Lorenz – L’estinzione dei sentimenti

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La vita dell’uomo primitivo era dura e pericolosa. Come cacciatore e carnivoro egli dipendeva sempre dalla casuale cattura di una preda, era quasi sempre affamato e non aveva mai la sicurezza del proprio cibo; in quanto creatura dei tropici, che avanzava lentamente verso latitudini più temperate, egli deve poi aver sofferto gravemente del clima; e dato che le armi primitive di cui era dotato non gli conferivano alcuna superiorità sui grandi animali feroci dei suoi tempi, si deve concludere che egli vivesse costantemente in una situazione di allarme e di paura.

In quelle condizioni molti comportamenti che oggi consideriamo «peccaminosi» o perlomeno spregevoli rientravano in una strategia assolutamente giustificata e indispensabile alla sopravvivenza. La voracità e l’intemperanza erano allora virtù: infatti, una volta catturato un grosso animale, la cosa più saggia che l’uomo poteva fare era di riempirsi il più possibile di cibo. Né era peccato mortale la pigrizia: gli sforzi necessari per catturare una preda erano tali che non conveniva sprecare più energia di quanto era strettamente necessario. A ogni passo l’uomo era esposto a tali pericoli che voler correre un rischio inutile sarebbe stato un atto irresponsabile; la massima arciere-preistoricofondamentale era quindi quella di comportarsi con una prudenza estrema, che confinava con la vigliaccheria.

In breve, al tempo in cui furono programmati la maggior parte degli istinti che sono ancora dentro di noi, i nostri antenati non avevano bisogno di andare alla ricerca delle difficoltà dell’esistenza comportandosi in maniera «virile» o «cavalleresca», perché queste lo stringevano da ogni parte in modo quasi intollerabile. Era dunque assolutamente giusto che il meccanismo piacere-dolore, evolutosi nel corso della filogenesi, imponesse all’uomo il principio di evitare scrupolosamente ogni pericolo o ogni spreco di energia.

Le deviazioni distruttive che questo stesso meccanismo produce nelle condizioni di vita della civiltà attuale si spiegano in base alla sua costruzione filogenetica e alle sue due caratteristiche fondamentali: l’abitudine e l’inerzia.
Fin dalle epoche più remote i saggi dell’umanità hanno sempre riconosciuto, a ragione, che per l’uomo non è bene che troppo successo arrida alla sua tendenza istintiva a procurarsi il piacere e a fuggire il dolore. Ma già gli uomini delle grandi civiltà antiche avevano imparato a evitare tutte le situazioni caratterizzate da stimoli nocicettivi [ricettivi del dolore]; il che può portare a un rammollimento generale e spesso, addirittura, al tramonto di una civiltà.

Pure dai tempi antichi gli uomini hanno scoperto che l’effetto di situazioni piacevoli può essere aumentato mediante un’accorta combinazione di stimoli, e che un loro continuo alternarsi può impedire la desensibilizzazione derivante dall’abitudine; questa scoperta, fatta da tutte le culture più progredite, conduce al vizio, il quale tuttavia non sarà mai così deleterio per una civiltà quanto lo è il rammollimento generale. Finché uomini saggi hanno pensato e scritto, le loro esortazioni sono rivolte contro entrambi questi fenomeni, ma l’enfasi maggiore è stata sempre posta sul vizio.

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Con lo sviluppo della tecnologia moderna, e soprattutto della farmacologia, si cerca ora di favorire, più di quanto non si sia mai fatto in passato, la tendenza di tutti gli uomini a evitare la sofferenza. Il «comfort» moderno è diventato per noi così naturale che non ci rendiamo più conto di quanto ne siamo dipendenti. La più semplice delle domestiche si rivolterebbe indignata se le venisse offerta appena una camera col riscaldamento, l’illuminazione, il letto e il lavabo che sembravano invece perfettamente soddisfacenti a Goethe o persino alla duchessa Anna Amalia di Weimar.

Quando alcuni anni fa, a causa di un improvviso guasto a un grande impianto, New York mancò per alcune ore della corrente elettrica, molti cedettero seriamente che fosse giunta la fine del mondo. Anche quelli tra noi che sono più convinti dei lati positivi del buon tempo antico e del valore educativo di una vita spartana, cambierebbero idea qualora fossero costretti a sottoporsi a un intervento chirurgico così come veniva praticato duemila anni fa.

Grazie al sempre più completo dominio esercitato sul suo ambiente l’uomo moderno è andato incontro fatalmente a uno spostamento dell’equilibrio del suo sistema piacere-dolore nel senso di una sempre maggiore sensibilizzazione agli stimoli nocicettivi e di Barbier-pigriziauna sensibilità decrescente verso quelli che producono piacere.

La crescente intolleranza al dolore, abbinata alla diminuita forza di attrazione del piacere, fa perdere all’uomo la capacità di investire lavoro faticoso in imprese che sono remunerative solo a lungo termine. Ne risulta l’esigenza impaziente di soddisfare immediatamente ogni nuovo desiderio. Tale bisogno di gratificazione immediata viene purtroppo sfruttato con ogni mezzo dai produttori e dalle imprese commerciali, ed è strano che i consumatori non si rendano conto di quanto le «convenienti» vendite a rate rappresentino per loro una forma di schiavitù.

Per motivi facilmente comprensibili, l’impellente bisogno di una soddisfazione immediata comporta conseguenze particolarmente gravi nel campo del comportamento sessuale. Con la perdita della capacità di perseguire un fine a lungo termine vengono meno tutti i moduli comportamentali più differenziati del corteggiamento e della formazione della coppia, e questo vale non solo per i comportamenti sviluppatisi nel corso della filogenesi con il fine di mantenere unita la coppia, ma anche per quelle norme tipicamente umane che, nell’ambito della vita culturale, adempiono a una funzione analoga.

Il comportamento che ne risulta, e cioè l’accoppiamento immediato glorificato ed eretto a norma dal cinema di oggi, non può essere definito nemmeno «animalesco» dal momento che esso compare solo in casi eccezionali negli animali superiori. Lo si potrebbe forse definire «bestiale», se per «bestie» intendiamo quegli animali domestici in cui l’uomo, per facilitarne l’allevamento, ha «coltivato» la scomparsa di tutti i moduli comportamentali più altamente differenziati della formazione della coppia.

Poiché al meccanismo del sistema piacere-dolore è inerente la proprietà dell’inerzia, e quindi di determinare contrasti, l’eccessiva preoccupazione di evitare a ogni costo anche la più modesta sofferenza comporta, inevitabilmente, l’impossibilità di certe determinate disperazione-doloreforme di piacere che dipendono appunto da un effetto di contrasto. L’antica saggezza espressa da Goethe nella ballata Der Schatzgräber: «Settimana faticosa, festa lieta» minaccia di cadere in oblio. L’incapacità di sopportare qualunque dolore rende irraggiungibile la gioia.

Helmut Schulze ha fatto rilevare che, stranamente, né la parola né il concetto di «gioia» [Freude] esistono nell’opera di Freud. Egli, infatti, parla di godimento, ma non di gioia. Un uomo che arrivi stanco e sudato, con le dita rovinate dalle asperità della roccia e i muscoli indolenziti, in cima a una montagna impervia – dice Schulze – con la prospettiva di dover subito affrontare i pericoli e le fatiche ancor maggiori della discesa, probabilmente non prova godimento, bensì la gioia più grande che si possa immaginare. Può darsi che sia possibile il godimento senza pagarlo a prezzo di un duro lavoro, ma certo così non si coglie la divina scintilla della gioia.

L’intolleranza al dolore, fenomeno sempre più diffuso ai giorni nostri, trasforma i naturali alti e bassi della vita umana in una pianura artificiale, le onde grandiose del mare tempestoso in vibrazioni appena percettibili, le luci e le ombre in un grigiore uniforme. Crea, cioè, la noia mortale.
Sembra che questa «estinzione delle emozioni» minacci in particolare quelle gioie e quei dolori che derivano necessariamente dai nostri rapporti sociali, dai nostri legami col coniuge, con i figli, con i genitori, i parenti e gli amici. L’ipotesi espressa da Oskar Heinroth nel 1910 secondo cui «il nostro comportamento in famiglia e con gli amici, il modo in cui cerchiamo di procurarci l’amore e l’amicizia degli altri, sono processi largamente innati e che hanno radici nel lontano passato molto più di quanto comunemente si creda» ha ricevuto una chiara conferma dai risultati degli studi moderni di etologia umana.

La programmazione genetica di tutti questi moduli comportamentali altamente complessi fa sì che, oltre alle gioie, essi portino con sé anche molta sofferenza. «È errore assai diffuso, specialmente tra gli adolescenti, il credere che l’amore sia fonte soltanto di piacere», disse Wilhelm Busch. Il voler evitare ogni incontro col dolore significa rinunciare a una parte essenziale della vita umana.

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Questa evidente tendenza si somma pericolosamente agli effetti della sovrappopolazione. In alcuni gruppi culturali la volontà di bandire la tristezza a tutti i costi si esprime in maniera bizzarra e quasi macabra nell’atteggiamento di fronte alla morte delle persone care. Gran parte della popolazione nordamericana rimuove, in senso freudiano, l’idea della morte: il morto scompare improvvisamente, di lui non si parla perché così facendo si mancherebbe di tatto, e ci si comporta come se egli non fosse mai esistito. Più macabra ancora è l’abitudine stigmatizzata dal più feroce degli autori satirici, Evelyn Waugh, nel suo libro Il caro estinto, di abbellire il cadavere. Lo si trucca con ogni arte, e la buona educazione esige che si lodi con entusiasmo il suo aspetto leggiadro.

In confronto con gli effetti distruttivi che il diffuso rifiuto del dolore esercita sull’umanità più profonda degli individui, quelli prodotti da una altrettanto sfrenata sete di piacere appaiono quasi inoffensivi. Si sarebbe tentati di affermare che l’uomo della civiltà moderna è troppo esangue e annoiato di tutto per coltivare un forte vizio. Dal momento che l’abitudine a stimoli sempre più intensi determina il progressivo affievolirsi della capacità di procurarsi esperienze piacevoli, non fa meraviglia che le persone più manichini-shoppingannoiate della vita cerchino continuamente stimoli nuovi.

Questa «neofilia» interessa praticamente tutti i rapporti che l’individuo è in grado di stabilire con gli oggetti del mondo circostante. Chi è colpito da questa malattia culturale si stanca presto di possedere un dato paio di scarpe, un vestito o un’automobile; queste cose perdono ogni attrattiva, come la perdono l’amante, l’amico e persino la patria.
Molti americani, per es., quando traslocano, vendono a cuor leggero tutte le loro cose per comprarsene di nuove. Diverse agenzie di viaggio usano comunemente nella loro pubblicità lo slogan «to make new friends». Potrò sembrare a prima vista paradossale o quasi cinico quando affermo che il rimpianto provato dalle persone come noi nel buttar via un vecchio, fedele paio di pantaloni, o una pipa, scaturisce parzialmente dalle stesse fonti da cui hanno origine i legami sociali fra amici.

Ma quando penso ai sentimenti che provai nel vendere, dopo tanto tempo, la nostra vecchia automobile, alla quale eravamo legati da innumerevoli bellissimi ricordi di viaggio, debbo con chiarezza constatare che essi corrispondono qualitativamente a quelli che si provano di fronte all’accomiatarsi di un amico. Tale reazione, certamente assurda nei riguardi di un oggetto inanimato, è giustificata, e viene addirittura usata come test di ricchezza o di povertà di sentimenti, se ne è oggetto un animale superiore, per esempio un cane. Dentro di me, io mi sono allontanato da molte persone per averle sentite dire, a proposito del loro cane: «… e poi ci trasferimmo in città e dovemmo darlo via».

La neofilia è un fenomeno estremamente gradito ai grossi produttori e che, grazie all’indottrinabilità delle masse, si presta a essere sfruttato per guadagni in grande stile. Built-in obsoletion, ossia l’invecchiamento precostituito nell’oggetto, è un principio che riveste grande importanza nella moda delle automobili e dell’abbigliamento.

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In conclusione, vorrei ancora accennare alle possibilità di contrastare terapeuticamente la tendenza al rammollimento generale e all’estinzione dei sentimenti. Se le cause di questo processo sono facilmente individuabili, molto difficile è l’eliminarle. Ciò che manca, evidentemente, è l’ostacolo naturale superando il quale l’uomo si tempra, costretto com’è a sopportare il dolore per concedersi in seguito la gioia dell’affermazione e del successo. La maggiore difficoltà sta nel fatto che questo ostacolo deve avere un’origine naturale. Superare difficoltà artificialmente create non dà alcuna soddisfazione.

Kurt Hahn ha riscosso grandi successi terapeutici portando in riva al mare giovani viziati e stanchi della vita, e facendo loro prestare opera di salvataggio a persone che stavano per affogare. Molti dei giovani così trattati ottennero una vera guarigione, perché il fatto di essere messi alla prova agiva direttamente sulla sfera profonda della loro personalità.
Una via analoga è stata seguita da Helmut Schulze, il quale poneva i suoi pazienti in situazioni di estremo pericolo (egli parla di «situazioni limite»), nelle quali essi si Schleifer-kopftrovavano così drammaticamente di fronte al fatto che la vita è una cosa seria (per dirla in parole povere) che la loro follia svaniva del tutto.

Per quanto utili possano essere questi metodi terapeutici sviluppati indipendentemente da Hahn e da Schulze, essi non risolvono certo il problema generale: non è possibile infatti far naufragare un numero sufficiente di navigli per procurare a tutti quelli che ne hanno bisogno l’esperienza terapeutica di una prova da superare; e non è nemmeno possibile imbarcare tutti su alianti e spaventarli a un punto tale che si rendano conto di quanto, in fondo, è bella la vita.

Un modello di possibile guarigione durevole ci è offerto, stranamente, dai casi non molto rari in cui la noia derivante dall’estinguersi dei sentimenti ha portato a un tentativo di suicidio che ha lasciato dei postumi più o meno gravi.
Un professore di Vienna, che da molti anni insegnava ai ciechi, mi raccontò parecchio tempo fa di alcuni giovani che avevano perso la vista: essi non ripeterono mai più il loro tentativo di suicidio. Non solo continuarono a vivere, ma maturando erano diventati individui singolarmente equilibrati, direi felici. Un caso analogo è quello di una donna che da giovane aveva cercato di suicidarsi buttandosi dalla finestra e si era spezzata la colonna vertebrale: nonostante la sua grave lesione, essa condusse poi un’esistenza serena e dignitosa. Senza dubbio, è stato proprio il fatto di trovarsi di fronte a un ostacolo difficile da superare che ha restituito, a questi giovani disperati dalla noia, la consapevolezza del valore della vita.

Non mancano gli ostacoli da superare se l’umanità non vuole perire, e la vittoria su di essi è certamente abbastanza ardua da fornire a ciascuno di noi la soddisfazione della prova superata. Il rendere generalmente nota l’esistenza di questi ostacoli dovrebbe essere un compito educativo di non difficile realizzazione.

(Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà)