L’Angelo Nuovo è l’ultima figura (tutta giocata sul filo della più difficile-disperata ironia) del grande tema angelologico, di ascendenza neoplatonica, che oppone il Noûs angelico alla Moira signora dei demoni. Questo contrasto segna tutta l’avventura dell’Angelo: la sua vicenda coincide con il ripetersi, in diverse forme, del tentativo di districarsi dall’affinità col demone, di rimuovere il tremendo pericolo che appaia una comune origine.
Eppure, la figura del daimon non si era andata sviluppando, nel mondo greco-romano, proprio nel senso del metaxý, della mediazione e intercessione?
In Plutarco (nel De genio Socratis e altrove) il daimon può aiutare l’uomo. Il suo discorso senza voce è percepibile solo da menti pure e libere da passioni: «uomini che noi definiamo sacri e demonici» (589d). Questo desiderio del demone di salvare le anime di coloro che hanno «combattuto validamente e con ardore grandi battaglie nel corso di infinite nascite» (593f) non appartiene certo né al daimon omerico, né a quello esiodeo. Si tratta dello sviluppo di motivi soteriologici propri della demonologia pitagorica e platonica. La stessa, semplice funzione mediatrice del daimon non è attestabile prima di tali sviluppi.
In Omero, il termine daimon sembra distinguersi da theós, «in quanto, più che una divinità individuata nel culto e nel mito, esso definisce un indistinto agente divino» (Del Corno); in theós si pensa la personalità del dio, definita dal culto e dalla mitologia, in daimon, invece, il suo effetto, la sua potenza: il numen del dio.
In Esiodo, il daimon si distingue nettamente dagli dèi signori dell’Olimpo e definisce un genere di esseri sconosciuto ad Omero: anime della prima stirpe degli uomini, quella che visse felice sotto Kronos, «forti di piedi e di mani, scevri di tutti i mali, passavano la vita in conviti, morivano come irretiti dal sonno», e che ora «stanno sopra la terra, per volere di Zeus, custodi delle opere dei mortali» (Le opere e i giorni, 141). Ma neppure in Esiodo i daimones assumono un ruolo di mediazione o intercessione: le anime dei morti dell’età dell’oro vigilano-custodiscono le opere degli uomini come ministri della cosmica Dikê. Agiscono da sapienti nel rispetto dei metra di Dikê.
«Qualcosa di mezzo tra dio e mortale» (Simposio, 202e) è il daimon per Platone – ed è proprio nel discorso di Diotima che se ne configura una possibile funzione di mediazione. Il suo potere, infatti, consiste nel «tradurre e trasmettere agli dèi le cose che giungono dagli uomini, e agli uomini quelle che giungono dagli dèi, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri i comandi e le ricompense dei sacrifici» (202e).
Lo sfondo è quello mitico dello spazio pieno di demoni, del Tutto animato; ma qui da esso si stacca una categoria definita di esseri, caratterizzati da una particolare e insostituibile funzione mediatrice (così sarà anche in Plotino, Enneadi, 3.5). Mai il dio comunica direttamente con l’uomo, ma solo attraverso il demonico (da cui derivano divinazioni e sacrifici, incantesimi e profezie). Il rapporto col dio, per gli uomini di questa età, sparita sotto terra la stirpe d’oro, è affidata alla potenza del daimon.
Come si inquadra questa concezione nel quadro della psicologia e della escatologia platoniche?
L’anima viene nettamente distinta dal daimon. Su tale distinzione si fonda quella possibilità – formulata nel celebre passo della Repubblica – concessa all’anima di scegliere il proprio daimon. Questa possibilità, a sua volta, fonda ogni prospettiva soteriologico-escatologica. «Origine» di quella (problematicissima) via, adombrata soltanto in Platone, pienamente sviluppata in Plotino e Proclo, che libera dal kyklos tes geneseos, dalla ruota fatale delle nascite, dalla costrizione dell’eterno ritorno, «origine» di ogni idea di salvezza è appunto quella scelta, quella decisione, che l’anima può compiere di fronte a Lachesi, prima di riprecipitare in una nuova effimera esistenza corporea, «preludio a nuova morte» (Repubblica, 10: 617e).
In questo istante sommamente critico, l’anima può, infatti, non ripetere, non ridire la propria passata esistenza, ma scegliere, sulla base di ciò che ha appreso e veduto, la propria vita. Il ciclo delle reincarnazioni è segnato da questo istante critico; se l’anima lo affronta con scienza sempre maggiore, ecco che esso può tramutarsi in un processo di purificazione. Questa possibilità costituisce comunque il presupposto di ogni idea di redenzione finale.
L’anima è «libera» di fronte al daimon: sua è la responsabilità della scelta, non del dio, non delle Moire, non della sorte che stabilisce l’ordine in cui le anime devono scegliere. Causa o scelta – nella mia scelta sta la causa. «La virtù non ha padrone» (ibid.).
Ma una volta operata la decisione, ecco che Lachesi dà a ogni anima come compagno il demone che quella si è scelto, e quest’unione è resa inalterabile da Cloto e Atropo (ibid., 620e). Nel corso della futura incarnazione, nulla potrà mutare l’anima. Ciò che decide della vita non si decide nella vita, ma in quel momento fatale che precede la rinascita. Il corso della vita è tutto necessitato da ciò che accade in questo momento pericolosum per eccellenza.
Lì come sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo.
(Platone, Repubblica)
Legando indissolubilmente l’anima al demone, le Moire non affermano che l’irrevocabilità della scelta da essa compiuta: «adempiono» il destino scelto dall’anima, la fissano ad esso con un custode inesorabile.
In interiore homine il daimon continuerà a rivelarsi all’anima, nel corso della sua nuova esistenza (e gli uomini demonici, come Socrate, sapranno percepirne la voce con imperiosa nettezza), ma proprio al fine di confermarla nei limiti, nel solco che essa ha voluto liberamente per sé, prima di ricadere nel corpo, prima di nascere a nuova morte – proprio perché essa non de-liri dal cammino inalterabile (per questo giro della Necessità), cui Atropo l’ha intessuta.
Anche in Plutarco il demone mantiene una propria oggettività nei confronti dell’anima. Le anime che Timarco vede precipitare come astri giù verso una nuova nascita, respinte dal cielo della Luna, sono quelle rimaste «affatto sconvolte dalle passioni per tutta la vita» (De genio Socratis, 591d): quelle che riescono a sfuggire alla marea montante dello Stige hanno saputo, invece, preservare il proprio legame con quella loro parte «immune da corruzione» che «la maggior parte della gente chiama intelletto [Noûs], ritenendo che sia dentro di loro […] ma chi ragiona correttamente chiama demone [Daimon], poiché è esterna a loro» (591e).
Queste anime stanno in fermo rapporto col loro daimon, divengono docili e mansuete alla sua voce «come un animale domestico», lo percepiscono «ormai senza percosse né dolore» (592c).
L’accentuazione soteriologica della demonologia plutarchea non muta, dunque, il tratto fondamentale di quella platonica: l’esteriorità del daimon e il carattere necessitante della custodia che esso esercita sull’anima caduta nel corpo. Essenziale, a questo proposito, la distinzione tra Noûs e Daimon: l’anima non è in grado di salvarsi da sé, di uscire dalla Ruota e di «prender fiato dalla miseria» (come traduce Colli), senza l’incoraggiamento e l’aiuto del daimon. Ma la voce del daimon non potrà mai discordare da ciò che, testimoni le Moire, l’anima ha deciso.
Se il daimon conserva un proprio essere separato, sembra inevitabile immaginarlo come funzione o ministro di Ananke; se, invece, come avviene chiaramente in Plotino, esso finisce con l’identificarsi con l’anima dell’uomo, o, più precisamente, con la facoltà superegemonica dell’anima (Enneadi, 3.4), decisivo diviene il Noûs che sta in noi, libero, e per il quale possiamo dirigerci ad una vita demonica o addirittura divina. Noûs versus Ananke – ma ogni distinzione essenziale tra demone e anima viene, allora, meno.
Ecco definito il problema del rapporto tra demonologia classica e angelologia: nell’Angelo sembrano doversi sposare due esigenze contraddittorie: l’Angelo è natura separata dall’anima, dalla coscienza, dal Noûs, eppure libera dalla legge di Ananke. L’Angelo intercede, soccorre in termini incomparabili con quelli dei demoni plutarchei: egli induce l’uomo a correggere, a vincere ciò cui sembra essere destinato; l’Angelo partecipa di una lotta dell’anima, che tutto osa per liberarsi dal vincolo di Ananke.
La radice dell’Angelo si oppone a quella del daimon; la differenza non riguarda tanto il carattere o la funzione che le due figure svolgono: il demone che sopraggiunge può essere tremendo così come felice, bonus così come malus Eventus, genio che prende cura della nascita e della vis procreativa dell’uomo così come genio della distruzione e della vendetta. Il daimon può apparire nella veste pietosa di Thanatos e Hypnos che ci compongono nella tomba, così come in quella di furente Erinni. Ogni specie di demone, ogni potenza sta tra il divino e l’umano, e noi la respiriamo con lo stesso respiro – così come infiniti sono i tipi degli Angeli, dai più alti a quelli caduti nei gironi più bassi del baratro dell’Ade.
La differenza è radicale – e nessuna semplice fenomenologia può darne conto. Essa attiene alla radice di daimon, che è la stessa cosa di daiomai, dainymi: ripartire, dare in sorte. Questa radice assegna inesorabilmente il daimon all’impero delle Moire. E dal daimon il nostro ethos non può districarsi.
L’Angelo, invece, non custodisce soltanto, ma induce, e-duca, vuol trasformare e trasfigurare, assume una dimensione escatologica sua propria, estranea al daimon. Più profondamente ancora: l’Angelo induce l’anima a liberarsi proprio della sua parte demonica – a compiere il miracolo di liberarsi dal demone della Necessità.
Il demone costringe alla parte che ogni anima si è scelta, giro dopo giro della Ruota; l’Angelo vuole, quaggiù, che l’anima la contraddica. Il demone sta «alla corda»: dipende dal legamento, dal filo, dall’ordito cosmico. Situazione doppia: esso è collegato con il fondo primordiale, più prossimo all’Urgrund di qualsiasi figura angelica, e insieme incatenato e predestinato, mero prigione. La corda che incatena l’universo come quelle che fasciano le triremi (Repubblica, 10: 616bc), lo avvinghia nella sua stessa luce e lo trasforma in marionetta (Mircea Eliade ha spiegato magistralmente in più occasioni questo simbolismo). Destino del demone, la marionetta (non la bambola di Rilke! ché essa educa a «quel silenzio più grande della vita, che poi sempre tornò ad abitarci dallo spazio ogni volta che in qualche luogo giungevamo ai confini del nostro esserci», Rilke, Puppen), destino contro cui l’Angelo è chiamato a una lotta interminabile.
Perciò allo sguardo dell’angelologia ogni demone è «cattivo»; perciò tutti gli dèi pagani (anch’essi troppo più deboli di Ananke) «divengono» daimones, «cattivi» daimones.
Origene non ha alcuna difficoltà, nella sua polemica contro Celso, ad attribuire agli Angeli molte delle funzioni che la religiosità pagana attribuisce ai demoni, poiché ciò, come si è visto, non tocca affatto la differenza radicale: tali funzioni sono svolte dal daimon nell’ambito della legge di Adrastea – dall’Angelo, invece, per e-ducarvi l’uomo, convincerlo a ciò che appare, secondo Necessità, l’impossibile. A sperare contro ogni speranza.
Le figure dei demoni finiscono col coincidere con i segni delle stelle, obbligate a metra insuperabili, mentre l’intelligenza angelica è puro Noûs, ottavo Cielo, oltre le sfere dei pianeti.
È l’itinerario dell’angelologia gnostica (specie nei suoi aspetti teurgici), ma anche, nella sua ispirazione fondamentale, della, per così dire, demonologia neoplatonica, da Plotino a Giamblico a Proclo. In quest’ultima, però, daimon non è più termine che indichi un’essenza effettivamente separata: il demone non si nasconde nell’intimità dell’anima, ma è l’intimo dell’anima, la facoltà attiva, egemonica dell’anima, la sua vita inesauribile.
Secondo la forma della sua vita, continuamente l’anima elegge il proprio demone: è demone a se stessa. Non un demone è l’ethos, nel senso che lo sovra-ordina e determina, ma ethos è demone a sé: secondo la forma del nostro agire, comportarci, vivere, scegliamo il nostro demone, ovvero: l’anima mostra quale delle sue potenze abbia in lei l’egemonia.
Ma qui non vi è luogo per l’Angelo in quanto tale. Egli diventa un altro nome per dire forza e potenza dell’anima.
È concepibile esito diverso? Nella lotta al demone non si finisce necessariamente col negare ogni luogo all’Angelo stesso? Come mantenere la distinzione dell’Angelo, laddove egli non esprime che la «libera» potenza del Noûs? Se l’Angelo eredita la «libertà» del Noûs, come può immaginarsi separato dall’anima, figura propria, svolgente una sua specifica «parte»?
Era chiaro il ruolo del demone nella teo-drammatica dominata da Ananke. Ma quale «necessità» conserva l’Angelo, se è, appunto, libero da Necessità? Non sono state interiorizzate tutte le sue funzioni nell’itinerario dell’anima? non sono ormai state tutte ri-cor-date? O, in termini rilkiani, non fa ormai anche l’Angelo parte universale del mondo ridotto a «interpretato»?
Ou-topia l’Angelo: né demone, né semplice potenza dell’anima; radicalmente affine all’uomo in itinere, egli pensa l’impossibile (liberarsi da Ananke), eppure ancora indistricabilmente connesso a quel mondo del metaxý animato da innumerevoli spiriti soggetti alle Moire.
Senza luogo proprio l’Angelo – ma per questo figura «necessaria» dell’in-stante, che arresta la freccia del tempo, che interrompe il continuo. Poiché senza-luogo, «necessario» compagno a Tobia – giovane, giovane fino all’infanzia che nessun discorso può spiegare, risolvere.
Così Klee immagina l’Angelo Nuovo: di irrevocabile non possiede che il suo esser stato una volta, che il suo aver cantato un istante.
Quest’istante è catastrofe di ogni compatto continuum. Quest’istante produce un Aperto non chiudibile, non riempibile, non ripetibile-ridicibile – libero dal ciclo delle rinascite. La libertà – a mani vuote – di questo «misero» istante ci è data. Ad essa ancora e-duca l’ultimo degli Angeli, il più vecchio e il più giovane di tutti: l’Angelo Nuovo.
(Cacciari, L’Angelo necessario)