Strizzandomi il braccio
ho fatto saltare
sulla montagna dei Carpazi
con una falda della montagna
il minuScolo caufanetto
che conteneva in tele di fine lino
l’autentico primo
glan-glamda
della prima
minkietta
formata dall’uomm
contralla mia volontà,
ebbene, è SALTATA.
2° Il vecchio morto che aveva fatto
il glande
è mortinnmé
perché il mé
di ognimé
è mort
nel temp istess
e ni-nito è finito.
È da ciò che ciesserà il gramde strunzamento
che rendeva la terra un lupanare di escramenti.
Darci dentro e soddisfarsi intieramente
per fare il bambino
mentre la legge è di contenersi perché l’uomo
sia immortale.
Il padrone non lo sa.
Sì, il padrone lo sa in cosa consiste il fatto che la faccia sia logorata a tal punto che non si possano congiungere le labbra e ritirare la lingua indietro per inghiottire senza peccato.
Ciò consiste nel fatto che il vecchio dei Carpazi non ha voluto mollare
il principio
del verbo
che teneva sotto la lingua
AVVITATA,
verde,
viride,
virtata,
viridata,
venduta.
La sua idea è stata dunque di mantenere
il corpo umano
sotto la dittatura di questa coprofagia funebre,
di questa funeraria deglutizione degustatoria di escrementi;
non si conosce tutto, dico tutto della vita dei grandi pittori, dei grandi poeti;
e cos’è questa storia di un orecchio mozzato recato,
offerto, da van Gogh alla sua beneamata,
gliene ha fatti
prima di ciò
dispetti,
e dispetti, la società,
van Gogh ha offerto l’oggetto del suo intendimento
all’oggetto del suo amore ELETTO
come avrebbe offerto
alla fine
2 soldi di merda
non all’oggetto del suo amore eletto,
ma a tutto ciò che gli impediva di raggiungere l’amore eletto.
(Artaud, Van Gogh il suicidato della società)
***
La scrittura è, dunque, medicina-veleno: essa può avvelenare non solo la memoria, ma perfino le parole che «trascrive», per così dire, in brutta copia. Un addio scritto può essere molto più amaro di un addio dal vivo.
Ma la scrittura è anche veleno terapeutico: essa può guarire le parole malate disdicendo, per es., se non l’addio, quantomeno la sua crudeltà. Può scrivere, direbbe Aristotele, una poesia «catartica»: qualcosa come una di quelle pazzie di purificazione evocate da Platone, che ambiguamente possono mirare tanto a purificarsi dalla pazzia, quanto a purificare la Pazzia da tutte le maldicenze, scritte e orali, di cui è oggetto.
La scrittura è, in fondo, una pazzia, una delle tante forme di pazzia, e chi – come Platone – amava o ama praticarla, solo forse a questa condizione, solo a condizione di farne la sua «nevrosi», il suo pane quotidiano – e ci passa e ci ripassa tutti i santi giorni – infine forse arriva a percepire lo «scarto» dello Scriba, quello «scarto di un pelo» come lo chiamava Artaud, quella «minima differenza» che c’è tra la produzione e la riproduzione dell’evento-parola, tra la citazione e la recitazione dell’evento-segno.
Il teatro della crudeltà, così giusto per fare un esempio, non è la stessa cosa della crudeltà vissuta. È, semmai, il suo «anagramma». La scrittura, come il farmaco, è a doppio gusto: può rettificare il torto o torcere le parole rette – e questa non è la stessa cosa.
La scrittura è il farmaco che, solo peggiorando le parole, solo diminuendo il potere del Significante, solo insorgendo contro lo strapotere dei Segni a cui essa, c’è bisogno di dirlo?, è più che necessariamente soggetta – solo così forse addiviene allo scarabocchio poetico. A cogliere, cioè, il «minimo frutto» della sua propria vanità. A sapersi vanamente ribelle all’Abitudine che l’ha vinta e la vincerà – alla Tirannia della Ridondanza che la costrinse, e tuttora inconsapevole la costringe, a recitare ciò che una volta fu citato da chissà chi dove e quando.
Potestà del Logos. Dispotismo della Macchina Fonetica. In fondo, è essa che ha preso l’abitudine di scriversi, registrarsi, riprodursi, prolungarsi la memoria…
Lo scarabocchio, solo se è folle, pregno cioè di un «eroico furore», qual è per esempio l’amore platonico, solo se sporca la propria vanità messa per iscritto, può forse essere un veleno che purifica, sana le ferite, guarisce dall’Addio che ridonda negli addii che scrive.
Scrivere addio a van Gogh – a un altro pazzo perso nei colori della sua via di fuga dalla Realtà – come poteva scriverlo il suo «fratello immaginale», al secolo frate Antonino Artaud, se non (qua e là perlomeno) disdicendolo?
Oh, quanti poeti, per sembrare geniali, si fingono pazzi!
Antonino lo era.
Dante lo fu.
Platone lo è tuttora, e di una tale potenza che, nei secoli dei secoli, platonica è, non solo ogni ridondanza metafisica occidentale, ma farmacologicamente anche la ridondanza che si ribella a ogni metafisica.
Scrivere addio a chi senti vicino alla tua pazzia, ma come si fa – se ogni pazzo è prigioniero del suo proprio singolare delirio?
Si fa, eccome se si fa. È quello che SI fa da sempre. SI ripete l’eterno tentativo di far fallire l’addio scrivendolo. E insieme ci si ritrova a scrivere l’impotenza della scrittura a impedire il fallimento che ogni addio è. SI sacrifica allora il significato, lo SI immola all’Analfabeta che è il più antico dei Giorni. Forse succederà qualcosa d’imprevedibile per ogni alfabeto.
Sì, va beh, ma chi mai sarebbe questo tale Analfabeta?
Puoi vederlo da te: anche un pazzo come Antonino Artaud non può fare a meno di dargli un nome platonico: AMORE ELETTO. Ovvero: negazione della negazione dell’assenza dell’Amato. Follia della follia, veleno del veleno – per venire a capo di una sofferenza.
Di nuovo, dunque, malgrado il turpiloquio, e gli escrementi «scritti», torna a prendersi la scena la vecchia abitudine, di nuovo torna a recitare la sua parte la Ridondanza Ideale della «amarezza» dolcificata: l’idea dell’Amore senza addii… questa pazzia che non rinsavisce, se non prende un altro po’ di veleno tutti i santi giorni.