Zhuang-zi – Il guscio della tartaruga sacra

Una notte, il principe dei Song vide in sogno un uomo dai capelli sciolti, che guardava da una porta laterale e gli diceva: «Vengo dall’abisso di Zai-lu. Il genio del Fiume Puro mi ha pescatore-cinese-fiumemandato verso quello del Fiume Giallo. Per strada sono stato preso dal pescatore Yu Jie».

Al suo risveglio, il principe Yuan ordinò che venisse interpretato il suo sogno.
Gli fu risposto: «L’essere che stanotte vi è apparso in sogno è una tartaruga sacra».
Il principe domandò: «C’è tra i pescatori uno che si chiama Yu Jie?».
«Sì», risposero gli assistenti.
«Che venga a corte», disse il principe.

L’indomani, il pescatore Yu Jie si presentò all’udienza.
«Che cosa hai preso?», chiese il principe.
«Ho trovato nella mia rete – disse il pescatore – una tartaruga bianca, il cui guscio misura cinque piedi di circonferenza».
«Fa’ vedere la tua tartaruga», ordinò il principe.

Quando la tartaruga venne portata, il principe si domandò più volte se farla uccidere o tenerla in vita. Consultò gli indovini. E la risposta fu: «Sarebbe cosa fausta uccidere la tartaruga allo scopo di utilizzarla per la divinazione».
La tartaruga venne dunque fatta a pezzi. Il guscio venne perforato con settantadue buchi. Mai nessun ramoscello d’achillea trasse in errore quando si interpretarono i presagi tratti dall’esposizione al fuoco di quel guscio.

Zhong-ni dichiarò: «Questa tartaruga sacra poté apparire in sogno al principe Yuan, ma non poté sfuggire alla rete del pescatore. La sua intelligenza poté prevedere infallibilmente l’avvenire per settantadue volte, ma non poté evitare la catastrofe di essere fatta a pezzi. Così l’intelligenza ha i suoi rischi. E lo spirito i suoi limiti. L’uomo dotato di una intelligenza perfetta è in preda alle macchinazioni dei suoi simili. Il pesce che teme il pellicano non sa invece diffidare della rete. Così colui che rinuncia alla piccola intelligenza sarà illuminato dalla grande Intelligenza; chi dimentica il bene, per ciò stesso sarà buono. Il bambino non ha bisogno di un grande maestro per imparare a parlare; gli basta essere in mezzo alla gente che sa parlare».

(Zhuang-zi, 26)

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tartaruga-regge-città

Curioso davvero il nostro principe: di notte, mentre sogna, egli è, per così dire, vagamente il principe della mitica dinastia dei Song, mentre al risveglio ha un nome proprio e diventa «questo qui», il principe Yuan.
Anche Faraone, la notte, ha fatto un sogno e mentre sognava, ma solo allora, egli era il Re degli Egizi. Al risveglio, ridotto pure lui a essere quel poco che può essere ristretto in un nome proprio, era impotente a interpretare la lingua dei suoi sogni. Lui, il Signore dei geroglifici, si trovava immancabilmente a dover recitare la parte di un solo geroglifico – io = io. Ma io chi è? quello che sogna o quello che è desto?

Al risveglio, non avanza che questo misero «resto», io, circoscritto dal mio nome proprio – io, prigioniero del Significante – io, ridotto a interpretare (sapessi che soddisfazione!) il Significato del mio nome, niente più e niente meno che quel Significato per conoscere il quale devo ricorrere agli Interpreti della Lingua, a quelli cioè che il mio sogno non l’hanno sognato, eppure detengono le chiavi per raccontarlo.

Un conto è sognare, un altro è interpretare i sogni. Il sogno, il mio proprio, è una risonanza soggettiva, l’eco che solo a me è giunta «dall’abisso del Fiume Puro», il richiamo che solo a me ha rivolto il Genio di quelle acque. Viceversa, la sua interpretazione – l’interpretazione del mio proprio – è demandata a una ridondanza McPhie-tartaruga-bambinodella Lingua, alle controversie ermeneutiche della sua Smorfia (morto che parla, per es., fa tuttora 47 a Roma, ma 48 a Napoli).

Al risveglio, il Nome è d’obbligo. Perciò, per rintracciare il «sognato», il principe Yuan non ha altro indizio a cui aggrapparsi che il nome proprio che in sogno è stato «citato». Il nostro principe, nella traghettata che dal Fiume Puro l’ha fatto scivolare nelle acque del Fiume Giallo – alla luce del Sole, diremmo noi – a stento il nome ricorda di un pescatore che avrebbe pescato un non so che di «sacro» dal fondo degli abissi inconsci.

Perciò, domanda il principe ai Signori dell’Interpretazione (o se preferisci: ai Numeri del Lotto), sapete dirmi se tra i pescatori del Fiume Giallo, se per caso tra quelli che portano a galla i pesci di cui si alimenta la Coscienza desta, c’è qualcuno il cui nome risuona in quello di Yu Jie?
Basta la domanda, basta il semplice fatto di averla enunciata a voce alta, l’atto puro e semplice della sua «esternazione», a fare del sogno del principe un altro pesce caduto nella Rete. Il passaggio dall’«interno» all’«esterno», la traduzione del sogno, del «mio proprio», nella Lingua dei Pubblici Indovini, comporta, camuffa e in certo modo nasconde (perciò qui bisogna non farsi trarre in inganno) un’altra traduzione – la trasposizione dalla voce (muta) dei sogni, dalla Voce di dentro, alla voce (chiassosa, rumorosa) della Lingua desta, alla Voce di fuori, alla Vox Populi.

Niente può ingannarmi più della domanda: «Cosa significa il mio sogno?». Perché è proprio così che si cade nella Rete del Discorso: s’insegue il tale o talaltro Significato, e non ci si accorge che è la Voce, il Significante Puro, a confondersi con le acque del Fiume Giallo.
Una volta che ha «recitato» il nome «citato» in sogno, il principe Yuan diviene preda delle superstizioni della Smorfia. Devi uccidere la tartaruga, gli intimano, se vuoi indovinare il Futuro a cui il tuo sogno ti ha destinato! E una volta che l’avrai uccisa, devi prenderne il guscio e perforarlo con settantadue buchi.

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Il «sognato» non era la tartaruga. Lo diventa nel Discorso. Nel sogno era solo un vago indeterminato «pescato» dal fondo dell’essere. Al risveglio diventa un «oggetto» definito da almeno settantadue possibilità di divinazione.
Il sogno non aveva nessun «significato». Questa brutta abitudine di ridurlo a un guscio e di farne, assieme a infiniti altri gusci, già «morti», morti che già «parlano», un altro mattone con cui «murare» il Significante Puro – questa umana maniera di ammutolire la Voce di dentro facendola parlare fuori di sé – non permette che di «indovinare», cioè di rinviare sempre a un futuro, la risposta che non c’è, la soluzione che non si trova.

E intanto, per chi «scrive» sul Muro il guscio dei suoi sogni, il testo lo dice: ci sono settantadue possibilità di cadere in un buco nero.
Il guscio potrà al più «prevedere infallibilmente l’avvenire per settantadue volte», per un numero grande finché vuoi, ma pur sempre finito, di volte, ma non potrà evitare a nessuno dei suoi «segni» di essere fatto a pezzi, per far venire a galla altre piccole «sfumature» di senso.

L’intelligenza (che rincorre il Significato) è tanto abile a tenersi alla larga dal becco del Pellicano, quanto stupida e cieca di fronte al Muro. Ha gli occhi e non vede la Rete in cui tartaruga-biancaè caduta – la Langue, la Coscienza, la Macchina della Significazione, la Parola «sé dicente», alle cui macchinazioni, quanto più l’intelligenza sarà «perfetta», tanto più si troverà esposta.
Non uno, ma settantadue buchi neri le faranno rimpiangere le «immagini senza segni», le «idee senza concetti», le «voci senza parole», che animavano un tempo i suoi sogni.

Solo colui che lascia la Via del Significato, e che si avventura su una linea di fuga dal Muro e dai suoi Buchi Neri, solo lui «sarà illuminato dalla Grande Intelligenza». Sarà «buono» davvero, solo spingendosi al di là (dei concetti) di Bene e Male. E sarà veramente «cattivo», aggiungiamo noi, solo perdendo ogni nozione di «cattiveria».
Bene e male non sono che nomi, nient’altro che gusci di «idee» pescate nei sogni. Sono segni, e come tutti i segni sono così facili da insegnare, che per apprenderli al bambino basta vivere in mezzo alla gente (già segnata dal lutto della propria tartaruga).

Dacché il suo genio naturale, il genio del Fiume Puro (le cui acque sono vergini di segni, numeri e nomi), rimette il destino del bambino nelle mani del genio del Fiume Giallo, ovvero del genio linguistico della sua Gente, il principe Yuan non sogna più sogni anonimi e incontaminati.
Adesso capita che in sogno spunta un nome proprio, un nome udito distrattamente. Gli è bastato vivere in mezzo alla gente per prendere il vizio di nominare. E di prendere per reale solo ciò che riesce a nominare. Solo ciò che, col nome, s’illude di padroneggiare.