Il principio del discorso centrale del Fedro è una lode della follia dionisiaca, nei suoi vari aspetti. È questa la più ardita dichiarazione anti-socratica di Platone: la manía, la «pazzia», è espressamente riconosciuta superiore alla sophrosýne, alla «moderazione», virtù caratteristica di Socrate – lo spunto anzi dell’intero dialogo è una polemica contro Lisia, che proclama la necessità di un amore moderato.
Con questo Platone si mette in una posizione nettamente anti-politica, nel senso della visione greco-apollinea della vita: noi riscontreremo, è vero, nel Fedro una maggiore politicità che nel Fedone, ma questa sarà la forma di politicità che troviamo nei Presocratici, cioè la creazione di uno Stato fondato dall’intero universo e i cui cittadini non sono uomini, ma enti ideali. In questo Stato regna una valutazione della virtù diversa da quella umana, e un miglioramento della politica umana non può avvenire che con un adeguarsi della virtù del cittadino terreno a quella del cittadino celeste; la pazzia viene così ad essere la nuova virtù, la virtù dionisiaca.
Ma Platone e i Presocratici vedevano nella pazzia, oltre che uno stato privilegiato dell’uomo, anche qualcosa come una loro particolare saggezza pratica e politica.
Richiamiamo in proposito un’osservazione molto interessante di Nietzsche: egli sostiene che i Greci davano un grande valore alla pazzia in quanto questa era qualcosa di involontario e di terrificante, dietro al quale si poteva credere più facilmente alla rivelazione divina. Per questo si diffusero le idee più ardite: i grandi uomini, quando non erano veramente pazzi, fingevano di esserlo (cfr. Aurora, 14).
Quello che Platone chiama follia significa l’entrare in possesso del lato più intimo della propria personalità. Accanto alla nuova manía amorosa, rimane la manía di purificazione, che era stata introdotta nel Fedone, e viene inoltre proclamata per la prima volta come divina la follia poetica. Con l’amore egli si accosta di nuovo alla realtà visibile, sia pure considerandola come simbolo, e gli si riaffaccia ora l’impulso poetico che sta sempre in fondo alla sua anima, e che ha adesso la possibilità di esprimersi non più nella forma passionale e umana della tragedia che in gioventù aveva finito per disgustarlo, ma attraverso un’arte divina che parli con immagini della verità.
Per questo troviamo il Fedro riboccante di immagini, pieno di amore per la natura e di slanci lirici, mentre l’esaltazione e la tragicità del Fedone era espressa in un linguaggio trattenuto e volutamente freddo.
Le verità mistiche sono inesprimibili e il poter ricorrere a delle immagini poetiche, in quanto simboli, è un sollievo per il bisogno di espressione: così Platone, che segue anche in questo genere poetico l’esempio di Empedocle, descrive l’arrivo dell’anima nella pianura della verità, dove vi è la prateria che offre pascolo a lei conveniente.
Queste tre pazzie sono nel Platone del Fedro tutte collegate e coesistenti: anche la manía di purificazione e quella amorosa sussistono nello stesso tempo. Di qui nasce quel fenomeno specialissimo che è l’amore platonico: tutta la passionalità dionisiaca si volge verso la persona amata, ma è una passione completamente transumanata, per la quale ciò che di sensibile rimane nell’amore non è che pura forma, pura visione che aiuta a salire, e mai viene concepito come contenuto terreno.
L’origine di questo amore sta nella contemplazione dell’oggetto amato, nello sguardo. Ad indicare questo momento complesso Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo».
Attraverso l’ópsis ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, diventa reale e visibile; essa è come il punto di unione tra l’umano e il divino.
L’apollineo ama la figura nel suo complesso, nella sua finitezza, nella sua armonia; il dionisiaco ama gli occhi perché solo attraverso di essi egli può giungere all’anima; tutti coloro che hanno considerato l’amore come una redenzione, Dante, Goethe, Wagner, ci parlano dello sguardo, e anche Platone ci parla nel Fedro dell’«occhio pieno di amore» e della «ópsis rifulgente dell’amato» (253e-254b). Egli stesso ci dice questo vantaggio dell’amore per chi vuole conoscere la verità, questa possibilità di concedere una maggiore felicità, avendo esso un punto di contatto con il mondo sensibile attraverso lo sguardo.
Se la phrónesis si potesse vedere, egli dice, procurerebbe agli uomini degli amori smisurati (250d). Ora la phrónesis, nel senso che ha qui la parola, è la virtù dionisiaca del Fedone: essa è dolorosa, non ha contatti con ciò che è visibile, ed è quindi meno amata dagli uomini.
L’amante però dopo un poco che guarda gli occhi dell’amato si accorge che in quegli occhi vi è un’anima diversa dalla sua e, poiché è proprio quell’immagine divina e l’anima che sta dietro quell’immagine a farlo salire in alto, egli si sente spinto ad amare non soltanto quello sguardo, ma anche l’anima che ha quello sguardo, ed a cercare quindi di far salire anch’essa verso la verità.
Questo istante è un punto cruciale nell’evoluzione platonica: egli abbandona ora l’indirizzo fondamentale di vita dei Presocratici, che si erano mantenuti nella solitudine, dal momento che non soltanto più la propria, ma anche l’anima di un altro lo interessa.
Diventa adesso per lui importante il problema dell’educazione, che sarà il punto essenziale della sua politica. Nonostante che in fondo il suo animo rimanga dionisiaco, quello che nell’aspetto contemplativo dell’amore era un tenue contatto con la realtà visibile, che serviva soltanto a spingerlo con maggior forza alla verità, diventa nel lato attivo ed educativo dell’amore un po’ una concessione a ciò che è terreno.
(Colli, Filosofi sovrumani)