C’erano una volta un fratello e una sorella che si innamorarono l’uno dell’altra nel periodo in cui la ragazza viveva isolata nella capanna di pubertà. Qui il ragazzo andava a trovarla ogni notte. La madre, che aveva dei sospetti, scoprì sul corpo del figlio qualche macchia di quella medesima vernice con cui lei stessa spalmava ogni giorno la reclusa. Informò il marito, il quale, per evitare gli scherni degli abitanti del villaggio di cui era capo, decise, d’accordo con la moglie, di sopprimere il figlio. Mentre questi dormiva, lo pugnalò al cuore con un osso appuntito e poi, con la massima discrezione, ne annunciò il decesso. Il giorno seguente, il corpo fu sepolto in fondo a un burrone.
All’oscuro della morte del fratello, la ragazza si stupiva che non venisse più ai loro abituali appuntamenti. Riuscì a far confessare la sorella minore che le portava da mangiare. Poi, col pretesto che la sua reclusione era finita, insisté per avere i suoi abiti più belli. Così vestita e ornata di tutto punto, corse fino al burrone dove giaceva il corpo del fratello. Invano tentarono di trattenerla per un lembo della tunica; in un batter d’occhio se ne liberò e si gettò nel vuoto. Uniti per la morte, i due amanti esultarono: «Volevamo stare insieme e ora siamo uniti per sempre. In futuro, altri fratelli e altre sorelle faranno lo stesso».
Il padre ebbe dei rimorsi. Avrebbe voluto risuscitare i suoi figli decretando che la morte non sarebbe stata definitiva, ma i suoi consiglieri si opposero ed egli rinunciò al suo progetto. Tuttavia, essendo un potente stregone, fece perire i figli di coloro che non l’avevano approvato. Furono loro, questa volta, a battersi in favore della risurrezione.
«No – rispose il capo – i cadaveri dei miei figli si sono già decomposti e io non posso render loro la vita. D’ora in poi la morte sarà irrevocabile».
Questa è l’origine della stregoneria.
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Fratelli incestuosi fino alla morte – ecco chi sono i protagonisti del racconto. La loro congiunzione è irrevocabile o, per stare alla definizione di Lévi-Strauss, il loro è un «incesto congiuntivo» (da distinguere dal suo opposto, l’«incesto disgiuntivo» in cui i due fratelli, viceversa, decidono alla fine di separarsi e si rassegnano a celebrare delle «nozze esogamiche»).
Sul piano astronomico, i Klamath li identificano con la costellazione dei Gemelli – un fratello e la sua sorella gemella. «Quando appaiono, dicono, la sera a Oriente, il loro sguardo fa gelare l’acqua dei laghi (dicembre); in seguito, nel corso dell’anno, si innalzano nel cielo e annunciano l’arrivo della primavera». L’acqua gelata dei laghi invernali non è qui un dettaglio casuale. Si tratta, infatti, dello stesso lago ghiacciato in cui annegarono anche i «fratelli incestuosi» di un mito Wabanaki: vi annegarono ma per riemergerne tempo dopo sotto forma di colimbi, «che gettavano un grido misterioso: con questo aspetto [di colimbi] gli amanti salirono al cielo e diventarono la costellazione di Orione».
Per quanto, a prima vista, possa sembrarci paradossale, il Mito ci sta dicendo che i «colimbi incestuosi» erano i Gemelli prima di morire (a dicembre, in pieno inverno), per poi rinascere (a primavera) ma nel nuovo aspetto astrale: come la costellazione di Orione. Ci sta dicendo che i «Gemelli», con la loro congiunzione «letale», finirono per far ghiacciare le acque – per poi discioglierle solo a primavera, allorché il grido del Colimbo, di un altro Colimbo, «orfano della sua sposa», disgiunto da lei (la «stella rossa» del Toro, Aldebaran), annuncia tutti gli anni la levata in cielo del «cieco» Orione.
In entrambi i casi, a dicembre e all’inizio della primavera, il Colimbo si fa dunque garante dell’alternarsi delle stagioni o, come si vedrà nel mito Sanpoil che segue, garante della periodicità astronomica per eccellenza: quella del giorno e della notte, del sole e della luna.
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Un fratello e una sorella vivevano soli al mondo e il ragazzo andava a pescare per tutt’e due. Ma un giorno, per egoismo, si mise a mangiare sul posto tutto il pesce; arrivò perfino a nascondere le uova di salmone nei suoi gambali perché la sorella non le potesse trovare. Ma lei le scoprì nel fare le faccende di casa. Offesa dal comportamento del fratello, lo abbandonò e partì alla ventura, senza accettare le sue scuse né ascoltare le sue preghiere. Per cibarsi, raccoglieva resina commestibile e se la portava dietro in una specie di culla improvvisata. La resina si trasformò in un fanciullo che crebbe rapidamente. Ben presto il ragazzo fu in grado di pescare per la madre, ma era incapace di camminare e lei doveva sistemarlo ogni mattina in riva a un corso d’acqua. Un giorno ce lo lasciò per dimenticanza e, quando tornò, in ritardo, non trovò altro che un mucchio di resina.
La donna decise di fabbricare un altro bambino. Cominciò col confezionare cinque culle di canne intrecciate e le mise una sull’altra. Poi fece scoppiare una grossa pietra esponendola al fuoco; un frammento schizzò e andò a cadere nella prima culla, la bruciò e la attraversò passando nella seconda e poi nella terza. Raggiunta la quarta culla, la scheggia, ormai sufficientemente raffreddata, vi si fermò. La donna la travasò nella quinta e ultima culla dove si trasformò in un figlio con un unico occhio.
«Andrà bene lo stesso – disse la donna fra sé e sé, – avrà cura di me».
Il fanciullo si dimostrò buon cacciatore e buon pescatore, ma era stanco di stare solo e reclamò un fratello. La madre, mai a corto di inventiva, mise a cuocere sotto la cenere delle radici selvatiche. La prima che tirò fuori appena cotta era una femmina; non sapendo cosa farsene, la buttò via. La seconda era invece un bambino stupendo.
I due fratelli cacciavano e pescavano insieme. Un giorno vennero a sapere che da parte di certa gente si cercava di creare il sole e la luna, e decisero di presentarsi come candidati. Dissero addio alla madre. Se fossero riusciti non sarebbero certo ritornati, ma lei avrebbe potuto vederli nel cielo, uno di giorno e l’altro di notte.
Si presentarono al concorso e furono giudicati due bei ragazzi. Una donna-rospo che viveva poco lontano volle vedere i giovani stranieri. Uscì dalla capanna e orinò in direzione del cielo. Si mise a piovere e questo provocò un diluvio che spense tutti i focolari. I due fratelli non sapevano dove rifugiarsi. Videro il fumo che usciva dalla capanna della donna-rospo e entrarono. Dato che all’interno ardeva un bel fuoco, chiesero alla «zia» il permesso di scaldarsi.
Ma la donna-rospo rifiutò questo appellativo dichiarando che lei non aveva famiglia. Saltò su di una guancia del fratello più giovane e gli mise le braccia intorno al collo: «Prendimi come moglie», supplicò. Non ci fu modo di farla scendere e anche accostandosi proprio rasente al fuoco per bruciarla, il ragazzo non riuscì che a riempirle il dorso di vesciche.
Nel frattempo gli animali venivano messi alla prova perché servissero da sole e da luna, ma c’era sempre qualcosa che non andava: o c’erano troppe nuvole o faceva troppo freddo o troppo caldo. Nel ruolo del sole, il picchio rischiò di provocare una conflagrazione e tutti si dovettero rifugiare sotto l’acqua. La gru (o l’airone) produsse un giorno interminabile. Quando fu Coyote a tentare la prova, si mise a raccontare quello che vedeva dall’alto del cielo e tutti furono d’accordo sul fatto che la vita della gente non dovesse essere esposta a tanta indiscrezione.
Alla fine si fece appello agli stranieri.
«Va bene – disse il minore – io sarò la luna nonostante questo rospo che mi si è attaccato a una guancia; e tu, fratello mio, sarai il sole e brillerai di così vivo splendore che non si noterà che hai un occhio solo».
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Che questi due miti Sanpoil formino un gruppo, risulta anzitutto dalla complementarità che si osserva fra i simboli culinari in essi adoperati. Per giustificare il fatto che i morti non risuscitano e che la vita umana è soggetta alla periodicità, il primo dei due miti invoca il fenomeno della putrefazione. Invece nell’altro non se ne parla e il mito si attiene esclusivamente agli altri due vertici del triangolo culinario, il crudo e il cotto, di cui vengono sistematicamente analizzate le proprietà.
Come nel primo i morti non possono rivivere in quanto appartengono alla categoria del putrido, così un vivo non può continuare la sua esistenza se, come il primo figlio dell’eroina nel secondo mito, rimane nella categoria del crudo, rappresentata in quel caso dalla resina commestibile che la madre mangia direttamente dagli alberi e alla cui natura, dopo un’esistenza effimera, egli irrevocabilmente ritorna. In compenso gli altri figli provengono dalla cottura; ma la prima, troppo violenta, produce un risultato incompleto: il secondo figlio ha un occhio solo. E la cottura lenta sotto la cenere, interrotta troppo presto, dà un risultato imperfetto: la femmina che la madre butta via. Solo la cottura «al punto giusto» darà un risultato soddisfacente: un maschio, che il mito definisce «un bambino stupendo».
Dopo che il primo mito ha eliminato il putrido, il secondo, dopo aver eliminato il crudo, comincia col fare appello al fuoco terrestre o di cucina, considerato nel suo duplice aspetto di fuoco lento e fuoco vivo.
Per comprendere il modo con cui il mito formula questa opposizione, bisogna sapere che i Sanpoil chiamavano cottura «senza fuoco» quella a cui sottoponevano certi alimenti lasciandoli «stufare» per due o tre giorni in un forno di terra riempito di pietre riscaldate.
C’erano dunque per loro due tipi di cottura contrastanti in rapporto al fuoco. Ma essi ne praticavano altri, contrastanti in rapporto all’acqua, perché le loro tecniche culinarie includevano anche, da una parte la cottura per ebollizione o al vapore, e dall’altra l’arrostitura e la disseccazione sulla brace spinta o meno fino allo stadio della cottura ai ferri. Di conseguenza, volendo esaurire l’uso dei simboli culinari, era necessario che due personaggi nati rispettivamente dalla cottura col fuoco e da quella «senza fuoco» fossero mediati anche dall’acqua.
Questa interviene sotto due aspetti, proprio come il fuoco domestico. Prima l’acqua celeste suscitata dalla donna-rospo, la quale spegne tutti i focolari tranne il suo; ed è qui che gli eroi ritrovano quel calore tanto più indispensabile per loro in quanto dal calore sono nati. Questa prima acqua ha dunque una funzione distruttrice.
Il mito le oppone un’acqua terrestre e protettrice nell’episodio successivo in cui il picchio – signore del fuoco celeste e distruttore – provoca una conflagrazione che costringe la popolazione a rifugiarsi nell’acqua.
È perciò necessario che quattro termini formanti una specie di gruppo di Klein [cioè, un «quadrinomio», o un gruppo a struttura quadripartita]: fuoco terrestre e costruttore, fuoco celeste e distruttore, acqua terrestre e protettrice, acqua celeste e distruttrice, si organizzino in sistema e si pongano in equilibrio reciproco perché possa instaurarsi una periodicità empirica. E questa si oppone a una assenza utopistica di periodicità, allo stesso modo in cui si oppongono tra loro l’utopia di un matrimonio incestuoso, che si può concludere solo con la morte di entrambi i coniugi, e il contrario di un incesto sul piano alimentare (infatti l’eroe del secondo mito si distacca dalla sorella a tal punto da non voler più neanche darle da mangiare); tramite una vera e propria ri-creazione che utilizza i simboli metaforici della cultura, quella stessa assenza trova alla fine il suo sbocco in un ordine naturale retto dalla periodicità. Infatti, se è impossibile che i morti risuscitino e se è addirittura rivoltante che anche coloro che periscono nel fiore dell’età non tornino più in vita, il regolare alternarsi del sole e della luna, che scandisce col suo ritmo la durata ragionevole della vita umana, fornisce un termine medio fra queste due sorti.
Appare chiaro quale sia l’interesse dei miti Sanpoil. Con la duplice omologia che stabiliscono fra il piano alimentare e il piano sessuale da una parte, fra la periodicità biologica e la periodicità astronomica dall’altra, si ricollegano all’adiacente ciclo della nonna libertina. Ma, al tempo stesso, lo ritrasformano in due direzioni: una che riconduce al ciclo della Donna Colimbo ripresentando la relazione incestuosa tra il fratello e la sorella; l’altra che fa della periodicità biologica una funzione dell’avvento delle arti della civiltà di cui la cucina resta nei due casi il simbolo.
Infine, il primo mito che trasforma il secondo (o il contrario) e che utilizza il mitema dell’incesto congiuntivo (doppiamente invertito nel secondo mito per spiegare l’origine del sole e della luna), si ricollega sia al ciclo della Donna Colimbo in cui l’incesto ha una funzione disgiuntiva [il racconto si chiude infatti con la sopravvivenza del solo figlio dell’unione incestuosa, Aishísh, il quale piacerà e andrà sposo a molte donne, tutte straniere, estranee alla sua parentela], sia la trasformazione Wabanaki che, per mezzo del primo mitema, spiega la periodicità notturna invece di quella diurna con la scomparsa della costellazione di Orione.
In questo sistema di trasformazioni e permutazioni trova una sua collocazione anche il mito eschimese del cieco e del colimbo:
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Eskimo – Il cieco e il colimbo
Unici superstiti di un’epidemia, una vecchia, un nipote e una nipote non avevano altro di che vivere se non la caccia del ragazzo. Ma questa era tanto fruttuosa che la nonna si stancò di far seccare e di cucinare tanta selvaggina. Fu così che accecò il nipote. Ormai egli non poteva più cacciare. Le provviste però si esaurirono e si dovettero consumare anche quelle che erano completamente guaste.
Al ritorno della primavera, un orso si avvicinò alla capanna e il cieco, guidato dalla nonna, riuscì ad ammazzarlo. Ma la vecchia gli fece credere che aveva mancato la bestia. Mise da parte la carne fresca per sé e per la nipote, e continuò a nutrire il nipote di carne putrida. Gli dava anche da bere un’acqua inquinata.
Un giorno il cieco attaccò discorso con un colimbo. Questi si impietosì e lo immerse nell’acqua di un lago; il trattamento gli rese la vista. Una volta guarito, l’eroe annegò la nonna durante una partita di caccia al beluga. Poi decise, per se stesso e per la sorella, di prendere rispettivamente una sposa e uno sposo nel medesimo villaggio e tutti vissero insieme ricchi e felici.
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Qui, come si vede, non vi è incesto tra fratello e sorella, e il «vissero felici e contenti» con cui il mito si conclude, è un’esplicita dichiarazione a favore dell’«esogamia». Ma questo comporta insieme il capovolgimento della polarità del Colimbo, da malefico divenuto benefico [e, insieme, da femmina maschio].
L’inversione è confermata anche da un altro particolare: la trovata del fratello [del secondo mito Sanpoil] di nascondere le uova di salmone nei propri gambali per privarne la sorella, inverte quella della sorella che, nel ciclo eskimo del cieco e del colimbo, riesce a rifocillare il fratello affamato fingendo di mangiare il cibo e nascondendoselo invece dentro la sottoveste e stringendolo contro il corpo nudo. Che poi in questo modo essa commetta per un giusto fine una specie di incesto, sembra essere confermato dal testo del mito che usa per l’occasione il termine /uuinik/ imparentato con altre voci che richiamano il matrimonio.
Possiamo dunque constatare che tutta la parte settentrionale dell’America del Nord è teatro di una vasta permutazione. Dalla trasformazione Wabanaki all’estremità est si passa, all’estremità ovest, al ciclo della Donna Colimbo; poi di qui, risalendo verso nord, al ciclo della nonna libertina che conduce alla duplice trasformazione Sanpoil sull’origine della morte e su quella del sole e della luna. Continuando verso nord, si incontra il ciclo del cieco e del colimbo che si estende da ovest verso est, e alla fine ci riporta alla trasformazione Wabanaki. Però in questa parte estrema le cose si complicano a causa di una torsione supplementare.
Infatti, i miti eskimo, che fanno risalire l’origine del sole e della luna al suicidio o alla fuga di una coppia di fratelli incestuosi, potremmo dire che invertono sul posto il ciclo del cieco e del colimbo (in cui il fratello e la sorella contraggono unioni esogamiche) e nello stesso tempo si oppongono diametralmente alla trasformazione Wabanaki in cui, invece del fratello che cerca di sfuggire continuamente la sorella, troviamo due amanti che si uniscono nella morte e danno origine a una costellazione. A quel rapporto di trasformazione virtuale, che l’inventario degli stati intermedi ci ha permesso di cogliere tra gli stati estremi del gruppo, si aggiunge dunque, nelle regioni in cui questi ultimi si ricongiungono, un rapporto di trasformazione attuale.
(Lévi-Strauss, L’uomo nudo)