È da qui che partiremo – dallo schema che del linguaggio ci dà l’informatica.
A un polo ci sono unità d’informazione indipendenti nonché probabili, che ci impegneranno poi in delle scelte.
All’altro polo, cosa c’è? – c’è quello che gli informatici designano come rumore.
Già su questo siamo diffidenti, e a ragione. Noi non facciamo informatica. Quindi è giusto essere in posizione diffidente. Sappiamo che, quando gli informatici dicono rumore, è di un rumore molto, molto particolare che parlano.
Va comunque da sé che essi oppongono all’informazione un rumore, che si presume essere non-informativo, o contenere il minimo d’informazione, del tipo interferenza di emissione. Il rumore di una bestia che si nasconde nella boscaglia rimane tuttavia un rumore pieno di informazioni.
Possiamo considerare il polo-rumore come l’opposto del polo-informazione massima.
In questo schema la ridondanza è presentata come la diminuzione di un’informazione teorica, di un’informazione presunta preliminare di diritto.
Ma allo stesso tempo appare altro. La ridondanza è il solo mezzo per lottare contro il rumore. Cioè: per salvare l’informazione dalla sua caduta, dalla sua degradazione nel rumore.
Diminuire l’informazione teorica assoluta e lottare contro il rumore: perché queste due funzioni sono legate? Perché niente impedirebbe all’informazione teorica assoluta di cadere nel rumore puro e semplice, se non ci fosse questo regolatore della ridondanza che assicura la lotta contro il rumore diminuendo l’informazione teorica assoluta.
Abbiamo dunque uno schema, un primo schema di ridondanza, dove metteremo in alto informazione teorica massimale, in basso rumore – e tra i due ridondanza.
Scrive André Martinet: «La presenza della ridondanza è un mezzo per permettere la trasmissione dei segni», tramite la serie di approssimazioni «fonetiche» e «sintagmatiche», tramite cioè le ripetizioni del Significante (fonemi, morfemi, ecc.).
A questa Martinet aggiunge poi un secondo tipo di ridondanza. Dice: «La ridondanza non è solo un mezzo per permettere la trasmissione dei segni. Niente impedisce che costituisca essa stessa un segno».
Ecco dunque che la ridondanza costituisce essa stessa un segno, la ridondanza non come regolazione nella trasmissione dei segni, come processo regolatore della trasmissione dei segni, o della trasmissione di un’informazione, ma essa stessa un segno.
Perché? Martinet dice: «Non fosse altro che perché gli utenti possono ricercare la ridondanza per se stessa». Dunque gli utenti possono ricercare la ridondanza per se stessa. «Mezzo d’espressione per l’individuo, di manifestazione di un consenso per il gruppo. Distingueremo dunque una funzione principale di lotta contro il rumore, senza la quale ogni comunicazione sarebbe impossibile (è il nostro primo caso di ridondanza), e poi degli usi secondari lasciati a disposizione dei soggetti: mezzo d’espressione, di azione sugli altri, d’incantesimo, ecc.».
Ridurre il secondo tipo di ridondanza a un uso secondario del primo forse è giusto dal punto di vista informatico, ma noi non siamo sicuri di avere a che vedere con l’informatica. Posso già dire che forse non è giusto da tutti i punti di vista, in particolare perché risulta far parte di sistemi di segni molto diversi. Le ridondanze soggettive di risonanza e le ridondanze significanti di frequenza, non è affatto sicuro che facciano parte dello stesso sistema di segni. Non è affatto sicuro che le une siano un semplice uso secondario delle altre, e poi… c’è anche una cosa che mi disturba, che può disturbarci, stavolta non nel secondo tipo di ridondanza, ma in quello che ci viene detto dall’informatica divulgativa sul primo schema.
Accenno per ora a cose molto vaghe, capite bene che tutto quello che voglio dire sulle ridondanze è che non sappiamo ancora cosa siano tutte queste ridondanze. Non ci disturba ancora niente, per il momento.
È semmai sulla natura informativa del linguaggio che c’è molto da dire. Ci sono dei linguisti che hanno già detto molto. È curioso comunque, perché l’idea che il linguaggio sia per natura informativo, è un’idea che, in un certo senso, corrompe molto anche noialtri. Penso a un esempio come quello di Sartre che ha sentito a un certo punto il bisogno di dire (credo che oggi non lo direbbe più) cosa distingue il linguaggio e, per l’esattezza, la poesia o la letteratura. Diceva: «Letteratura e poesia iniziano quando ci sono delle informazioni». Anche Barthes l’ha detto a un certo punto. È curioso affermare questo.
Ma cosa ha corrotto completamente, compromesso, putrefatto il problema dei rapporti linguaggio-potere? La cattiva scelta in cui siamo stati lasciati, cioè la concezione stessa di potere che ci è stata proposta.
Finché c’è stato detto: «il linguaggio è infrastruttura o ideologia», eravamo piuttosto seccati. Eravamo seccati per il linguaggio. Lo eravamo finché eravamo presi in questa alternativa, anche se era presentata nel modo più fine del mondo. A volte non era presentata nel modo più fine del mondo, ma in fondo più era presentata in modo fine, più andava male. Perché capivamo che la questione del linguaggio è molto complicata.
Il linguaggio non è infrastruttura. No, non può essere infrastruttura. Il linguaggio non produce niente. Produce parole, non produce beni. Nessun carattere dell’infrastruttura coincide con il linguaggio.
Allora ci siamo chiesti se fosse sovrastruttura. In altre parole, è l’apparato statale che decide il linguaggio? Difficile da dire.
Come diceva Stalin: «No, abbiamo cambiato tutto tranne il russo, comunque non molto. Certo, lo abbiamo perfezionato. Ma entro certi limiti».
Dunque non è l’apparato di Stato. Non si cambia il linguaggio come si cambia una costituzione o una polizia. Allora è ideologia? «No – diceva. – Può essere il veicolo delle ideologie, ma veicola anche altre cose». Anche l’ideologia non va bene.
Allora cos’è il linguaggio?
Conviene seguire il suo testo perché è breve e sorprendentemente lucido. Il testo di Stalin sulla linguistica dice: «Compagni, vi sbagliate. Alcuni di voi dicono che il linguaggio è infrastruttura, e hanno torto, non sono ragionevoli. Altri dicono che il linguaggio è ideologia, e che ce n’è uno del popolo, un linguaggio proletario, e uno borghese. Io vi dico di no. Non capite bene il problema, compagni».
E Stalin arriva a dire che il linguaggio è come il bene comune di una nazione e assicura la comunicazione delle informazioni. Gli conveniva così, ovviamente. Implica una certa concezione del potere…
In quanto a noi, potremmo provare a dire che il linguaggio è sempre stato un sistema dell’ordine, e non dell’informazione (sono ordini che vengono dati e non informazioni che vengono comunicate), ma con ciò avremmo l’impressione di dire una cosa ovvia, scontata.
Basta accendere il telegiornale e che cosa riceviamo? Non riceviamo in primo luogo delle informazioni, ma degli ordini. A scuola, cosa succede? È scontato. A scuola i bambini non ricevono delle informazioni. A scuola si mette il linguaggio nella bocca dei bambini esattamente come si mettono pale e picconi nelle mani degli operai.
Con questo non si vuol dire che il linguaggio sia un’infrastruttura, ma che attiene al campo degli ordini. Quando la maestra riunisce i bambini, non è per informarli dell’alfabeto. È per insegnare loro un sistema di ordini. La stessa sintassi è un sistema d’ordine, un sistema di comando che permetterà o costringerà gli individui a formare enunciati conformi agli enunciati dominanti. E la scuola serve soprattutto a questo.
Quindi il linguaggio dev’essere in primo luogo concepito non in termini d’informazione, ma in termini d’ordine. Non comunicazione di informazioni, ma trasmissione di ordini.
Questo implica evidentemente per noi, è ciò che chiamo ovvio e facile, la ricerca di un’altra concezione del potere, perché in effetti le osservazioni di Stalin sono molto giuste. Non c’è qualcuno che decide della sintassi. Ma forse il potere è tutt’altra cosa rispetto alla proprietà di individui o gruppi in un dato momento.
Per ora diciamo semplicemente che il linguaggio è una formalizzazione dell’espressione. Non tutte le espressioni sono relative al linguaggio. Il linguaggio è una formalizzazione di un’espressione particolare che ha per funzione la trasmissione degli ordini in una società.
Sappiamo che questo implica dare del potere una concezione diversa da quella marxista. In questo senso il linguaggio, compresa la sintassi, è – non si può neanche dire strumento – è elemento e componente del potere. Dunque, in questo senso non è informativo.
Eppure è informativo sotto certi aspetti. Ossia, dà il minimo d’informazione e guida il minimo di scelta necessaria alla buona comprensione delle informazioni relative, delle informazioni limitate, relative agli ordini che vengono dati.
Va da sé che di fatto se qualcuno per strada grida: «al fuoco!», non conviene che i bambini capiscano «al gioco!». C’è dunque un’informazione, e ci sono delle scelte, e delle approssimazioni, che però sono relative agli ordini comunicati attraverso il linguaggio.
Sapete che Lewis Carroll scriveva delle lettere alle bambine, mai ai bambini. In una di queste lettere, molto bella, di Lewis Carroll a una bambina, c’è una situazione che risponde bene a ciò di cui stiamo parlando.
Il professore tiene la sua lezione in un ambiente raffinato. Il suo posto è in fondo al giardino di una casa di lusso. C’è un primo domestico che ripete la sua domanda. Ognuno sa che le domande di un professore sono ordini. Quando un professore chiede quanto fa due più due a un bambino in preda al panico, è ovvio che non chiede un’informazione, ma dà un ordine. Mi direte: «È necessario che il bambino sia stato informato prima». È stato informato sì, ma attraverso un sistema d’ordine precedente. È sempre l’informazione che presuppone l’ordine, e non viceversa. Ordine non nel senso di organizzazione o di ordinamento, ma di comando.
Dunque, un primo domestico ripete la domanda del professore. Un secondo domestico ripete la domanda ripetuta dal primo. Poi un terzo, e così via. E per sottolineare la gerarchia che scende lungo il linguaggio, l’allievo è all’altro capo del giardino. E da qui rimanda la sua risposta.
Nella lettera di Lewis Carroll, la domanda dunque «scende» e man mano è completamente trasformata visto che il primo domestico è completamente sordo. La domanda parte con quanto fa due più due. Il primo domestico la deforma e la domanda cambia, il secondo di più, e il terzo ancora di più.
L’allievo, a cui la domanda giunge totalmente alterata, risponde angosciato e la risposta «risale».
C’è così tutto un sistema in cui ogni volta si fanno le scelte sbagliate, scelte che però sono obbligate da un sistema d’ordine e di comando. La risposta d’obbedienza «risale» ed è sempre più sbagliata. Le condizioni entro cui passa l’informazione sono dunque di ricezione di ordini e comandi.
Possiamo ritornare allo schema e alle sue «teste»: informazione massima teorica, rumore (che disturba tutto: l’emissione e la ricezione dell’informazione), e ridondanza (in lotta contro il rumore permette di sconfiggere il rumore, di diminuirlo a costo di diminuire l’informazione massima teorica). Si accompagnano bene insieme perché, senza ridondanza, l’informazione massima teorica sarebbe un rumore.
Noi stiamo cercando, in modo del tutto sornione, di sostituirvi un altro schema: gli ordini-comando. Capite subito dove voglio arrivare, non so ancora bene come, ma sento… no, noi tutti sentiamo che gli ordini-comando (non voglio negare che sono cose diverse), ma contengono, comprendono, e arrivano perfino a essere la stessa cosa delle ridondanze.
Si dirà che un ordine non dovrebbe essere ripetuto. Ma se poi di fatto lo è, è perché l’ordine è già ridondante di per sé. Un tipo di ridondanza è proprio la forma dell’ordine in quanto tale, è la forma del comando.
In generale, se davvero è così, non sarebbe allora più il caso di stupirsi. Non ci sarebbe da stupirsi se un ordine venisse ripetuto, se a essere ripetuta è la forma in cui si dà un ordine, non fosse altro che per mostrare di aver capito bene quando mi si dice: «Dai, va’ a fare a questo». Io dico: «Sì, vado a fare questo». Ridondo. Ma cosa ridondo? Ridondo ridondanza. È l’ordine stesso: «Va’ a fare questo!». «Al gioco!», no: «al fuoco!», no: «aprite il fuoco!». È «aprite il fuoco» che deve scendere, ed essere ripetuto lungo la catena della gerarchia. Allora il generale dice: «Aprite il fuoco!», o «Preparate le armi!», o non so cosa. Il capitano a sua volta dice: «Preparate le armi!». E dopo di lui il maresciallo dice: «Preparate le armi!», e così via sempre più giù fino ad arrivare a quei poveracci che preparano le armi.
Ma se l’ordine è stato ripetuto è perché in se stesso già ridonda. L’ordine, il comando è una forma che la ridondanza porta con sé.
Forse.
Avevamo dunque detto che il linguaggio non è tutto informazione, ma ordine e comando. E stavamo dicendo: l’ordine puro, l’ordine-comando allo stato puro, è ridondanza allo stato puro, è la ridondanza assoluta.
Ed è questa che mettiamo in alto nel nostro schema (in luogo dell’informazione teorica massima). La ridondanza è la stessa cosa dell’ordine. E, ancora una volta, se l’ordine si fa ridondanza, se è ripetuto è perché è in sé ridondanza.
Dunque la ripetizione come condotta nei confronti dell’ordine sarebbe solo una conseguenza della ridondanza come identica in natura all’ordine. Non è sicuro, ma noi sentiamo che è così. Non possiamo farci niente.
Qui così, tra i due (unicamente per fare uno schema equilibrato, vedremo poi chi c’è all’altro polo) metteremo l’informazione che è sempre relativa.
Se è vero che la ridondanza è la Forma, la forma assoluta dell’ordine, diremo che l’informazione relativa è il contenuto limitato di un ordine in quanto distinto da un altro ordine. B-A-BA non è lo stesso di C-A-CA. C’è una informazione relativa. Vedete, la forma dell’ordine è la ridondanza assoluta. Allora ne consegue un’informazione relativa e in effetti, se l’ordine non comunicasse un’informazione relativa, «fa’ questo e non quello!», saremmo nella situazione dell’allievo e del professore di Lewis Carroll con l’ordine che discende e un’esecuzione, un’obbedienza completamente differenti. L’informazione è solo la condizione relativa nella quale l’esecuzione dell’ordine può o deve corrispondere all’ordine stesso.
È come un’inversione dello schema dell’informatica. Anzi peggio, è un campo del tutto differente, ma allora… qui, in terza posizione, che ci posso mettere? È evidente, ed è evidente che funziona così. Non c’è affatto il rumore, che è un’astrazione informatica. C’è il silenzio.
Cosa significa? Perché introdurre qui il silenzio?
Il silenzio, è ambiguo il silenzio. Perché può essere lo stato di colui che obbedisce, nel qual caso però si tratta di un silenzio di linguaggio, si tratta di un silenzio del linguaggio stesso, compreso nel linguaggio stesso, ed è quello che avviene tra la ricezione dell’ordine e la risposta all’ordine.
Il capitano dice: «Arma il tuo fucile!». Poi c’è il silenzio occupato da un rumore di fucili, e poi il soldato dice: «Pronto, capitano!».
Ma oltre a questo c’è anche un altro silenzio. Un silenzio che consiste in qualcosa di molto bizzarro: consiste in una fuga fuori da tutto questo. Lo conosciamo questo silenzio.
Ecco, quando il capitano dice: «Pronti, fuoco!»… niente. Il silenzio. La fuga silente dal linguaggio e dai suoi comandi…
(Deleuze, dalle Lezioni di Vincennes)
***
La questione è mal posta. La questione del rapporto tra potere e linguaggio nasconde un pregiudizio: si prende il lusso, cioè, di trattarli come fossero due «cose» distinte e separate – il che implica una riduzione (più o meno «marxista») del potere alla sola «proprietà dei mezzi di produzione», una riduzione economicistica, non fosse altro che perché dà per scontato ciò che invece non lo è: che il linguaggio sia, cioè, una cosa a parte, un infra o un sovra della struttura (la proprietà dei beni). Una concezione del «potere» nudo di segni (i quali, non si sa come, starebbero sotto o sopra la «proprietà»). Senza volerlo, è un modo di dire che il potere è insignificante.
Perciò, posta in questi termini – nei termini di un rapporto tra potere e linguaggio, – la questione non poteva non «seccare» il nostro compianto Deleuze. Seccarlo per il linguaggio, che egli vedeva così costretto all’angolo, a fare all’incirca la parte di Cenerentola.
Posta così, la questione non poteva e non può che fuorviare: in nessun caso essa apre alla possibilità di comprendere che, dici linguaggio o dici potere, stai nominando due «approcci» a un solo fenomeno – al fenomeno «Uomo». Di fronte alla domanda: quale rapporto c’è tra potere e linguaggio?, a nessun «alunno» verrà infatti in mente di prendere in considerazione che il potere è potere perché «parla», o che l’Es, solo perché «parla», è potere sull’Uomo. Eppure, l’Es non produce nessun «bene», e non è proprietario di nessuna «cosa».
E come il potere è potere perché parla, così il linguaggio è linguaggio perché può. Ma «può» che cosa?
Il nostro compianto Professore, non importa dove va a parare, non importa se ha imboccato o no la «retta via», ma su questo non ha dubbi: il linguaggio può comandare, dare ordini, mettere in riga, ecc.
Con ciò, ovviamente, non ha risolto, e lui lo sa, nessun problema. Ha solo sciolto, e in qualche modo assolto, il Problema (del fenomeno «Uomo») da un intoppo «formale» in cui s’era, da tempo, incagliato.
E, dunque, una volta disincagliato, il Problema Umano, il nostro piccolo grande Problema, ha bisogno di essere «rinfrescato» di nuove domande, di nuove perplessità – ha bisogno, insomma, del nostro «sudore e sangue» per essere ricominciato. Ha bisogno di essere vissuto attraverso altre possibilità linguistiche, altre «formule» che ripetendola rinnovino la Forma.
Quale Forma? – La Forma (tautologica) della Ridondanza, della Ripetizione dell’Inattuale Puro che eternamente domanda di poter essere in atto. Non Infinito in atto, ma Infinita Possibilità di attuare l’Indeterminato, lo Sconosciuto che ridonda, che si ripete, e parla, e può così darsi ancora un’altra chance…
Dunque, è ora di riformulare la Forma – è sempre l’ora d’attuare l’Inattuale, è sempre il solito attendere l’Insolito… come se la parola, infine, potesse stanarlo… di nuovo ripetere l’«arcaico» gioco di prestigio, un nuovo abracadabra e via… si ricomincia.
Ma da dove?
Il nostro compianto Professore ricomincia da qui: riformulando la questione nei termini di un altro rapporto: del rapporto tra informazione e ridondanza.
Non dunque dal (falso) rapporto tra potere e linguaggio, ma dal rapporto (interno al linguaggio-potere quale unico «fenomeno») tra informazione e ridondanza degli ordini-comando…