Evtušenko – Prima dell’incontro

stazione-amanti

Gli innamorati si incontravano,
come usa,
vicino ai monumenti,
o nei pubblici giardini,
o davanti alle vetrine;
solo io, nel mio vagabondaggio
senza scopo, fra tanti incontri di coppie
ero solo.

Camminavo
deciso, come aspettato da qualcuno
da qualche parte,
finché a un tratto mi fermai:
ma dove andavo?
Forse, andare a teatro?
Sarà tardi, per il teatro.
A casa?
Non è mai tardi, per andare a casa…

E così mi diressi
alla stazione,
e allo sportello
a stento emergendo incolume dal tumulto,
comperai un biglietto
singolo
per un luogo qualsiasi,
e presi posto
in un trenino qualsiasi
dei sobborghi.

bambini-in-treno

Il treno si mosse.
Si stava stretti, nel vagone.
Io mi trovai addossato,
incollato alla parete.
Di là dal finestrino, innumerevoli piccole luci
butteravano la notte.
Accanto a me,
un vecchietto in pince-nez
sonnecchiava,
la sporta sulle ginocchia
con i vassoi di cartone dei ravioli.
Due donne si scambiavano
giudizi e sentenze
a nessuno facendo mistero dei loro crucci,
mentre, in continuazione, gente entrava,
gente usciva.

A una stazione,
anch’io discesi.
Camminavo,
senza meta,
e la notte accerchiò
da ogni parte
con cartelli ammonitori
– SCALINO ALTO ATTENZIONE! –
il marciapiede sotto la pensilina
cosparso di gusci di semini.

pensilina-Pisa-stazione

Dal marciapiede
balzai direttamente
su un sentiero di campagna.
Lontano, sopra le traversine
vibrò nell’aria
il suono d’una sirena.
In una dacia, chissà dove,
qualcuno mise un disco
della Baglànova,
«Samara, piccola città».

Un addetto alle riparazioni,
accovacciato accanto a un focherello
si riscaldava,
e intanto mescolava acqua dentro una gavetta.
Passò un deviatore,
battendo sui binari,
dondolava il fanale
che egli reggeva in una mano.
Sopra il fiume, qualcuno cantava a voce bassa «Katjuša»
dall’alto di un ponticello di assi
senza parapetto.

locomotive

Io mi ero fermato.
Immobile,
ascoltavo le locomotive
come se stessi parlando con il mondo intero.
E il mondo,
sulle sue spalle prendendo la mia tristezza,
a me partecipava
la sua allegria:
allegria di luci che si accendono alle finestre,
felicità di ritrovarsi,
il rombo di vibrate rotaie
sempre più vicino, il primo
rabbrividire dei rami.

Il mondo mi guardava
con uno sguardo aperto.
E a me davanti esso si levò
come il mio destino.
Da qualche parte,
vicinissimo,
a pochi passi soltanto,
in quel mondo,
stavo per incontrare
te.

(Evtušenko, Distacco)

***

Man Ray-bocca

Se «l’iniziale dell’inizio» ti pare un arzigogolo astratto del Filosofo, allora, se accetti un consiglio, fa’ come me: chiama il Poeta e digli, per favore, di andare alla lavagna a risolvere l’esercizio. Perché lui, l’esercizio, anche se non l’ha capito (ma ne dubito), lo sa comunque disegnare nella sua lingua geroglifica.

E facci caso, lui l’«inizio» (l’inizio della sua storia d’amore) non lo disegna che alla fine. Dopo molti e vaghi scarabocchi, disegna un piccolo tratto, appena un monosillabo (te), ed ecco è la fine di un «vagabondaggio senza scopo», di un andare a zonzo, senza una meta, da un verso all’altro delirando la propria solitudine, e questa strana attesa che gli farnetica in mente, questa invertita sensazione che lo fa sentire, lui, l’atteso, da qualcuno, da qualche parte… ma dove? dove, se non a casa?

E allora su, portatemi, «trenini dei sobborghi»… «portatemi, cavalle», gli fa eco Parmenide – su, portatemi a casa, perché io non abito qui. S’è fatto tardi e devo rientrare da tutti questi pensieri malinconici, e devo raccattare qualcuno di questi semini già amanti-piumesgusciati, qualcuna di queste paroline mille e mille volte già cantate e ricantate, sempre là, in quella dacia lontana.

Chissà, forse abito da quelle parti, e non me ne ricordo. Perché la lontananza fa di questi scherzi, e pur di celare a se stessa la sua tristezza, passa e ripassa per i suoi luoghi di scongiuro quotidiani. Vuole scongiurare se stessa, ma non potrà farlo finché non spingerà la sua «poesia» così lontana da non dare più ascolto che all’improbabile «musica» delle locomotive. Perché solo quando le locomotive le parleranno a tu per tu a nome del mondo intero… solo allora la sua «pazzia» sarà prossima al monosillabo, prossima a balbettare «te» che sarai l’inizio a cui, senza saperlo, essa sarà stata già iniziata.

A te così vicina, a te – vicinissima – la vena più vicina alla sorgente del mio desiderio – a te, mio intimo pronome, nome del mio intimo a me più lontano.
A te – l’Inizio – che la mia lontananza non si è stancata di scongiurare. A te perché venissi a fingermi la fine della mia solitaria ridondanza.
Ed ecco…

L’inizio – qualunque inizio di qualunque storia – è la perla. L’iniziale però, la solitudine e l’attesa però, è questo il tesoro arcaico da cui la perla proviene. È questa la casa dove la perla era di casa, ancor prima dell’inizio. E se la perla brilla, se ha lo splendore dell’arkhé, è perché essa è l’«insolito» che suole da sempre ripetersi – ridondanza di desiderio eternamente celibe, ridondanza di una vecchia abitudine a comprare «un biglietto / singolo», ridondanza però anche, insieme, di un vago presagio – presagito sin dal primo verso: gli amanti s’incontravano…

Poi, dopo l’incontro, del tesoro più nessuna traccia – all’infuori di te.
Se del tesoro qualcosa ancora luccica, non puoi essere che tu.
Tu che eri la locomotiva, tu che eri il treno, tu che eri la canzone cantata e ricantata nella dacia lontana – tu, adesso, qui, la perla presente.
Tu, la mia presenza a me stesso – fuori di me.
Siamo iniziati insieme, ecco perché ora che ti guardo, ti trovo così insolitamente vicina, o mia lontananza…