L’ho già scritto questo libro. Una decina di volte, perlomeno. Ma non mi ricordo mai il finale… e devo, ogni volta, riscriverlo…
(Aroiris, scriba di Tutmosis IV)
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Un campo di tenerezza
disseminato di addii.
«Vie libere. Via reale.
E queste parole decise che le tracciano dove esse più non sono.
Segui quelle vie.
Segui quella via», diceva.
E altrove:
«Tutta la disponibilità dell’universo è nella docilità delle tue pupille.
Con lo sguardo che si spegne, devi sapere, si spegne subito l’infinito».
«Ombra e luce hanno, come sudario, l’invisibile velo d’uno stesso cielo trasparente», diceva.
Per me stesso, più che per voi.
Ho fatto corpo, da sempre, con l’interrogazione e mi sono lasciato portare via il libro.
Ho affrontato la somiglianza, ho preso su di me la sovversione.
Mi sono applicato a circoscrivere il reale, l’irreale, l’assenza, la presenza, la vita e la morte, la parola e il silenzio.
Ho dato spazio al dialogo, ho definito la condivisione.
Ho fatto il punto.
Da te prendo congedo. Ma vivrò nella tua lettura.
Smisurata è l’ospitalità del libro.
«Ogni libro si scrive nella trasparenza d’un addio», diceva.
«È giusto consentire un giorno a tacere, quando le parole non hanno più bisogno di voi», diceva anche.
Tacere. Rintanarsi.
Il vecchio saggio disse al suo discepolo: «Scrivi sotto mia dettatura quel che la mia mano – così grande è la sua debolezza – non può consegnare al foglio». Poi chiuse gli occhi e si assopì.
Quando ogni stella è una parola ritrovata.
Una notte per la morte, un giorno per la vita.
Senza variazioni è il ciclo – mutevole – degli anni.
L’autunno è nel cuore delle stagioni.
«L’aurora non è l’addio – aveva annotato – eppure ogni addio è l’audace abbaglio di un’aurora».
Il giorno dopo – orizzonte colpevole.
E dice il saggio:
«A Dio, il fardello del Tutto.
All’uomo, la parte del poco».
(Jabès, Il libro dell’ospitalità)