È un fatto che è stato Plauto a introdurre Sosia – i miti greci non sono egoici. Ma gli io esistono, e se c’è un posto dove gli io hanno del tutto naturalmente la parola, questa è la commedia. È un poeta comico – che non vuol dire divertente, spero che alcuni di voi abbiano già riflettuto su questo punto – a introdurre questa novità essenziale, ormai inseparabile dal mito di Anfitrione: Sosia.
Sosia è l’io. E il mito mostra come si comporti questo brav’uomo di io come siete voi e sono io nella vita di tutti i giorni, quale parte prenda al banchetto degli dèi – una parte singolare, dato che viene sempre un po’ escisso dal proprio godimento. Il lato irresistibilmente comico di tutta la faccenda non ha mai smesso di alimentare il teatro – in fin dei conti, si tratta sempre di me, di te e dell’altro.
Ebbene, come si comporta l’io in questione? La prima volta che l’io spunta fuori in questo dramma, incontra se stesso sulla porta, sotto forma di quello che è diventato per l’eternità Sosia, l’altro io.
Vi leggerò qualche breve passo, perché bisogna farci l’orecchio. La prima volta che l’io appare, incontra io. Io, chi? Io che ti butto fuori. Si tratta di questo, ed è in questo che la commedia di Anfitrione è veramente esemplare. Basta spizzicare qua e là, studiare lo stile stesso e il linguaggio, per rendersi conto che quelli che hanno introdotto questo fondamentale personaggio sapevano di che cosa si trattava.
In Plauto, la prima entrata in scena di questo personaggio avviene nella forma di un dialogo notturno, di cui potrete apprezzare nel testo il carattere sorprendente e, per usare un termine da mettere tra virgolette, simbolico.
Questi personaggi recitano secondo la tradizione dell’a parte, così spesso mal interpretata da molti attori – due personaggi, contemporaneamente sulla scena, si tengono dei discorsi ciascuno dei quali vale per il carattere di eco o di quiproquò, che è la stessa cosa, assumendolo nel discorso che l’altro tiene indipendentemente. L’a parte è essenziale nella commedia classica. Lì essa raggiunge il suo culmine.
Non potevo far a meno di pensarci l’altro giorno, assistendo al teatro cinese, in cui invece è il gesto a essere portato al massimo grado. Questa gente parla cinese, ma non per questo siete meno presi da quello che vi mostra. Per più di un quarto d’ora – si ha l’impressione che duri delle ore – due personaggi si spostano sulla stessa scena dando veramente l’impressione di essere in due spazi diversi. Con destrezza acrobatica, passano letteralmente l’uno attraverso l’altro. Questi esseri si colpiscono continuamente con gesti che sembrerebbero non poter mancare l’avversario, e ciononostante lo evitano perché quello è già altrove. Questa dimostrazione davvero sensazionale vi suggerisce il carattere miragginario dello spazio, ma vi rimanda anche alla caratteristica del piano simbolico, per cui non c’è mai incontro che sia scontro.
È proprio qualcosa del genere che si produce nel dramma, e soprattutto la prima volta che Sosia interviene sulla scena classica.
Sosia arriva e incontra Sosia.
– Chi va là?
– Io.
– Io, chi?
– Io. Coraggio, Sosia, dice a se stesso, perché lui, ovviamente, quello vero, non si sente tranquillo.
– Qual è la tua condizione? Dimmi.
– Di essere uomo e di parlare. Ecco qualcuno che non è mai stato ai seminari, ma ne porta il marchio di fabbrica.
– Sei padrone o servo?
– Come mi pare. È tratto direttamente da Plauto ed è una graziosissima definizione dell’io. La posizione fondamentale dell’io di fronte alla propria immagine è infatti questa invertibilità immediata della posizione di padrone e di servo.
– Dove portano i tuoi passi?
– Dove ho intenzione di andare…
E continua –
– Ah, questo non mi va.
– Ne sono felicissimo, dice l’imbecille, che naturalmente si aspetta di ricevere una scarica di botte e fa lo spavaldo.
Vi segnalo di passata che questo testo conferma quello che vi dicevo del termine fides, della sua equivalenza al termine parola data. Mercurio promette di non ripiombargli addosso e Sosia gli dice – Tuae fidei credo, credo nella tua parola. Nel testo latino troverete anche l’innobilis – l’ignobile – di cui parlavo poco fa, l’uomo senza nome.
Studiamo, secondo la tradizione della pratica che critichiamo, i personaggi del dramma come altrettante incarnazioni dei personaggi interiori.
Nella commedia di Molière, Sosia viene assolutamente in primo piano, direi addirittura che è solo di lui che si tratta, è lui ad aprire la scena, subito dopo il dialogo di Mercurio che prepara la notte di Giove. Arriva, il bravo Sosia, con la vittoria del suo padrone. Posa la lanterna, e dice – Ecco Alcmena, e incomincia a raccontarle le prodezze di Anfitrione. È l’uomo che si immagina che l’oggetto del suo desiderio, il suo godersela in pace, dipenda dai suoi meriti. È l’uomo del Super-io, che vuole eternamente elevarsi alla dignità degli ideali del padre, del padrone e che si immagina che con ciò raggiungerà l’oggetto del suo desiderio.
Mai però Sosia riuscirà a farsi intendere da Alcmena, perché la sorte dell’io, per la sua stessa natura, è di trovarsi sempre di fronte il proprio riflesso, che lo espropria di tutto ciò che vuol raggiungere. Questa specie di ombra, che è nello stesso tempo rivale, padrone, servo all’occasione, lo separa essenzialmente da quello che è in gioco, ossia dal riconoscimento del desiderio.
Il testo latino ha, a questo proposito, delle formule sorprendenti, nel corso dell’impagabile dialogo in cui Mercurio, a forza di batoste, costringe Sosia ad abbandonare la sua identità, a rinunciare al proprio nome. E come Galileo dice Eppur si muove!, Sosia continua a ripetere – Eppure sono Sosia, e ha questa splendida espressione – Per Polluce, tu me alienabis numquam, non mi renderai mai altro, qui noster sum, io che sono nostro. Il testo latino indica perfettamente l’alienazione dell’io e l’appoggio che esso trova nel noi, nella sua appartenenza all’ordine in cui il padrone è un grande generale.
Arriva Anfitrione, il padrone reale, il garante di Sosia, quello che ristabilirà l’ordine. La cosa notevole è proprio che Anfitrione sarà messo nel sacco, abbindolato, proprio come Sosia. Non capisce niente di quel che gli racconta Sosia, di aver cioè incontrato un altro io.
– Ma come, fin dove deve arrivare la mia pazienza?
– Ma insomma non sei entrato in casa?
– Bene, sei entrato. E in che modo?
– Allora?
– Con un bastone sulla schiena.
…
– E chi?
– Io.
– Tu, pestarti?
– Non questo io, lui. L’io che stava in casa… ne ho le prove, e questo maledetto io me le ha date di santa ragione.
…
– Io, vi dico.
– Io, chi?
– L’io che me le ha date di santa ragione.
E allora Anfitrione pesta di santa ragione il malcapitato Sosia. In altri termini gli analizza il transfert negativo. Gli insegna cosa deve essere un io. Gli fa reintegrare nell’io le sue proprietà di io.
Scene argute e inenarrabili. Potrei moltiplicare le citazioni che mostrano sempre la medesima contraddizione nel soggetto tra piano simbolico e piano reale. Il fatto è che Sosia arriva veramente a dubitare di essere io, quando Mercurio gli racconta qualcosa di molto particolare – quel che ha fatto nel momento in cui nessuno lo vedeva. Sosia, stupito di ciò che Mercurio gli rivela sul proprio comportamento, comincia allora a cedere un po’.
– Macché, comincio a dubitare sul serio…
Anche nel latino è davvero notevole.
– Come riconosco la mia stessa immagine, che ho visto spesso nello specchio, in speculum.
Ed enumera le caratteristiche simboliche, storiche della propria identità, come in Molière. Ma la contraddizione esplode anche sul piano immaginario – Equidem certo idem qui semper fuit, eppure sono lo stesso che è sempre stato. E qui fa appello agli elementi immaginari di familiarità con gli dèi. Ad ogni modo ho visto già questa casa, è proprio la stessa – ricorso alla certezza intuitiva suscettibile comunque di discordare. Il dejà-vu, dejà-reconnu, il dejà-éprouvé entrano spesso in conflitto con le certezze derivanti dalla rimemorazione e dalla storia. Certi vedono nei fenomeni di depersonalizzazione dei segni premonitori di disintegrazione, mentre non è affatto necessario essere predisposti alla psicosi per aver provato migliaia di volte simili stati d’animo, la cui molla sta nella relazione tra simbolico e immaginario.
Nel momento in cui Sosia dichiara il suo smarrimento, il suo senso di spossessamento, Anfitrione gli fa una psicoterapia di sostegno. Non diciamo che Anfitrione è nella posizione dello psicoanalista. Accontentiamoci di dire che la può simboleggiare, in quanto rispetto al proprio oggetto – posto che l’oggetto del suo amore, la principessa lontana, sia la psicoanalisi –, lo psicoanalista ha la posizione diciamo così, per gentilezza, esiliata di Anfitrione davanti alla propria porta. Ma la vittima di questa cornificazione spirituale è il paziente.
(Lacan, Il Seminario: 2)
***
Tutto, in fondo, si riduce a questo – a una questione di corna.
L’io e l’altro, il servo e il padrone, l’uomo e il dio – sono tutti compresi in un imbroglio dei desideri. E tutti, fingendo di allearsi, giocano in realtà a buttarsi reciprocamente fuori della porta, a mettersi l’un l’altro fuori gioco, a ostruirsi, a pestarsi e a calpestarsi. A darsele, insomma, di santa ragione – visto che, alla fine, si risolve tutto in un chi ha torto e chi ha ragione.
Ho ragione io? – o l’altro, che io desidero essere?
Mentre Anfitrione parla, Giove gli fa le corna. C’è poco da fare: a tutti gli io, a tutti i servi, a tutti gli uomini tocca essere traditi, almeno una volta, dalla propria «sposa» con Dio. Su qualcuno Anfitrione si dovrà pur sfogare.
Non gli è bastato vincere la guerra, acquisire, come si dice, meriti sul campo. Alcmena, sua moglie, non può fare a meno, almeno una volta, di fare all’amore col padreterno – col Fallo che è «tutti gli uomini», l’Uomo deificato nel suo immaginario.
Donde per cui, un misero servo, qual è Sosia, l’io, il singolo uomo, è destinato a buscarsi solo un sacco di mazzate. Tante mazzate – perché questo è il destino dell’io: farsi bastonare, punire, malmenare dal suo padrone. E il suo padrone, a sua volta, dal padrone dei padroni che sta solo nelle fantasie della Signora – solo «ideale» oggetto di culto della Donna, insieme creatrice e vittima del suo stesso inganno «fallico».
Troppe guerre, troppe corna, troppe rotture di sante e ragionevoli alleanze. Troppe per non comprendere che siamo tutti servi dell’Altro. Che è l’Altro a prendersi gioco di noi – l’Altro «assoluto», come ama chiamarlo Lacan. L’Altro «assolto» da ogni nostro ragionamento. Assolto a priori.
È Lui che ci padroneggia. Ovvero, detto nel linguaggio del mito, è Lui, Giove, che ha mandato Apollo a dividerci – le «donne» sulla luna, e noi qui in terra a dover fare i conti col nostro Sosia, pardon: col nostro Mercurio.
Sicché succede che qualcuno di noi, un po’ più ossessivo del solito, si cacci come don Chisciotte nella confusione tra reale e immaginario. E che si faccia a tal punto infinocchiare dal sapere dei libri che legge quotidianamente, da giungere a escogitare (letteralmente: ex-cogitare) fuori di sé l’altra metà di se stesso che gli chiude la porta in faccia.
Oh, se Sosia sapesse che è Giove, il padreterno dello *ius dicere, Ius Pater, Juppiter, ad aver macchinato tutto questo imbroglio. Allora forse gli verrebbe perlomeno il sospetto che la sua «identità», come gliel’ha data, così il dicere gliela può togliere in qualsiasi momento. Che è il Discorso che ci «identifica», e noi che, da bambini, il Discorso lo riceviamo, noi che dal Discorso, quando eravamo bambini, fummo penetrati, noi che lo «patimmo» prima ancora di giungere a dire «mamma», noi stessi ci «identifichiamo» (per una metà, s’intende) col posto, col ruolo, con la parte e con l’arte che l’Altro ci assegna tramite la Parola.
È la Parola che ci fa nascere poveri o ricchi, italiani o africani, e che ci divide in servi e padroni – con quell’atto di divisione che Giove comanda, Apollo esegue e Mercurio perfeziona, c’è bisogno di dirlo?, in ogni Narciso.
Infatti, cosa «vede» Sosia? – un altro a sua immagine e somiglianza. Vede il suo «dio», vede il suo «padrone», vede il suo «altro», vede l’«io» che il suo «io» ha saputo, ermeticamente, ex-cogitare come suo limite.
È la Parola che ci butta fuori dalla porta, che ci esclude dal godimento del nostro «io», trattenendolo sempre al pianterreno, a fare mille chiacchiere su chi ha torto e chi ragione, mentre al piano di sopra si celebra la divina cornificazione: la Sposa, lassù sulla luna, reclusa nell’ampolla del suo proprio auto-inganno, se la sta godendo sempre l’Altro.