Chrétien de Troyes – Tre gocce di sangue sulla neve

Perceval-gocce

Re Artù parte da Carlion come se partisse in battaglia. I baroni lo seguono e tutte le damigelle, che la regina prende con sé per far onore alla cavalleria riunita.
Venuta la sera, si drizza il campo in una prateria ai margini d’una foresta, ma al mattino dell’indomani la neve aveva coperto il suolo ghiacciato, ché la contrada era molto fredda. E Perceval, levatosi di buon mattino come soleva, ché voleva incontrare avventure e cavalleria, venne dritto alla prateria gelata e coperta di neve dove alloggiava l’esercito del re.

Prima di raggiungere le tende, Perceval vede un volo di oche selvatiche che la neve aveva abbagliato. Le ha viste e ben udite, ch’esse si allontanavano in fuga facendo rumore per un falco che volava con grande impeto dietro di loro.
Il falco n’ha trovata una, abbandonata dal branco. L’ha colpita, l’ha urtata sì forte che l’ha abbattuta. Ma è troppo buon mattino e il falco non vuole né attaccare né raggiungere la preda, e vola via.

Perceval senza indugiare dà di sprone verso il luogo dove ha visto il volo. L’oca è ferita al collo, e tre gocce di sangue si spandono sul bianco. Sembra un colore naturale. Ma l’uccello non ha pena o dolore che lo tengano a terra. Prima che Perceval sia giunto, l’oca guancia-rossaè già volata via. Ed egli scorge ai propri piedi la neve su cui s’è posata e il sangue che ancor vi si vede.

S’appoggia alla lancia per contemplare la vista del sangue e della neve insieme, che gli rammenta il fresco colore che è sul viso dell’amica. Dimentica tutto tanto vi pensa, ché proprio così vedeva il viso dell’amica, il rosso spiccare sul bianco come le tre gocce di sangue che apparivano sulla neve. Perceval contempla le gocce per tutta la mattina, tanto che dalle tende escono scudieri che lo vedono e credono che sonnecchi.

Prima che il re si svegli, davanti al padiglione regale gli scudieri incontrano Sagremor, che per la sua irruenza era chiamato l’Impetuoso.
Egli grida agli scudieri: «Ehi, voi! Ditemi! Perché venite qui così presto?».
«Perché – risposero – laggiù, lontano dall’accampamento, abbiamo visto un cavaliere che dorme sulla sua cavalcatura».
«Porta armi?».
«Sì, invero».
«Gli parlerò – dice Sagremor. – Lo condurrò a corte».

Subito si reca nel padiglione del re, lo sveglia e gli dice: «Sire, là fuori sulla lancia vi è un cavaliere che dorme dritto sul cavallo».
Il re gli ordina di andare e di condurre con sé il cavaliere. Sagremor subito comanda che gli si portino il cavallo e poi le armi. Eccolo pronto a raggiungere il cavaliere.
Gli si avvicina, e dice: «Signore, bisogna che veniate dal re!».
Ma l’altro non si muove, pare non abbia sentito. Alla stessa domanda, stesso silenzio. Allora Sagremor è in collera: «Per san Pietro l’apostolo! Vi dico che verrete a questa corte, di buon grado o di forza. Perché avervene pregato? Ho solo perso il mio tempo, così come ho male impiegate le mie parole».

Poi dispiega l’insegna che era arrotondata attorno alla lancia e prende terreno. Sprona il Sagremorcavallo gridando a Perceval: «In guardia! Sto per attaccarvi!».
Perceval guarda finalmente da quella parte e vede Sagremor al galoppo. Eccolo allora uscire dai propri pensieri e slanciarsi contro l’altro. Lo scontro è duro. E la lancia di Sagremor si rompe. Ma non quella di Perceval, che non si spezza né si piega. Ma tanto forte urta Sagremor, che l’abbatte nel mezzo del campo.

Il cavallo del vinto fugge a testa alta verso il luogo in cui sono le tende. E d’improvviso appare davanti alla gente che si alzava. Molti ne sono scontenti. Ma non così Keu, che mai ha potuto trattenere sulle labbra parole malvagie.
Keu deride e dice al re: «Bel sire, Sagremor ritorna davvero con aspetto fiero! Guardate come tiene il cavaliere per il morso e lo porta qui davanti a voi, che egli lo voglia o no».
Il re gli risponde: «Siniscalco, non è bene schernire così il coraggio. Andate voi dunque, e vedremo se farete meglio!».
«Sire – risponde Keu – ho gran gioia di andarvi, poiché vi piace chiedermelo. Credetemi, lo porterò di viva forza, che lo voglia o no! e bisognerà che questo cavaliere ci confessi qual è il suo nome».

Si fa armare e monta a cavallo. Poi parte verso il cavaliere, tanto perso nei propri pensieri davanti alle tre gocce di sangue, che non conosce altra cosa al mondo.
Giungendo, Keu gli grida di lontano: «Vassallo, vassallo, venite dal re! Vi giuro che vi verrete. Altrimenti me la pagherete».
Perceval lo sente minacciare. Volge verso di lui la testa del cavallo e sprona la cavalcatura, che certo non va lenta. Di far bene ciascuno ha talento. Si urtano in pieno, frontalmente. Keu assesta un gran colpo, e spacca la lancia, che vola in briciole come scorza d’albero.

Ma Perceval ben gli risponde: colpisce Keu di gran forza sull’alto dello scudo e duramente l’abbatte su una roccia, tanto da slogargli la clavicola e, tra il gomito e l’ascella, spaccargli l’osso del braccio destro come in uno schianto di legno secco. Così aveva predetto il buffone che spesso diceva il vero. Keu viene meno dal dolore. E il cavallo corre verso le tende. I Bretoni lo vedono tornare senza il siniscalco. Allora dei giovani saltano in sella e si muovono anche cavalieri e dame. Trovano Keu che giace svenuto. Lo credono morto e tutti lo piangono.

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Intanto però Perceval non lascia con gli occhi le tre gocce di sangue, ancora s’appoggia alla lancia. Triste è il re di vedere sì ferito il proprio siniscalco. Ma tutti intorno lo confortano e gli assicurano che Keu guarirà bene. Ma che invii un medico che sappia rimettere a posto la clavicola e riparare l’osso spezzato.
Allora il re, che ama il siniscalco, gli invia un dottore esperto e tre damigelle istruite alla sua scuola, che riducono la clavicola e i frammenti dell’osso del braccio, che non mancano di bendare. Si trasporta il siniscalco nel padiglione del re, lo si consola raccomandandogli di essere paziente. Guarirà.

Messer Galvano dice al re: «Sire, come avete voi stesso affermato e proclamato, non è giusto che un cavaliere tragga dai suoi pensieri un altro cavaliere, così come fecero quei due. Chi fece torto per primo, io non so, ma è sicuro che mal gliene incolse. Il cavaliere pensava forse a qualcuno che aveva perduto, oppure all’amica che gli era stata rapita, e ne provava gran duolo. Se tale fosse il vostro piacere, andrei a vedere come si comporta, e se lo trovassi uscito dai suoi sogni, lo pregherei che voglia venire da voi».

Tali parole provocano la collera di Keu: «Io vi dico, messer Galvano, che voi lo condurrete per il morso del cavallo, che egli lo voglia o no! E sarà bene, se vi si lascerà andare e se vi riuscirete. Ne avete conquistati più d’uno facendo così. Quando un Perceval-pensosocavaliere si sente stanco per aver lungamente combattuto, un valentuomo deve chiedere in dono d’andare a finirlo. Ah, Galvano, che io sia maledetto se siete divenuto tanto folle che non s’abbia a imparare da voi! Sapete ben vendere le vostre parole che sono belle e cortesi. Si crederebbe forse che voi gli abbiate gridato parole dure e molto altezzose e che sanno ferire un uomo. Chi lo credesse sarebbe ben sciocco, e io non sono certo fra questi. So bene che una tunica di bella seta vi basterà per condurre una simile battaglia. Non v’è bisogno di snudare la spada! E neanche di spezzare una lancia. Che la vostra lingua riesca a dire: “Signore, che Dio vi conservi! Vi doni gioia e salute!”, ed egli farà come vorrete. Non ho da darvi lezione. Saprete ben blandirlo come si fanno carezze a un gatto. E tuttavia si dirà: “Ora messer Galvano combatte fiera battaglia”».

Galvano gli risponde: «Ah, messer Keu, potreste parlare più gentilmente! Su di me volete vendicare il vostro malumore e la vostra collera? In fede mia, mio dolce amico, vi condurrò il cavaliere, se tal cosa è in mia virtù. Non mi costerà né braccio rotto né clavicola slogata. Tale mercede, io non l’apprezzo!».
Il re dice: «Mio bel nipote, andate dunque! Avete parlato da cavaliere cortese. Se potete, conducetelo qua. Prendete tutte le vostre armi, ché non dovete andare disarmato».

Galvano, di cui tutti cantano le lodi, si fa tosto armare, monta su un cavallo vivace e robusto e se ne va verso il cavaliere che, appoggiato alla lancia, pare non stancarsi d’un sogno del quale si compiace. Ma a quell’ora il sole ha fatto sciogliere due delle tre gocce di sangue che avevano fatto rossa la neve. E la terza impallidiva. Per questo il cavaliere è meno assorto di prima.
E messer Galvano mette dolcemente all’ambio il cavallo e si accosta piano, come uomo che è lungi dal cercare contesa.

Dice: «Signore, vi avrei salutato se conoscessi il vostro nome come conosco il mio. Ma almeno posso dirvi che sono messaggero del re. Che per me vi domanda e prega che due-cavalieriveniate a corte a parlargli».
Perceval risponde: «Due uomini sono già venuti. E tutt’e due mi sottraevano alla mia gioia e volevano portarmi con sé trattandomi come prigioniero. Io ero pensoso per un sogno che molto mi piaceva. E colui che me ne voleva allontanare non lo faceva certo per il mio vantaggio. Ché davanti a me, in questo luogo, vedevo tre gocce di sangue dar luce alla neve bianca. Io le contemplavo. Credevo fosse il fresco colore del viso della mia bella amica e non potevo distogliermene».

E messer Galvano dice: «Certo, signore, non fu pensiero villano, ma nobile e cortese. Folle e rude chi voleva separarvene! Ben amerei conoscere cosa contate fare. Se non vi spiacesse, volentieri vi condurrei dal re».
«Caro amico – dice Perceval, – ditemi in verità se Keu, il siniscalco, si trova a corte».
«È a corte e sappiate che è colui che poco fa ha combattuto con voi. La tenzone gli è costata cara, ché ha avuto spezzato il braccio destro e slogata la clavicola».
«È stata dunque ben vendicata la damigella che il siniscalco colpì».

Qual meraviglia prova messer Galvano nell’ascoltare tali parole! Ne freme!
«Ah, signore, Dio mi salvi! Il re non cerca che voi! Qual è il vostro nome?».
«Perceval, signore, e il vostro?».
«Signore, sappiate che al battesimo mi diedero il nome di Galvano».
«Galvano?».
«In verità, caro signore».

Perceval si rallegra e dice: «Signore, molto ho sentito parlare di voi e in più luoghi. Vorrei esservi amico, se così vi piacesse».
«Certo – dice messer Galvano – non lo desidero meno di voi, anzi di più».
E Perceval risponde: «In fede mia, volentieri vi seguirò là dove vorrete. È giusto e ne sarò ancor più fiero poiché sono vostro amico».
Si slanciano l’un verso l’altro e si abbracciano.

(Chrétien de Troyes, Perceval)