Certi miti indiani illustrano in modo particolarmente felice come si può «infrangere» il tempo individuale e storico, e come «attualizzare» il Grande Tempo mitico.
Ne daremo un esempio celebre, tratto dal Brahmâ Vairarta Purâna, che il compianto Heinrich Zimmer aveva commentato e riassunto nel suo libro Myths and Symbols in Indian Art and Civilisation. Questo testo ha il merito di introdurre direttamente il Grande Tempo quale strumento di conoscenza e quindi di liberazione dai lacci di Mâyâ.
Indra, dopo aver sconfitto il drago Vrtra, decide di rifare e abbellire la residenza degli dèi. Višvakarman, l’artigiano divino, dopo un anno di lavoro riesce a costruire un palazzo magnifico. Indra, però, non si ritiene soddisfatto: vuole ingrandire ancora la costruzione, renderla più maestosa, unica al mondo.
Sfiancato dallo sforzo Višvakarman si lagna con Brahmâ, il dio creatore, il quale promette di aiutarlo e interviene presso Visnu, l’Essere Supremo, di cui Brahmâ stesso è un semplice strumento. Visnu si incarica di far tornare Indra alla realtà.
Un bel giorno Indra riceve nel suo palazzo la visita di un piccolo straccione. Si trattava di Visnu in persona il quale aveva assunto le sembianze di un qualunque ragazzo di strada per umiliare il Re degli dèi. Senza svelare subito la sua identità, lo chiama «figlio mio» e comincia a parlargli degli innumerevoli Indra che fino a quel momento hanno popolato gli Universi senza numero.
«La vita e il regno di ogni singolo Indra – gli dice – durano 71 eoni (un ciclo, un mahâyuga, comprende 12.000 annate divine, ovvero 4.320.000 anni): un giorno e una notte di Brahmâ equivalgono a 28 esistenze di Indra. Tuttavia l’esistenza di un Brahmâ, misurata sulla base di questi giorni e notti di Brahmâ, è di soli 108 anni. A un Brahmâ ne segue un altro; uno si corica, l’altro si alza. Non li si può contare. Il numero di questi Brahmâ non ha fine, per non parlare degli Indra…
«Chi dunque conterà mai il numero degli Universi, ciascuno con il suo Brahmâ e il suo Indra? Al di là della visione più lontana, al di là di ogni spazio immaginabile, gli Universi sorgono e tramontano all’infinito. Al pari di vascelli leggeri, questi Universi galleggiano sull’acqua pura e senza fondo che costituisce il corpo di Visnu. Da ogni poro di questo corpo un Universo affiora un istante e scoppia. Avresti forse la presunzione di contarli? Credi forse di poter enumerare gli dèi di tutti questi Universi – gli Universi attuali e quelli passati?…».
Mentre il ragazzino parlava, una processione di formiche aveva fatto la sua comparsa nel salone del palazzo. Schierato in una colonna larga due metri, la folla delle formiche sfilava sul pavimento. Il bambino le nota e, preso da stupore, scoppia improvvisamente a ridere.
«Perché ridi?», gli chiede Indra.
«Ho visto le formiche, oh Indra, che sfilavano in lunga parata. Ognuna di esse era stata un Indra in passato. Al pari di te, grazie alla sua devozione, ognuna di essa era salita un tempo al rango di Re degli dèi. Ora però, dopo molteplici trasmigrazioni, ognuna è ridiventata formica. Questo esercito di formiche è un esercito di antichi Indra…».
A seguito di questa rivelazione, Indra comprende la vanità del suo orgoglio e delle sue ambizioni. Chiama l’ammirevole architetto Višvakarman, lo ricompensa regalmente e rinuncia per sempre ad ingrandire il palazzo degli dèi.
L’intenzione di questo mito è trasparente. La vertiginosa evocazione degli innumerevoli Universi che sorgono e scompaiono dal corpo di Visnu basta, da sola, a superare l’orizzonte limitato e rigorosamente condizionato della sua «situazione» di Re degli dèi. Si sarebbe anzi tentati di aggiungere, della sua «situazione storica», in quanto Indra si trova a essere il Gran Capo guerriero degli dèi in un determinato momento storico, in una data tappa del grandioso dramma cosmico.
Indra ascolta dalla bocca stessa di Visnu una storia vera: la vera storia dell’eterna creazione e distruzione dei mondi, a fianco della quale la sua storia personale, le innumerevoli avventure eroiche che culminano nella sua vittoria su Vrtra sembrano, effettivamente, essere «storie false», ovvero eventi privi di significato trascendente.
La storia vera gli rivela il Grande Tempo, il tempo mitico, che è la vera fonte di ogni essere e di ogni evento cosmico. Indra, poiché riesce a superare la sua «situazione» storicamente condizionata e riesce a strappare il velo illusorio creato dal tempo profano, cioè dalla sua «storia» personale, è guarito dal suo orgoglio e dalla sua ignoranza; in termini cristiani egli viene «salvato».
Questa funzione redentrice del mito opera non soltanto per Indra, ma anche per ciascun uomo che ascolta la sua avventura. Trascendere il tempo profano, ritrovare il grande tempo mitico, equivale a una rivelazione della realtà suprema: realtà rigorosamente metafisica alla quale ci si può accostare soltanto attraverso i miti e i simboli. […]
La visione del Tempo infinito, del ciclo senza fine delle creazioni e delle distruzioni degli Universi, in ultima istanza il mito dell’Eterno Ritorno, è elevato a «strumento di conoscenza» e mezzo di liberazione per tutti gli uomini.
Nella prospettiva del Grande Tempo, ogni esistenza è precaria, evanescente, illusoria. Se le si considera sul piano dei grandi ritmi cosmici, non solo l’esistenza umana e la storia – con tutti i suoi imperi, le sue dinastie, le sue rivoluzioni e controrivoluzioni – si riveleranno effimere, in qualche sorta irreali, ma lo stesso universo viene a essere svuotato di realtà, dal momento che gli Universi nascono in continuazione dagli innumerevoli pori del corpo di Visnu e scompaiono con la rapidità di una bolla d’aria che scoppia, una volta raggiunta la superficie dell’acqua.
L’esistenza nel Tempo è, dal punto di vista ontologico, una non esistenza, una irrealtà. In questo senso deve essere inteso quanto afferma l’idealismo indiano e in primo luogo il Vedânta: il mondo è illusorio, privo di realtà, dal momento che la sua durata è limitata e, nella prospettiva dell’Eterno Ritorno, essa è addirittura una non durata.
Il tavolo su cui scrivo è irreale, non perché non esiste nel senso proprio del termine, nel qual caso sarebbe un’illusione dei nostri sensi; no, non è illusione: esiste in questo momento preciso – ma questo tavolo è illusorio in quanto non esisterà più da qui a diecimila o centomila anni.
Il mondo storico, le società e le civiltà costruite a fatica con lo sforzo di migliaia di generazioni, tutto questo è illusorio in quanto, sul piano dei ritmi cosmici, il mondo storico dura solo lo spazio di un istante. L’uomo del Vedânta, il buddhista, il rsi, lo yogi, il sâdhu, ecc., tirano le logiche conclusioni della lezione del Tempo infinito e dell’Eterno Ritorno, rinunciano al mondo e ricercano la Realtà assoluta, ché solo la conoscenza dell’Assoluto li aiuta a liberarsi dall’illusione, a strappare il velo della Mâyâ.
La rinuncia al mondo, tuttavia, non è l’unica conseguenza che un indiano è in diritto di trarre dalla scoperta del Tempo ciclico infinito. Come oggi si comincia meglio a comprendere, l’India non ha conosciuto solo la negazione e il rifiuto totale del mondo. Partendo sempre dal dogma dell’irrealtà di fondo del Cosmo, la spiritualità indiana ha altresì elaborato una via che non conduce necessariamente all’ascesi, all’abbandono e al distacco dal mondo.
È, ad esempio, la vita praticata da Krsna nella Bhagavad Gîta: la cosiddetta «rinuncia ai frutti delle proprie azioni», ai benefici che si possono trarre dalle proprie azioni, ma non la rinuncia all’agire in sé. È la via che mette in luce il seguito del mito di Visnu e Indra, di cui abbiamo raccontato più sopra l’avventura.
In effetti Indra, umiliato dalla rivelazione di Visnu, rinuncia alla sua vocazione di dio guerriero e si ritira sulle montagne per praticare l’ascetismo più rigoroso. In altri termini, si appresta a trarre quella che gli sembra essere l’unica conclusione logica della scoperta dell’irrealtà e della vanità del mondo. Si trova in una situazione identica a quella in cui trovò il principe Siddhârta immediatamente dopo aver abbandonato il suo palazzo e le sue spose a Kapilavatsu ed essersi dedicato a penose mortificazioni.
Ci si può domandare se un Re degli dèi, uno sposo, avesse il diritto di trarre simili conclusioni da una rivelazione di ordine metafisico, se la sua rinuncia e la sua ascesi non mettessero in pericolo l’equilibrio del mondo.
In effetti, poco tempo dopo, sua moglie, la regina Cacî, desolata di essere stata abbandonata, implora l’aiuto del prete-consigliere Brhaspati. Costui, prendendola per mano, va da Indra e gli parla lungamente, non soltanto della virtù della vita contemplativa, ma anche dell’importanza della vita attiva, della vita che trova la sua pienezza in questo mondo.
Indra, a questo modo, riceve una seconda rivelazione: comprende che ciascuno deve seguire la sua via e realizzare la propria vocazione, ovvero, in ultima istanza, compiere il suo dovere. Però, dal momento che la sua vocazione e il suo dovere erano di continuare a rimanere Indra, egli riprende la sua «identità» e prosegue le eroiche avventure, senza orgoglio e senza fatuità, poiché ha compreso la vanità di ogni «situazione», fosse anche quella di Re degli dèi…
Questo seguito del mito ristabilisce l’equilibrio: l’importante non è sempre rinunciare alla propria situazione storica, sforzandosi di unirsi all’Essere Universale, bensì di conservare costantemente nello spirito le prospettive del Grande Tempo, pur continuando ad adempiere al proprio dovere nel tempo storico.
È esattamente questa la lezione che, nella Bhagavad Gîta, Krsna impartisce ad Arjuna. In India, come un po’ dovunque nel mondo arcaico, questa apertura sul Grande Tempo, ottenuta tramite la recitazione periodica dei miti, consente di prolungare all’infinito un certo ordine – metafisico, etico e sociale a un tempo – ordine che non conduce affatto all’idolatria della Storia, poiché la prospettiva del Tempo mitico rende illusorio qualsiasi frammento del tempo storico.
Il mito del Tempo ciclico e infinito, strappando le illusioni ordite dai ritmi minori del Tempo, cioè dal tempo storico, ci rivela dunque la precarietà e, in fin dei conti, insieme anche l’irrealtà ontologica dell’Universo e la via della nostra liberazione. In effetti, ci si può salvare dai vincoli della Mâyâ o attraverso la via della contemplazione, rinunciando al mondo e praticando l’ascesi e le tecniche mistiche che ad essa conducono, oppure attraverso una via attiva, continuando a rimanere nel mondo, senza più godere però dei «frutti delle proprie azioni».
In un caso come nell’altro, l’importante è unicamente non credere alla realtà delle forme che nascono e finiscono nel Tempo: non bisogna mai perdere di vista il fatto che tali forme sono «vere» unicamente sul piano di riferimento che è loro proprio, ma che, dal punto di vista ontologico, sono prive di sostanza.
Come dicevamo dianzi, il tempo può diventare uno strumento di conoscenza nel senso che basta proiettare una cosa o un essere sul piano del Tempo cosmico per rendersi immediatamente conto della sua irrealtà. La funzione gnoseologica e soteriologica di un simile cambiamento di prospettiva ottenuto tramite l’apertura verso i ritmi maggiori del tempo è messa in luce in modo ammirevole da certi miti che si riferiscono alla Mâyâ di Visnu.
Ecco uno di questi miti, nella versione moderna e popolare narrata da Sri Ramakrisna.
Un asceta illustre di nome Nârada si conquistò, con le sue innumerevoli pratiche ascetiche, la grazia di Visnu, tant’è che un giorno il dio gli apparve e gli promise di esaudire qualunque suo desiderio.
«Mostrami la potenza magica della tua mâyâ», gli chiede Nârada.
Visnu acconsente e gli fa cenno di seguirlo.
Poco tempo dopo, trovandosi su un sentiero deserto in pieno sole ed essendo assetato, Visnu lo prega di andare qualche centinaio di metri più in là, dove si intravede un piccolo villaggio, a prendergli un po’ d’acqua.
Nârada si precipita e bussa alla porta della prima casa che incontra. Gli apre una bellissima fanciulla. L’asceta la guarda a lungo e dimentica la ragione della sua venuta. Entra in casa e i genitori della ragazza lo ricevono con il rispetto dovuto a un sant’uomo.
Passa il tempo, Nârada finisce con lo sposare la ragazza, conosce le gioie del matrimonio e sperimenta quanto sia dura la vita del contadino.
Passano dodici anni e, dopo la morte di suo suocero, egli diventa proprietario della fattoria. Nel corso del dodicesimo anno, però, la regione è inondata da piogge torrenziali. In una notte il bestiame annega, la casa crolla. Sostenendo con una mano sua moglie, tenendo con l’altra i suoi due figli e portando in spalla il terzo più piccolo, Nârada si fa strada con difficoltà attraverso le acque. Il fardello, però, è troppo pesante, egli scivola e il più piccolo cade in acqua.
Nârada lascia gli altri due bambini e fa di tutto per ritrovarlo, ma è troppo tardi: il torrente lo ha trascinato via. Mentre è alla ricerca del piccolo, le acque inghiottono gli altri due figli e, poco dopo, la moglie. Lo stesso Nârada cade e il torrente lo trascina privo di sensi, come un pezzo di legno.
Quando sbatte contro una roccia e ritorna in sé, gli vengono in mente le sue disgrazie e scoppia in singhiozzi. All’improvviso, però, sente una voce familiare: «Figliolo! Dov’è l’acqua che mi dovevi portare? È più di mezz’ora che ti aspetto!».
Nârada gira la testa e si guarda intorno. Al posto del torrente che aveva distrutto ogni cosa vede i campi deserti, scintillanti sotto il sole.
«Comprendi ora – gli domanda Visnu – comprendi il segreto della mia mâyâ?».
È evidente che Nârada non poteva affermare di aver compreso tutto, però aveva imparato una cosa essenziale: ora sapeva che la Mâyâ cosmica di Visnu si manifesta attraverso il Tempo.
(Eliade, Immagini e simboli)