Donde è nata la logica nella testa dell’uomo?
Indubbiamente dalla non logica, il regno della quale, originariamente, deve essere stato immenso. Tuttavia innumerevoli esseri che argomentavano in maniera diversa da come oggi argomentiamo noi, perirono: ciò potrebbe essere stato ancor più vero!
Chi, per esempio, non riusciva a trovare abbastanza spesso l’«uguale», relativamente alla nutrizione o agli animali a lui ostili, colui che quindi procedeva troppo lento, troppo cauto nella sussunzione, aveva più scarsa probabilità di sopravvivere di chi invece, in tutto quanto era simile, azzeccava subito l’uguaglianza.
Ma l’inclinazione prevalente a trattare il simile come uguale, una inclinazione illogica – perché nulla di uguale esiste – ha creato in principio i fondamenti della logica.
Similmente, perché nascesse il concetto di sostanza, – che è indispensabile per la logica, anche se ad esso, a rigor di termini non corrisponde nulla di reale, – non si dovette per lungo tempo né vedere né sentire il permutarsi delle cose; gli esseri che non vedevano con precisione avevano un vantaggio rispetto a coloro che vedevano tutto «allo stato fluido».
In sé e per sé, già ogni grado elevato di cautela nell’argomentare, ogni inclinazione scettica è un grande pericolo per la vita. Non si sarebbe conservato alcun essere vivente, se non fosse stata coltivata, in modo estremamente vigoroso, l’opposta inclinazione, diretta ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e a immaginare piuttosto che a restare in posizione d’attesa, ad assentire invece che a negare, a esprimere la propria opinione invece che a essere giusti.
Il decorso dei pensieri e delle deduzioni logiche nel nostro cervello di oggi corrisponde a un processo e a un conflitto di istinti che presi per sé, nella loro rispettiva singolarità, sono tutti molto illogici e ingiusti; noi esperimentiamo di consueto solo il risultato della lotta, tanto rapido e nascosto si svolge oggi il funzionamento di questo primordiale meccanismo.
(Nietzsche, La gaia scienza, 3: 111)
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Il «regno» dell’illogica dev’essere stato immenso… immensurabile, fuori d’ogni misura, irriducibile a ogni metrica.
Adesso, logicamente, prendiamo le misure. Non lo so, saranno alcune decine di millenni che abbiamo preso quest’abitudine di misurarci l’un l’altro, quale precondizione per trovarci reciprocamente «reali».
Ehi, bambini, venite a giocare da noi! – ci dissero i Signori di Xibalbá, e noi, ingenui, abboccammo al loro «richiamo». Ci fecero fumare il loro sigaro, e noi, geniali, in quelle nuvole di fumo c’immaginammo nientemeno un futuro che attendeva solo noi, e che solo da noi voleva essere vissuto… ma erano i Segni, i Prestigiatori della Langue, gli Spiriti della Terra dei Morti, sì, erano loro che, vagando postumi a Se Stessi, ci stavano «drogando». Ma noi, allora, non potevamo saperlo. Non potevamo sapere che era il sigaro, fin dalla prima boccata «aristotelica» (A = A), a farci girare la testa. E soprattutto, uscendo dall’illogico, non potevamo più sapere che non avremmo mai più assaporato l’immensità insignificante. Il nostro gioco la stava assoggettando alla metrica di un altro gioco, di un gioco «a morire» nel nome dell’illusione delle illusioni, della più illogica e improbabile delle illusioni – la Realtà, così come il logos se la canta e se la suona.
Il Reame dell’«irreale» dev’essere stato vasto… finché a devastarlo non ci «pensò» la Logica. Ci pensò il cogito, il «dunque sono» con cui i Signori di Xibalbá, a forza di fonemi e di morfemi, ci diedero da pensare, ci ordinarono di pensare, ci istigarono a delinquere – a lasciarci cioè alle spalle il nostro passato insignificante. Ci obbligarono perfino a non voltarci indietro – ché Euridice era irrevocabilmente perduta. Ché soltanto un pazzo, soltanto un musico o un poeta delirante, solo un furioso paladino non si sarebbe dato pace.
Suvvia, ci dissero, date un altro tiro a questo sigaro cubano. Tabacco che incenerisce: questo, nient’altro che questo – ci ripeterono – è la vita. Perciò, non perdete altro tempo, venite via dal vostro Paese, venite a giocare qui da noi questo «poco» tempo che vi rimane!
Eravamo, fino ad allora, tra gli «innumerevoli esseri che argomentavano in maniera diversa» dalla Volontà di potenza dei Segni, eravamo nati eretici ribelli al Potere del Linguaggio. Magari, eravamo cavalli di razza prima di lasciarci cavalcare e speronare. A volte, a sangue – da segni come amore, amicizia, patto e lealtà.
Eravamo immensi, ma i Segni non potevano più a lungo sopportare la nostra vastità. Perciò si affrettarono a mandarci qualcuno a dire (che so?, papà, la mamma, il professore, il prete): Basta giocare «al piano di sopra». Scegliete: o con noi, quaggiù la vita – o voi, da soli, lassù tra le nuvole morte.
Fu allora, me lo ricordo, che molti di noi, tanti, «innumerevoli», al di là di ogni «numero», perirono. Molti dei nostri «compagni di viaggio», molti di quei «presentimenti» vagabondi, si persero per strada. Erano troppo lenti, forse un po’ troppo schizzinosi, per lasciarsi addomesticare al bizzarro principio di «identità» (A = A).
Suvvia, un altro tiro e vedrete… il simile si può «arrotondare» (a Napoli si dice «arronzare») a uguale. Evviva l’Uguaglianza, alfa e omega di tutta la nostra Logica. Io = Io: ecco il grande Buco Nero del «cogito dunque sono».
Si dovrebbe piuttosto dire che sono i Segni al servizio della Langue, i Demoni del Discorso Umano, sono loro che cogitano me, loro che mi escogitano entrandomi dall’orecchio, loro che mi invadono la voce e mi vengono a musicare le immaginazioni analfabetiche del «piano di sopra», finché non mi «incantano» al punto che, cartesiana mente, mi viene da dire: «ecco, sono» quel miraggio là, che vedo tra le nuvole del sigaro.
Dunque sono, perché così vogliono i Signori di Xibalbá. Vogliono essere ringraziati per quello che mi fanno fumare, e per le approssimazioni che, fumando, a ogni tiro di sigaro, mi vengono sempre più facili.
Sono sopravvissuto, io, agli innumerevoli che per strada mi morirono a ogni gradino che scendevo al piano del «dunque sono». Io soltanto sono rimasto, io solo, io solitario, io celibe, io orfano – solo i Signori della Significazione si offrirono a quel punto di adottarmi. Purché fumassi assieme a loro. Purché mi lasciassi cantare la ninnananna da Aristotele!
Quelli che mi morirono dentro, Euridice compresa, erano troppo «mosci» per stare al passo dell’Ansia della Tribù. A ogni lettera dell’alfabeto che mi si ordinava di apprendere, essi recalcitravano: erano troppo «scettici» per farsi, e poi così sbrigativamente, che diamine!, già alla prima elementare… farsi sedurre dall’illusione dell’«identità». A come Alfabeto. Lasciate ogni speranza voi che entrate…
Sotto la minaccia degli Inquisitori di Xibalbá, morirono i migliori di noi, alcuni per lo spavento, altri di crepacuore, e quei pochi che la scamparono trovarono rifugio nei sotterranei inconsci del mio «dunque sono».
È da allora che sono solo questo, io. Non più l’immenso, non più il vasto, ma solo questo moscerino di un «ergo sum» impigliato nella Rete delle illusioni. Sono solo ciò che avanza alla fine di un plurimillenario Conflitto di quelli che noi, logicamente, chiamiamo «istinti». Sono solo una funzione logaritmica della Guerra che eternamente, meccanicamente, si combatte a chi è più bravo, più rapido e conciso, a… vedere l’Uguale nel fluire di differenze senza inizio e senza fine.