Sabei, esiste un sabeismo ideale, concepito come la prima religione dell’umanità «storica», cioè, nel nostro ciclo, quella del periodo di Adamo. È per questa ragione che i Sabei sono designati a loro volta come Puri.

Non c’è quindi nessun salto di livello tra i piani dei due interlocutori: il salto, il passaggio di livello, è semmai quello su cui entrambi tornano a interrogarsi. E poiché questo passaggio [dalla purezza spirituale alla storia materiale] comportò la loro stessa «origine», è scontato che possono abbozzare una qualunque risposta solo con un «ritorno all’origine».
Tale passaggio si attua attraverso una serie di argomenti, concatenati, grosso modo, Giotto-Angelo-orocome segue.

I Sabei affermano di riconoscere come «mediatori» soltanto alcuni Dii-Angeli, puri esseri spirituali. Rifiutano, come detto, la mediazione di qualunque uomo, finanche del Profeta.
E tuttavia – obiezione – non invocano forse, come Profeti che li hanno iniziati al loro culto e alla loro sapienza, Agathodaimon e Ermes, cioè, come ci viene detto, Seth e Idrîs o Enoch? E – altra obiezione – il culto dell’astro che essi praticano, sia pure inteso come Tempio dell’Angelo e mezzo per accedere ad esso, non è forse un tradimento del puro sabeismo spirituale, attribuendo il ruolo di mediatori a delle figure materiali anziché riservarlo a puri esseri spirituali? E infine – obiezione decisiva – se si ammette l’assunzione di Ermes, rapito nel mondo angelico, perché si dovrebbe negare la possibilità che dal cielo discenda un Angelo come messaggero della Rivelazione o addirittura per assumere forma umana?

La difficoltà centrale viene formulata con assoluta chiarezza: mentre per i Sabei la perfezione consiste nello spogliarsi dell’umanità [ascendendo così al cielo e alla stella del proprio Angelo], per i Puri invece essa implica l’assunzione della forma umana [la Forma Umana Glorificata discesa dal Cielo].

(Corbin, L’immagine del tempio)

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Il «dio» che non può essere conosciuto direttamente, il «dio» che si rivela solo attraverso la mediazione delle Intelligenze Angeliche – è in gergo teologico quello che i filosofi nostrani ci hanno abituato a chiamare la Realtà Immediata – ossia quella «realtà» che non può essere raggiunta senza un «contatto», senza cioè essere avvolti e confusi nei suoi settantamila veli.
Senza l’Angelo, suvvia: senza intelligenza, non c’è rivelazione. Se l’intelligenza non è «rapita» a questo o quel «cielo» a lei intimo, se non asseconda il richiamo della sua «stella», non esce dall’illusione del mondo, del tempo, dello spazio e della materia.

Sono queste le Grandi Illusioni, i Veli con cui il Demiurgo – il Mediatore dei mediatori – veste le nude illuminazioni «angeliche»: il tempo, lo spazio, l’Anima del mondo, la materia e il Demiurgo che le «architetta» e che nel suo prestigio (di Eroe culturale) le «riassume».
Il Demiurgo è il Grande Illusionista, perché illuminandoci ci abbaglia e ci nasconde l’«aldilà» dei suoi giochi di prestigiatore.

Cosa dice Parmenide? – che ha incontrato un «demone» sulla via di Polifemo.
E cosa dice Deleuze? – che s’è spalancato un buco, un buco nero, una gola di ghùl, un Cajes-angeli-ribelliabisso oscuro e terribile, nel Muro Bianco del Significante.
C’è dunque un vuoto nel Muro, un vuoto attraente, una stella che «brilla» di luce nera, e che con questa luce avvolge, confonde e mette in contatto il «dio» anonimo e il mondo dei nomi umani.
Tra l’Innominato e il Nome… non c’è che il Muro del linguaggio. Tra il continuo e il discreto… c’è di mezzo soltanto la Parola dell’Uomo.

Perciò i Sabei si rifiutano di pensare che la Parola, fosse anche quella di un Profeta (ma noi possiamo aggiungere: fosse anche quella del più geniale dei Poeti), possa risolvere la Questione, di cui essa è soltanto un (misero) resto. Neanche il più poetico e ardito dei nomi, potrà mai nominare Lui – lo Sconosciuto, il «Signore dei Signori», l’Immediato. Nominandolo, non farà che spostare più in là il confine della sua misteriosità. Nient’altro che macchiare d’inchiostro il già macchiato Muro del Significante. Nient’altro che scavare nel Buco un altro buco…

Non tocca alla Parola dell’Uomo – dicono i Sabei – provare a ricongiungerci con lo Sconosciuto. Tocca a quelle «pure forme di luce», che abbagliano – fino ad accecarle – le nostre intelligenze. Tocca a quegli «Angeli» che, avvistati o intuiti, le accecano fino a produrre miraggi: balenanti «illuminazioni» che le sorprendono, mentre sono a spasso per una delle tante vie della Langue.
Ad accenderle, dice Parmenide, è il Demone. Il «fuoco» di questo fuoco visionario, dice Deleuze, è centrato nel Volto del Despota, o – beati quelli a cui succede – nel Volto dell’Amata.

Macché, è nel Volto dell’Angelo, sintetizzano i Sabei – dal momento che l’Angelo ci si svela in entrambi: tanto nella «necessità» dispotica, quanto nel «gioco» dell’amore. L’Angelo «comanda» e l’Uomo è soggetto al suo imperativo (è l’imperativo che segna il suo destino). E, parimenti, l’Amata «domina» e l’Amante è soggetto al fascino del suo Volto.

Buchi neri – angelici buchi neri – belli e terribili abissi del nostro essere, in cui nessuna intelligenza può avventurarsi, contando sulle parole, sui numeri e sui nomi. Vuoti aperti Cooper-volto-smascheranel Significante: ecco cosa sono. Non ci sono parole per dirlo – diciamo spesso.
Eppure, forse, una parola c’è. Una sola parola: addio. Addio alla tirannia del Volto, addio perfino a Beatrice (capisci?). A dio… è la via. La via che scende (o meglio: che risale) nella follia del Presignificante, nell’Empireo della nostra mente, dice Dante, non può che essere anonima. E perciò non può cominciare che dalla trasparizione del Volto a cui si dice l’ultima parola, «addio».

Quando il Volto finalmente traspare, dice Jabès, allora solamente si rende visibile il Libro. Solo allora si vedono le voci «scritte» sul Muro Bianco, sul muro «non circunscritto, e [che] tutto circunscrive» (Paradiso, 14: 30).
L’addio che rende trasparente il «miraggio», l’addio che si congeda dall’illusione delle sue illusioni – solo esso può aprirci gli occhi sull’Amata delle Amate, sulla Signora di tutte le signore (e signorine) che ci hanno «dominato».

Solo il Volto dell’Angelo degli Angeli, solo l’intelligenza più intima del nostro essere, solo la Maestosa che al mondo genera ogni altra maestà, e solo se pregata con le parole di un Vecchio Templare, può consentire ad aprire l’ultimo sipario, a scostare l’ultimo dei settantamila veli (di tenebre e di illusioni).
E quando quest’ultimo velo cade, non si vede che il Libro – nient’altro che il Significante in cui, addirittura per cento canti, ci si è specchiati.

Dante vede «dio», vede cioè il suo proprio Volto, vede il Volto di «dio» nelle sue proprie sembianze, vede il mondo, tutto il mondo che in vita sua ha visto, vede inferno purgatorio e paradiso, vede tutti i volti di tutti gli esseri, tutti nel suo proprio Volto, in un solo «poema» riassunti.
Vede Se Stesso in braccio alla mamma, ancora non svezzato, che balbetta. Vede Se Stesso «infante», senza parole, presignificante. Vede la Forma Umana Glorificata, vede l’Angelo che in questa Forma discese dalla sua «stella».