Rileggiamo ora questa frase del Fedro: «Ecco, o Râ, dice Thot, una conoscenza (mathema) che avrà l’effetto di rendere gli egiziani più istruiti (sophótherous) e più capaci di ricordare (mnemonikóterous): sia memoria (mnéme) che istruzione (sophia) hanno trovato il loro rimedio (pharmakon)».
La traduzione abituale di pharmakon con rimedio – droga benefica – non è certo inesatta. Non solo pharmakon poteva voler dire rimedio e cancellare, a un certo livello del suo funzionamento, l’ambiguità del proprio senso. Ma è anche evidente che, poiché l’intenzione dichiarata di Theuth era quella di far valere il suo rapporto, egli fa girare il termine intorno al suo strano e invisibile perno, e lo presenta sotto uno solo, il più rassicurante, dei suoi poli. Quella medicina [la scrittura] è benefica, produce e ripara, accumula e rimedia, aumenta il sapere e riduce la dimenticanza.
Eppure la traduzione con «rimedio» cancella, appena si esce fuori dalla lingua greca, l’altro polo che il termine pharmakon tiene in serbo. Annulla la risorsa di ambiguità e rende più difficile, se non impossibile l’intelligenza del contesto. A differenza di «droga» e anche di «medicina», rimedio indica la razionalità trasparente della scienza, della tecnica e della causalità terapeutica, escludendo così dal testo il richiamo alla virtù magica di una forza di cui si dominano a stento gli effetti, di una dynamis sempre sorprendente per chi la volesse manipolare da padrone e suddito.
Ora, da una parte, Platone tiene a presentare la scrittura come una potenza occulta e quindi sospetta. Come la pittura, cui la paragonerà più avanti, e come la pittura «en trompe-l’oeil», e come le tecniche della mimesis in generale. È nota anche la sua sfiducia nei confronti della mantica, dei maghi, degli stregoni, dei maestri di sortilegio. Nelle Leggi, in particolare, riserva loro castighi terribili. Anzi, raccomanda di escluderli dallo spazio sociale, di espellerli o sopprimerli: persino tutte e due le cose insieme con la prigione dove non riceveranno più la visita degli uomini liberi ma solo dello schiavo che porterà loro il cibo; poi con la privazione della sepoltura: «Una volta morto, lo si getterà fuori dai confini del territorio, senza sepoltura, e l’uomo libero che aiutasse a seppellirlo sarà perseguibile per empietà da chiunque gli vorrà intentare processo» (10, 909bc).
D’altra parte, la replica del re suppone che l’efficacia del pharmakon possa capovolgersi: aggravare il male anziché porvi rimedio. O piuttosto la risposta del re significa che Theuth, per astuzia e/o ingenuità, ha esposto il contrario del vero effetto della scrittura. Per far valere la sua invenzione, Theuth avrebbe così snaturato il pharmakon, detto il contrario di quello di cui la scrittura è capace e fatto passare un veleno per un rimedio. In modo che traducendo pharmakon con rimedio si rispetta indubbiamente, più che il voler-dire di Theuth, oppure di Platone, ciò che il re dice e che Theuth ha detto, in questo modo ingannandolo o ingannandosi.
Quindi, dal momento che il testo di Platone dà la risposta del re come verità della produzione di Theuth, e la sua parola come verità della scrittura, la traduzione con rimedio accusa l’ingenuità o il sopruso di Theuth, dal punto di vista del Sole [Râ]. Da questo punto di vista Theuth ha indubbiamente giocato sulla parola, interrompendo, per la necessità della causa, la comunicazione tra i due valori opposti. Ma il re la ristabilisce e la traduzione non ne dà conto. Tuttavia i due interlocutori restano sempre, qualunque cosa facciano e sia che lo vogliano o no, nell’unità dello stesso significante. Il loro discorso vi gioca dentro, cosa che non succede più in francese [o, è sottinteso, in una qualunque lingua altra dal greco].
Rimedio, certamente più di «medicina» o «droga», cancella il riferimento virtuale, dinamico, agli altri usi dello stesso termine nella lingua greca. Una simile traduzione distrugge soprattutto quella che chiamiamo la scrittura anagrammatica di Platone, interrompendo i rapporti che vi si intessono tra funzioni diverse dello stesso termine in diversi luoghi, rapporti virtuali ma necessariamente «citazionali». Quando una parola si iscrive come citazione di un altro senso di quella stessa parola, quando il proscenio testuale della parola pharmakon, pur significando rimedio, cita, recita e fa leggere quello che nella stessa parola significa, in altro luogo e ad altra profondità della scena, veleno (ad esempio, perché pharmakon vuol dire anche altro), la scelta di una sola di queste parole francesi da parte del traduttore ha per primo effetto la neutralizzazione del gioco citazionale, dell’«anagramma», e, al limite, semplicemente della testualità del testo tradotto.
Indubbiamente si potrebbe mostrare, e tenteremo di farlo a suo tempo, che questa interruzione del passaggio tra valori contrari è già cominciata nel testo tradotto, nel rapporto fra «Platone» e la sua «lingua». Non c’è nessuna contraddizione fra questa proposizione e la precedente. La testualità, essendo costituita da differenze e da differenze di differenze, è per natura assolutamente eterogenea e si compone in continuazione con le forze che tendono ad annullarla.
Bisognerà dunque accettare, seguire e analizzare, la composizione di quelle due forze o di quei due gesti.
Da una parte Platone presenta la decisione di una logica che non tollera il passaggio fra i due sensi contrari di uno stesso termine, tanto più che tale passaggio si rivelerà tutt’altro che una semplice confusione, alternanza o dialettica di contrari. E tuttavia, d’altra parte, il pharmakon, se la nostra lettura si conferma, costituisce l’ambito originale di questa decisione, l’elemento che la precede, la comprende, la eccede, non vi si lascia mai ridurre e non si separa da un’unica parola (o da un apparato significante) operante nel testo greco e platonico. Tutte le traduzioni nelle lingue eredi e depositarie della metafisica occidentale producono dunque sul pharmakon un effetto di analisi che lo distrugge violentemente, lo riduce ad uno dei suoi elementi semplici interpretandolo, paradossalmente, a partire da quello ulteriore che esso ha reso possibile. Una tale traduzione interpretativa è dunque tanto violenta quanto impotente: distrugge il pharmakon, ma nello stesso tempo si impedisce di raggiungerlo e lo lascia intatto nella sua riserva.
La traduzione con «rimedio» non potrebbe dunque essere accettata né semplicemente respinta. Anche se si credesse di salvare così il polo «razionale» e l’intenzione laudatoria, l’idea di un buon uso della scienza o dell’arte del medico, ci sarebbero ancora tutte le possibilità di lasciarsi ingannare dalla lingua. La scrittura non vale più, secondo Platone, come rimedio che come veleno. Il rimedio è inquietante in sé, prima ancora che Thamus lasci cadere la sua sentenza peggiorativa.
Bisogna infatti sapere che Platone sospetta del pharmakon in generale, anche quando si tratta di droghe usate a scopi esclusivamente terapeutici, anche se sono utilizzate conbuone intenzioni, e anche se sono efficaci in quanto tali. Non esiste rimedio inoffensivo. Il pharmakon non può mai essere semplicemente benefico.
Per due motivi e a due livelli di profondità diversi. Anzitutto perché l’essenza o la virtù benefica di un pharmakon non gli impediscono di essere doloroso. Il Protagora classifica i pharmaka fra le cose che possono essere al tempo stesso buone (agathá) e dolorose (aniará) (354a). Il pharmakon è sempre preso nel miscuglio (summeiktón) di cui parla anche il Filebo (46a), per esempio quella ybris, quell’eccesso violento e smisurato nel piacere che fa gridare gli intemperanti come pazzi (45e), e «il sollievo dato ai rognosi dalla frizione e da tutti i trattamenti del genere senza bisogno di altri rimedi (pharmakéos)». Questo doloroso godimento, legato alla malattia quanto al suo lamento, è un pharmakon in sé. Esso partecipa insieme del bene e del male, del gradevole e dello sgradevole. O piuttosto è nel suo insieme che si delineano queste opposizioni.
Poi, più profondamente, al di là del dolore, il rimedio farmaceutico è essenzialmente nocivo perché artificiale. In questo Platone segue la tradizione greca e più precisamente i medici di Cos. Il pharmakon contraria la vita naturale: non solo la vita quando nessun male l’affligge, ma anche la vita malata, o piuttosto la vita della malattia. Perché Platone crede alla vita naturale ed allo sviluppo normale, se così si può dire, della malattia. Nel Timeo, la malattia naturale è paragonata, come il logos nel Fedro, ricordiamolo, ad un organismo vivente che bisogna lasciar sviluppare secondo le sue regole e le sue forme, i suoi ritmi e le sue articolazioni specifiche. Deviando lo sviluppo normale e naturale della malattia, il pharmakon è dunque nemico del vivente in generale, sano o malato che sia.
Bisogna ricordarselo, e a questo ci invita Platone, quando la scrittura viene proposta come pharmakon. Contraria alla vita, la scrittura – o, se si preferisce, il pharmakon – non fa altro che spostare e magari irritare il male. Tale sarà, nel suo schema logico, l’obiezione del re alla scrittura: con il pretesto di supplire la memoria, la scrittura rende ancora più smemorati; ben lungi dall’accrescere il sapere, lo riduce. Non risponde al bisogno della memoria, mira nel vuoto, non consolida la mnéme, ma solo l’hypómnesis. Si comporta dunque proprio come qualsiasi altro pharmakon. […]
Perché la scrittura produca, come dice Thamus, l’effetto «inverso» di quello che ci si poteva aspettare, perché questo pharmakon si riveli, all’uso, nocivo, occorre dunque che la sua efficacia, la sua potenza, la sua dynamis sia ambigua. Come viene detto del pharmakon nel Protagora, nel Filebo, nel Timeo.
Ora Platone, per bocca del re, vuole padroneggiare tale ambiguità, dominarne la definizione nell’opposizione semplice e netta: del bene e del male, del dentro e del fuori, del vero e del falso, dell’essenza e dell’apparenza. Si rileggano gli atti del giudizio reale, vi si troverà questa serie di opposizioni. Per di più disposta in modo tale che il pharmakon, o, se si preferisce, la scrittura, non possa che girarvi in tondo: solo in apparenza la scrittura è benefica per la memoria, in quanto la aiuta all’interno col proprio movimento a conoscere il vero. Ma in verità la scrittura è essenzialmente cattiva, esterna alla memoria, produttrice non di scienza ma di opinione, non di verità ma di apparenza. Il pharmakon genera il gioco dell’apparenza grazie al quale si fa passare per la verità, ecc.
Ma, mentre nel Filebo e nel Protagora, il pharmakon, perché doloroso, sembra cattivo mentre è benefico, qui invece, nel Fedro come nel Timeo, passa per una medicina benefica mentre in verità è nocivo. Una cattiva ambiguità è dunque opposta ad una buona ambiguità, un’intenzione di menzogna ad una semplice apparenza. Il caso della scrittura è grave.
Non basta dire che la scrittura è pensata a partire da queste o da quelle opposizioni messe in serie. Platone la pensa, e tenta di capirla, di dominarla a partire dall’opposizione stessa. Affinché questi valori contrari (bene/male, vero/falso, essenza/apparenza, dentro/fuori, ecc.), possano opporsi, bisogna che ciascuno dei termini sia semplicemente esterno all’altro, cioè che una delle opposizioni (dentro/fuori) sia già accreditata come la matrice di ogni opposizione possibile. Bisogna che uno degli elementi del sistema (o della serie) valga anche come possibilità generale della sistematicità o della serialità.
E se si venisse a pensare che qualcosa come il pharmakon – o la scrittura –, lungi dall’essere dominato da queste opposizioni, ne apre la possibilità senza lasciarvisi comprendere; se si venisse a pensare che soltanto a partire da qualcosa come la scrittura – o il pharmakon – può annunciarsi la strana differenza tra il dentro e il fuori; se di conseguenza si venisse a pensare che la scrittura come pharmakon non si lascia assegnare semplicemente un sito in ciò che essa situa, né si lascia sussumere sotto i concetti che a partire da essa si decidono, ma abbandona soltanto il proprio fantasma alla logica che può volerla dominare soltanto con il procedere ancora da se stessa, bisognerebbe allora piegare a strani movimenti ciò che non si potrebbe neppure più chiamare semplicemente la logica o il discorso. Tanto più che ciò che imprudentemente abbiamo appena chiamato fantasma non può più essere distinto, con la stessa sicurezza, dalla verità, dalla realtà, dalla carne vivente, ecc. Bisogna accettare che, in un certo modo, lasciare il proprio fantasma significhi per una volta non salvare niente.
Questo piccolo esercizio sarà bastato, forse, ad avvisare il lettore: la spiegazione con Platone, quale si abbozza in questo testo, è già sottratta ai modelli riconosciuti del commento, della ricostituzione genealogica o strutturale di un sistema, che essa intenda corroborare o confutare, confermare o «rovesciare», operare un ritorno – a Platone – o «mandarlo a spasso» nel modo ancora platonizzante del cháirein, si tratta qui di tutt’altra cosa. Anche di questo, ma in più di tutt’altra cosa. […]
Se la scrittura produce, secondo il re e sotto il sole, l’effetto inverso a quello che le si attribuisce, se il pharmakon è nefasto, è perché, come quello del Timeo, non è di qui. Viene da laggiù, è esterno o estraneo: al vivente, che è il qui stesso del dentro, al logos come zoón che esso pretende di soccorrere o di supplire. Le impronte (typoi) della scrittura non si inscrivono questa volta, come nell’ipotesi del Teeteto (191ss.), impresse nella cera dell’anima, rispondendo così ai movimenti spontanei, autoctoni, della vita psichica. Sapendo che può affidare o abbandonare i suoi pensieri al fuori, alla registrazione, alle tracce fisiche, spaziali e superficiali, che si stendono su una tavoletta, colui che disporrà della téchne della scrittura, si rimetterà ad essa. Saprà che può assentarsi senza che i typoi cessino di esserci, che può dimenticarli senza che lascino il suo servizio. Lo rappresenteranno anche se egli li dimentica, porteranno la sua parola anche se egli non c’è più ad animarli. Anche se è morto, e soltanto un pharmakon può possedere un tale potere, sulla morte certo, ma anche in collusione con essa. Il pharmakon e la scrittura sono sempre, dunque, una questione di vita o di morte.
(Derrida, La farmacia di Platone)