Farîdoddîn ‘Attâr – Mille scuse per non partire

Agli uccelli è giunta notizia che in Cina è piovuta dal cielo una piuma della Sîmorgh, e s’è andata a posare sui loro desideri. La sua «immagine» ha fatto il giro del mondo e adesso tutti ne parlano, e ciascuno se ne fa una sua propria idea, e desidera di conseguenza. Sicché, quando gli uccelli si radunano per discutere la questione Mahmoudi-Simorghdell’«identità» della Misteriosa Mandante della Piuma – non è forse una per tutti, e allora com’è che a ciascuno di noi si mostra con un volto differente? – ecco, subito sorgere i problemi.
C’è tuttavia un modo per risolverli. Così perlomeno dice l’Upupa dinanzi a tutta l’assemblea: «Un modo c’è. Si tratta di metterci in viaggio, e di andare noi da Lei».

Andare, è sottinteso, ciascuno appresso alla sua «piuma», ciascuno al seguito della sua «principessa immaginale», ciascuno a rispondere al suo «richiamo d’amore»: ciascuno a rincorrere, come Orlando, la sua Angelica «differenza», o come Dante, la sua propria individuale Sposa. Perché, alla fine, ci ritroveremo comunque tutti là, tutti dinanzi alla Porta del Castello della Sîmorgh. Tutti al cospetto di una sola Madonna. Tutti – in totale povertà – di fronte alla Forma più Vuota della Ridondanza che ci domina. Di fronte alla Ridondanza Pura – alla «maestosità» del puro ripetersi della maestà della Donna. Il che è come dire in un altro dialetto: dell’Arkhé.

Quando è dunque l’ora di mettersi in viaggio, l’ora di partire alla volta del proprio «inizio» (arkhé vuol dire, insieme, «inizio, principio», ma anche «comando, ordine»), quando è l’ora, proprio l’ora di andare a esplorare la «dominazione» che ci è piovuta sulla testa dal cielo, ecco – quando è il momento – gli uccelli recalcitrano, trovano mille scuse…
Oh, sapessi quanti millantatori ho sentito cinguettare! Dicevano: «farò, andrò, diventerò…», e poi non sono andati da nessuna parte. Quelli, in quell’ora della mia vita, furono uccelli di malaugurio.

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Amir-Simorgh

Tutti gli uccelli presero ad accampare, incoscienti, scuse e pretesti, dando voce alla propria ignoranza, e chi tacque molto confabulò dietro le quinte. Se enumerassi di ciascuno di essi le ragioni, finirei per dilungarmi in un discorso interminabile, e perciò mi basti dire che tutti gli uccelli accamparono insulsi pretesti.

Come avrebbero potuto simili creature giungere fino alla Fenice? Chiunque desiderasse farlo realmente, dovrebbe, da uomo, ritrarsi dall’esistenza. Chi non ha nel suo nido almeno trenta chicchi, è preferibile che neppure parli di questo viaggio, a meno che non si tratti di un folle. Se non hai gozzo neppure per un chicco, come potresti diventare commensale della Sîmorgh? Se un sorso di vino ti atterra, o prode, come potresti berne una botte intera? Se non possiedi neppure la forza di un atomo, come potresti unirti al sole? Se affoghi in una minuscola goccia, come potresti riemergere dagli abissi sino alla superficie del mare? Perché è il mare che si tratta di attraversare, non un torrente; non è impresa, questa, che si addica a un impuro qualsiasi.

Tutti gli uccelli, a quel punto, si accalcarono intorno all’upupa, così interrogandola: «O tu che ci precedi nella guida, che vanti eccellenza e primato! Noi che siamo una turba di deboli e d’inetti, privi di penne e di ali e di corpo e di spirito, come potremo giungere fino alla nobile Sîmorgh se non in virtù di un miracolo? Quale relazione può esistere tra noi e lei? Illuminaci tu, non potendo noi ciechi scoprire segreti. Se davvero esistesse un Simorgh-in-volorapporto tra noi, non dovrebbe sorgere in noi il desiderio di partire alla sua ricerca? Ma lei è Salomone, e noi nient’altro che miserabili formiche: considera attentamente il suo rango e poi commisuralo al nostro. Una formica precipitata nel fondo di un pozzo può forse giungere sino alla Sîmorgh, l’eccelsa, unicamente contando sulle proprie forze? E perché mai una sovrana dovrebbe accettare l’amicizia di un miserabile?».

L’upupa a loro così rispose: «O inconcludenti, da cuori a tal punto inariditi come potrà stillare autentico amore? Miserabili creature, fino a quando durerà la vostra ignavia? Passione e pavidità non possono coesistere, e chiunque aprì gli occhi all’amore andò a giocarsi la vita a passo di danza.
Sappiate che, quando la Sîmorgh, quale sole splendente, mostrò dietro un velo il suo volto, proiettò sulla terra ombre infinite che poi contemplò col suo purissimo sguardo. Fece dono al mondo della sua stessa ombra, da cui sorsero incessantemente infiniti uccelli. I differenti volti degli uccelli del mondo non sono che il volto della bella Sîmorgh: sappiatelo, o ignari! Solo riconoscendo una simile verità, potrete comprendere la relazione che esiste tra voi e quella augusta presenza, ma poi guardatevi bene dal divulgare un simile segreto.

«Chiunque abbia conosciuto la Sîmorgh, non può non naufragare in lei, ma non vogliate affermare che lei è Dio. E chi sappia così trasformarsi, non diverrà Dio, ma si inabisserà in lei senza fine. Colui che naufraga, muta forse sostanza? Ma questo non è discorso accessibile a tutti. Ora che sai di chi tu sei l’ombra, sei libero da vita e da morte.

«Se la Sîmorgh non si fosse mostrata, mai avrebbe proiettato la sua ombra e nessun’ombra sarebbe mai sorta sulla terra, essendo ogni ombra apparsa sin dal principio là ove lei dimora. Se non hai occhio per la Sîmorgh significa che il tuo cuore non è simile a specchio. E infatti, non potendo sguardo umano contemplare una così divina bellezza né sostenere tanto fulgore né giocare all’amore con un simile prodigio, lei nella sua infinita grazia volle creare per noi uno specchio, che ha sede nel cuore. Lì dunque guarda, o veggente, se desideri contemplare il suo volto!».

(Farîdoddîn ‘Attâr, Il Verbo degli uccelli)

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piuma-volante

Al di là della mia e della tua piuma, al di là di tutte le forme immaginali dei nostri desideri… non c’è che la Pura Ridondanza della maestà della Sîmorgh, nient’altro che la Forma Vuota dell’eterna Ripetizione con cui la Maestosa ci «domina».
Non è dio, ci tiene a precisare l’Upupa. Né tantomeno dio diventa, nessuno di noi, solo perché s’è immerso negli abissi della sua fascinazione. Ad andare dietro la Sîmorgh, ci si perde – ecco tutto. E poiché l’intuiscono, gli uccelli si ritraggono: capiscono che non c’è nessun premio alla fine del viaggio.

L’impresa è ai limiti della follia: non si distingue più se è «mistica» raffinata o «idiozia» allo stato brado.
Ma se è follia, è Lei, la Sîmorgh, che ce l’ha suscitata. Perché, se non si fosse Lei a noi svelata… non saremmo questa genia di uccelli che genialmente siamo, noialtri «idioti» umani. Geniali, a volte, fino al punto di andare noi da Lei, noi a naufragare in Lei, andare – come il salmone, controcorrente – alla volta del nostro «inizio»… andare di nuovo a bagnarci negli «umori» della nostra infanzia, ancora nelle acque della nostra stagione Gleizes-donna-guanto-neropresignificante…

Vecchio, rimbambisci! è un ordine, un imperativo, e anche il nome della pianta miracolosa – letteralmente, «torna bambino» e dimentica nomi e cognomi, dimentica i luoghi e le tue passioni, dimentica tutta la tua vita e… questo è quanto Gilgameš apprese a dottrina da Utnapištim – pardon, stavo per dire: da Mastro Giaguaro.
Apprese il «segreto del fuoco», come riaccendere cioè la sua immaginazione spenta al tempo del «diluvio universale».

L’impresa è troppo ardita, ma se non si fosse Lei a noi svelata… se non ci avesse investiti la Sîmorgh di una sua piuma, se «la più bella delle forme» del Me (Stessa) non fosse venuta, Lei a noi, Lei a mostrarci il «miracolo»… no, non saremmo queste «macchine di desiderio» che siamo. Non saremmo i folli che dobbiamo essere perché questa è la Forma Umana della Ridondanza. Ripetere l’atto di soggezione alla Madonna – ciascuno alla Mia Donna.
Al di là della mia e della tua Piuma, c’è la Ridondanza del Me (Stessa), di cui la Donna non è che la Forma Umana Arcaica – la prima «forma culturale», la prima «viseità» che ci vela il Buco Nero del Potere che ha potere su noialtri uccelli, di questa genia un po’ speciale che corre dietro a… fino a perdersi, fino a rimbambirsi e a dimenticare di non avere più le ali…