Lévi-Strauss – Magia e scienza: due modi di conoscenza

Non vogliamo ritornare alla tesi ricorrente (e d’altronde ammissibile, nella prospettiva limitata in cui si colloca) secondo cui la magia sarebbe una forma timida e balbettante della scienza: pretendere di ridurre il pensiero magico a un momento o a una tappa Picabia-Adamo-Evadell’evoluzione tecnica e scientifica, significherebbe rinunciare a ogni possibilità di comprenderlo. Simile a un’ombra che preannunci il proprio corpo, essa ne possiede la medesima pienezza e, nella sua immaterialità, è altrettanto compiuta e coerente quanto l’essere solido da lei soltanto anticipato.

Il pensiero magico non è un principio, uno spunto o un abbozzo, la parte di un tutto ancora in via di realizzazione, ma un sistema ben articolato, indipendente, per questo rispetto, da quell’altro sistema che la scienza sta costruendo, salvo un rapporto di analogia formale che fa del primo una sorta di espressione metaforica del secondo.
Invece di contrapporre magia e scienza, meglio sarebbe metterle a raffronto come due modi di conoscenza, diseguali nei risultati teorici e pratici (perché, quanto a questo, è vero che la scienza ottiene risultati migliori della magia, benché la magia anticipi la scienza nel senso che anch’essa qualche volta coglie nel segno), ma non rispetto al genere di operazioni mentali che entrambe presuppongono e che differiscono meno in natura che non in funzione dei tipi di fenomeni a cui si applicano.

Questi rapporti dipendono dalle condizioni oggettive in cui hanno avuto origine la conoscenza magica e la conoscenza scientifica. La storia di quest’ultima è sufficientemente breve perché si sia ben informati al riguardo; il fatto però che l’origine della scienza moderna risalga soltanto a qualche secolo fa, pone un problema al quale gli etnologi non hanno riflettuto abbastanza e al quale converrebbe benissimo il nome di paradosso neolitico.

Proprio nel neolitico si conferma la maestria raggiunta dall’uomo nelle grandi arti della civiltà: terraglie, tessitura, agricoltura, addomesticamento degli animali. Oggi, più nessuno sognerebbe di spiegare queste immense conquiste con il fortuito accumularsi di una serie di scoperte dipendenti dal caso o rivelate dallo spettacolo di certi fenomeni naturali, passivamente registrati.
Ognuna di queste tecniche presuppone secoli e secoli di osservazione attiva e metodica, ipotesi ardite da scartare o da far convalidare attraverso il controllo di esperienze infaticabilmente ripetute. […]

Merimde-terraglia

Per trasformare una pianta selvatica e infestante in pianta coltivata, una bestia selvaggia in animale domestico, per far sorgere nell’una o nell’altra certe proprietà alimentari o tecnologiche che all’inizio mancavano completamente o potevano appena essere sospettate, per fare di un’argilla instabile, facile a sbriciolarsi, a polverizzarsi o a spaccarsi, una terraglia solida e impermeabile (ma soltanto a condizione di aver individuato in una quantità di materie organiche e inorganiche quella più adatta a essere usata come sgrassante e così il combustibile più idoneo, la temperatura e il tempo di cottura, il grado di ossidazione efficace); per elaborare tecniche spesso lunghe e complesse che rendessero possibile la coltivazione ove manca la terra o l’acqua, trasformare radici e semi velenosi in alimenti, o utilizzare questa tossicità ai fini della caccia, della guerra, del rituale, è stato certamente necessario un atteggiamento dello spirito perfettamente scientifico, una curiosità assidua e sempre all’erta, un’esigenza di conoscenza per il piacere della conoscenza (infatti, poiché solo una piccola parte delle osservazioni e delle esperienze poteva offrire risultati pratici e immediatamente fruibili, è lecito supporre che, all’inizio e soprattutto, esse erano ispirate dal desiderio di sapere). Per non parlare della metallurgia del bronzo e del ferro, di quella dei metalli preziosi, e monete-neoliticheanche semplicemente del lavoro di martellatura del rame nativo, in anticipo sulla metallurgia di parecchi millenni, e che esigono tutti una competenza tecnica già molto progredita.

L’uomo del neolitico o della protostoria è dunque l’erede di una lunga tradizione scientifica; eppure, se lo spirito che ispirava lui e tutti i suoi predecessori fosse stato identico a quello dei moderni, come potremmo capire che esso abbia subito un arresto e che millenni di ristagno si siano frapposti come una piattaforma tra la rivoluzione neolitica e la scienza contemporanea?
Questo paradosso non ammette che una soluzione, cioè l’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente adeguato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima all’intuizione sensibile, l’altra più discosta.

Qualsiasi ordinamento è sempre superiore al caos; anche una classificazione elaborata a livello delle proprietà sensibili è una tappa verso un ordine razionale. Se si dovesse classificare una raccolta di frutti vari in ordine alla relativa pesantezza dei corpi, si comincerebbe a buon diritto col separare le pere dalle mele, benché la forma, il colore e il sapore non abbiano alcun rapporto col peso e col volume: riunite assieme, le mele più grosse si distinguono dalle meno grosse più facilmente che mescolate con frutti di diverso aspetto. Si comprende già da questo esempio come, anche a livello della percezione estetica, la classificazione abbia un suo valore.

D’altronde, benché non vi sia nessuna connessione necessaria tra le qualità sensibili e le proprietà, esiste, almeno in un gran numero di casi, un rapporto di fatto; la Sloan-fruttageneralizzazione di questo rapporto, anche se priva di fondamento nella ragione, può costituire, per lunghi periodi, un’operazione praticamente e teoricamente redditizia. Non tutte le sostanze tossiche sono amare o danno bruciore, e lo stesso vale reciprocamente; eppure la natura è tale che è più proficuo per il pensiero e per l’azione procedere come se a un’equivalenza capace di soddisfare il sentimento estetico corrispondesse anche una realtà oggettiva.

Esula dal nostro compito ricercare il perché di questo fatto, ma è probabile che certe specie che presentano caratteristiche più nette di forma, colore, o odore, schiudano all’osservatore quello che si potrebbe chiamare il droit de suite: il diritto cioè di postulare che queste caratteristiche visibili siano il segno di proprietà altrettanto specifiche, ma celate.
Ammettere che il rapporto tra le due sia anch’esso sensibile (che un seme a forma di dente preservi dai morsi del serpente, che un succo giallo sia un farmaco per malattie biliari, ecc.) vale, a titolo provvisorio, più della noncuranza verso ogni connessione: la classificazione, anche se eteroclita e arbitraria, salvaguarda la ricchezza e la varietà di voci dell’inventario; stabilendo che bisogna tener conto di tutto, facilita il costituirsi di una «memoria».

Ora, è un fatto che metodi di quest’ordine avevano la possibilità di condurre a certi risultati che erano indispensabili perché l’uomo potesse penetrare la natura da un altro angolo. I miti e i riti, lungi dall’essere opera di una «funzione fabulatrice», come spesso si sostiene, hanno il grandissimo merito di preservare fino a noi, in forma residua, modi di osservazione e di riflessione che furono (e probabilmente restano) esattamente adeguati a un certo tipo di scoperte: quelle cioè consentite dalla natura, a cominciare dalla possibilità di organizzare e di sfruttare speculativamente il mondo sensibile in termini di sensibile.

Ishida-bricolage

Proprio per la sua essenza, questa scienza del concreto doveva limitarsi a risultati diversi da quelli destinati alle scienze esatte e naturali, ma non per questo essa fu meno scientifica e i suoi risultati meno reali: questi ultimi anzi, impostisi diecimila anni prima degli altri, rimangono ancora e sempre il sostrato della nostra civiltà.

D’altronde, sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare «primaria» anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage.
Nel suo antico significato, il verbo bricoler si applica al gioco della palla e del biliardo, alla caccia e all’equitazione, ma sempre per evocare un movimento incidente: quello della palla che rimbalza, del cane che si distrae, del cavallo che scarta dalla linea diritta per evitare un ostacolo. Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo del mestiere.

Ora, la peculiarità del pensiero mitico sta proprio nell’esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita che, per quanto esteso, resta tuttavia limitato: eppure di questo repertorio non può fare a meno di servirsi, perché non ha nient’altro Dubuffet-buonuomotra le mani.
Il pensiero mitico appare così come una sorta di bricolage intellettuale, il che spiega le relazioni che si riscontrano tra i due. Come il bricolage sul piano tecnico, la riflessione mitica può ottenere sul piano intellettuale risultati veramente pregevoli e imprevedibili; reciprocamente è stato osservato il carattere mitopoietico del bricolage, sia dell’art brut o naïf, cioè dell’arte spontanea, sia dell’architettura fantastica della villa del postino Cheval, nell’architettura scenica di Georges Méliès, o in quella immortalata da Dickens nelle Grandi speranze

Vale la pena di approfondire ulteriormente questo paragone, perché ci facilita l’accesso ai rapporti reali esistenti fra i due tipi di conoscenza scientifica che abbiamo ora distinti.
Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via «finito» di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti.

L’insieme dei mezzi del bricoleur non è dunque definibile in base a un progetto (la qual cosa presupporrebbe, almeno in teoria, l’esistenza di tanti complessi strumentali quanti sono i generi di progetto, come accade all’ingegnere); esso si definisce solamente in base alla sua strumentalità, cioè, detto in altre parole e adoperando lo stesso linguaggio del bricoleur, perché gli elementi sono raccolti o conservati in virtù del principio che «possono sempre servire». Simili elementi sono dunque specificati solo a metà: Picabia-bricolageabbastanza perché il bricoleur non abbia bisogno dell’assortimento di mezzi e di conoscenze di tutte le categorie professionali, ma non tanto perché ciascun elemento sia vincolato a un impiego esattamente determinato. Ogni elemento rappresenta un insieme di relazioni al tempo stesso concrete e virtuali: è un operatore, ma utilizzabile per una qualunque operazione in seno a un tipo.

Lo stesso avviene per gli elementi della riflessione mitica che si situano sempre a metà strada tra i percetti e i concetti. Sarebbe impossibile estrarre i primi dalla situazione concreta in cui sono apparsi, e un ricorso ai secondi esigerebbe che il pensiero possa, almeno in linea provvisoria, mettere i progetti tra parentesi.
Ma esiste tra l’immagine e il concetto un intermediario, il segno, poiché lo si può sempre definire, secondo il modo inaugurato da Saussure a proposito di quella particolare categoria costituita dai segni linguistici, come il nesso tra un’immagine e un concetto, i quali, nell’unione così realizzata, sostengono rispettivamente le parti di significante e di significato.

Il segno è un essere concreto quanto l’immagine, ma somiglia al concetto per il suo potere referenziale: sia l’uno che l’altro non sono relativi esclusivamente a se stessi, ma possono far le veci di qualcosa d’altro. Il concetto possiede però, per questo rispetto, una capacità illimitata, mentre quella del segno è limitata. La differenza e la somiglianza risultano chiaramente dall’esempio del bricoleur.

Osserviamolo all’opera: per quanto infervorato dal suo progetto, il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne o rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto. Egli interroga tutti quegli oggetti eterocliti che costituiscono il suo tesoro, per comprendere ciò che ognuno Alice-bricolagedi essi potrebbe «significare», contribuendo così alla definizione di un insieme da realizzare che alla fine, però, non differirà dall’insieme strumentale se non per la disposizione interna delle parti.

Quel blocco cubico di quercia potrebbe servire da bietta per rimediare all’insufficienza di un asse d’abete, oppure da piedistallo, cosa che permetterebbe di valorizzare la venatura e la levigatezza del vecchio legno. Ma queste possibilità vengono sempre limitate dalla storia particolare di ciascun pezzo e da quanto sussiste in esso di predeterminato, dovuto all’uso originale per cui era stato preparato o agli adattamenti subiti in previsione di altri usi. Come le unità costitutive del mito, le cui possibilità di combinazione sono limitate dal fatto di essere ricavate da una lingua dove possiedono già un senso che ne riduce la libertà d’impiego, gli elementi che il bricoleur raccoglie e utilizza sono «previncolati». Sicché, la decisione dipenderà dalla possibilità di permutare un altro elemento nella funzione vacante, di modo che ogni scelta trarrà seco una riorganizzazione completa della struttura che non sarà mai identica a quella vagamente immaginata né ad altra che avrebbe potuto esserle preferita. […]

Non diversamente dal bricoleur, lo scienziato messo davanti a un compito determinato non può fare quello che vuole; anch’egli dovrà cominciare col fare l’inventario di tutto un complesso predeterminato di conoscenze teoriche e pratiche e di mezzi tecnici, che restringono il campo delle soluzioni possibili.
La differenza non è dunque tanto assoluta quanto si sarebbe tentati di immaginare; è però reale nella misura per cui, in rapporto alle limitazioni in cui si riassume lo stato di una civiltà, l’ingegnere tende sempre ad aprirsi un varco e a situarsi «al di là», mentre il bricoleur, per amore o per forza, resta «al di qua», il che equivale a dire in altri termini che il primo opera mediante concetti, il secondo mediante segni.

(Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio)

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Lindner-volto-doppio

Quando definisce il bricolage, Lévi-Strauss propone un insieme di caratteri ben legati tra loro: il possesso di uno stock o di un codice multiplo, eteroclito e pur tuttavia limitato; la capacità di far entrare i frammenti in frammentazioni sempre nuove, donde deriva un’indifferenza del produrre e del prodotto, dell’insieme strumentale e dell’insieme da realizzare.

La soddisfazione del bricoleur quando innesta qualcosa su una conduttura elettrica, quando devia una conduttura d’acqua, si spiegherebbe assai male con un gioco di «papà-mamma» o con un piacere di trasgressione.
La regola di produrre sempre del produrre, di innestare del produrre sul prodotto, è il carattere delle macchine desideranti o della produzione primaria: produzione di produzione.
Un quadro di Richard Lindner, Boy with Machine, mostra un bambino enorme e turgido, che innesta, che fa funzionare una delle sue macchinette desideranti su una grossa macchina sociale tecnica…

(Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo)

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… insomma: facciamo tutti, chi più chi meno, bricolage. Perfino l’ingegnere non può fare a meno di «innestare» il suo ingegno sull’ingegnosità dei mezzi (attrezzi e concetti) che la Macchina Sociale e la sua Grande Memoria (Mnemosine) gli mette a disposizione.
Lindner-on-New-YorkNessuno dispone di tutti i mezzi, o di tutti i segni e/o concetti. Neanche il Faraone in persona gode di una totalità, neppure di quella «somma dei poteri» di cui pretende di essere la reincarnazione. Pure le sue possibilità, come quelle del bambino (in cui eternamente ritorna il Re Primitivo, il Desiderio Primario), sono limitate. Gli «utensili» in ogni caso scarseggiano. Sicché bisogna darsi da fare a trovare un’astuzia che riempia i vuoti, le lacune, le mancanze: un supplemento che supplisca alla «funzione vacante».

Produzione di produzione, processo primario di un «desiderio» appena nato, acerbo, primitivo. Di un «volere» che non ha nessuna «idea» di ciò che intende produrre, e che dispone soltanto di «utensili» già prodotti. Non ha nessun «progetto» di ciò che vuole produrre, perché non vuole (non ancora) produrre qualcosa. Vuole soltanto produrre. Produrre e basta. Produrre per produrre. Desiderio allo stato brado e selvaggio. Al di là del bene e del male. Al di là del questo e del quello – poiché tutto fa brodo nella pentola del suo… vattelapesca.
Il desiderio desidera, ma in principio non desidera nessun «oggetto», e non ha nessun «progetto», nessun altro «in vista di cui» che non sia la sua volontà di prodursi a riempire la sua propria «vacanza». Il desiderio in principio non ha nessun principio da osservare, e tantomeno il principio di piacere.

Il desiderio in principio non ha nient’altro in mente o tra le mani, e non dispone che di un limitato repertorio di «percezioni» e di «immagini» analfabetiche: ne ignora infatti i rispettivi «segni» (ideogrammi o geroglifici) e, a maggior ragione, i possibili «concetti».
Puro desiderio immaginale, immune dal Significante, ignaro dunque di ogni simbolismo – esso si mette all’opera e (… e … e … e …) raccoglie frammenti di mondo e maneggia attrezzi, connettendoli e confondendoli al di là della loro «destinazione d’uso», dal momento che esso non pratica ancora nessun mestiere, ancora ignora l’arte del piacere, Francis-Bacon-figura-sedutaancora è indifferente alla professione a cui ogni singolo «strumento» appartiene.

E, produzione dopo produzione, frammento dopo frammento, attrezzo dopo attrezzo, così va avanti finché – come la palla che rimbalza o carambola finendo magari fuori dal biliardo, o come il cane che invece di correre appresso alla lepre devia per un sentiero fuori mano, o come il cavallo che invece di saltare aggira l’ostacolo – ecco che il desiderio primario si trova a un tratto a produrre la sua prima «magia», la sua prima «coscienza» di se stesso. Magia e scienza, in un momento, in un solo «salto» sopra le righe. In un solo delirio, fuori e al di sopra d’ogni legge.
Si dice allora che esso fa «briccola» [da bric, radice germanica = rompere], cioè infrange la regola, spezza la monotonia (… e … e … e …), e apre una prima breccia nella continuità, per disgiungerne una sintesi, in cui comporre «percezioni» e «immagini» attinte in luoghi e situazioni differenti.

La produce scippando immagini di qua e di là, sottraendole ai loro «autori» (perciò Ermes è detto a ragione «dio dei ladri»), e poi combinandole tra loro e mettendo assieme, in una stessa «frase», frammenti «eterocliti», cioè letteralmente: che hanno tra loro opposte «inclinazioni» o, comunque, ben distinti campi di applicazione.
Nessuna meraviglia, dunque, se il desiderio – a questo punto è proprio il caso di chiamarlo per nome: il Briccone – arriva addirittura a confondere il diavolo e l’acqua santa in una sola immaginazione. Tutto ciò che aveva a portata di mano, erano infatti i resti di inferni costruiti su antecedenti paradisi andati distrutti. O viceversa.