Il delitto perfetto consiste in una realizzazione incondizionata del mondo attraverso l’attualizzazione di tutti i dati, mediante la trasformazione di tutti i nostri atti e di tutti gli eventi in pura informazione. Insomma: la soluzione finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e lo sterminio del reale col suo doppio.
È proprio questo il tema del racconto di Arthur Clarke sui nove miliardi di nomi di Dio. Una comunità di monaci del Tibet è destinata da secoli a trascrivere questi nove miliardi di nomi. Al termine il mondo sarà compiuto e finirà. L’opera è fastidiosa: i monaci, stanchi, ricorrono ai tecnici dell’IBM., i cui computer svolgono il lavoro in pochi mesi. E la storia del mondo si compie davvero in tempo reale, mediante l’operazione del virtuale. Purtroppo, si tratta anche della scomparsa del mondo in tempo reale. Improvvisamente, infatti, la promessa della fine si realizza e i tecnici sbigottiti, che ci credevano ben poco, mentre ridiscendono nella valle, vedono le stelle spegnersi una a una.
Forse è proprio ciò che ci aspetta al termine di questa trasfigurazione tecnica del mondo: la sua fine accelerata, la sua risoluzione immediata – successo finale del millenarismo moderno, ma senza la speranza di una salvezza, di un’apocalisse o di una rivelazione. Semplicemente affrettare la scadenza, accelerare il movimento verso una scomparsa pura e semplice. La specie umana si troverebbe investita, senza saperlo, come i tecnici dell’IBM., di questo nobile compito: attivare, esaurendone tutte le possibilità, il codice di scomparsa automatica del mondo.
È l’idea stessa del Virtuale.
Vivete la vostra vita in tempo reale – vivete e soffrite direttamente sullo schermo. Pensate in tempo reale – il vostro pensiero è immediatamente codificato dal computer. Fate la vostra rivoluzione in tempo reale – non in strada, ma nello studio di registrazione. Vivete la vostra passione amorosa in tempo reale – col video incorporato per tutto il tempo del suo svolgimento. Penetrate il vostro corpo in tempo reale – video-endoscopia, il flusso del vostro sangue, le vostre viscere, come se vi trovaste lì.
Nulla sfugge. C’è sempre una cinepresa nascosta da qualche parte. Si può essere filmati senza saperlo. Si può essere chiamati a rieseguire tutto davanti a qualsiasi canale televisivo. Si crede di esistere in versione originale, senza sapere che questa non è nient’altro che un caso particolare di doppiaggio, una versione eccezionale per gli happy few. Si è in balia di una ritrasmissione istantanea di tutti i fatti e di tutti i gesti su qualsiasi canale. Un tempo avremmo vissuto ciò come un controllo poliziesco. Oggi lo viviamo come una promozione pubblicitaria.
In ogni modo, la cinepresa virtuale è nella testa. Non vi è bisogno di un medium per riflettere i nostri problemi in tempo reale: ogni esistenza è tele-presente a se stessa. La TV e i media sono da molto tempo usciti dal loro spazio mediale per investire dall’interno la vita «reale», proprio come fa il virus con una cellula normale. Non vi è bisogno di un casco né di una combinazione digitale: è la nostra volontà che finisce per muoversi nel mondo come in un’immagine di sintesi. Tutti abbiamo inghiottito il nostro ricevitore, il che produce intensi effetti di disturbo dovuti all’eccessiva prossimità della vita e del suo doppio, dovuti al collasso del tempo e della distanza. Che si tratti della tele-presenza, dello psicodramma televisivo in diretta o dell’immediatezza dell’informazione su tutti gli schermi, abbiamo sempre a che fare con lo stesso movimento di cortocircuito della vita reale.
La virtualità è diversa dallo spettacolo, che lasciava ancora spazio a una coscienza critica e a una demistificazione. L’astrazione dello «spettacolo», anche nei situazionisti, non era mai irrimediabile. La realizzazione incondizionata è invece irrimediabile. Infatti, non siamo più alienati né spossessati: siamo in possesso di tutta l’informazione. Non siamo più spettatori, ma attori della performance, e sempre più integrati nel suo svolgimento. Mentre potevamo affrontare l’irrealtà del mondo come spettacolo, siamo invece indifesi davanti all’estrema realtà di questo mondo, davanti a questa perfezione virtuale. Di fatto, siamo al di là di ogni disalienazione. È la nuova forma del terrore, rispetto a cui i tormenti dell’alienazione erano ben poca cosa.
Abbiamo criticato tutte le illusioni: metafisica, religiosa, ideologica; è stata l’epoca d’oro di una gioiosa disillusione. Ne è rimasta solo una: l’illusione della critica stessa. Gli oggetti sottoposti al vaglio della critica – il sesso, il sogno, il lavoro, la storia, il potere – si sono vendicati con la loro scomparsa, producendo di rimando la consolante illusione della verità. L’illusione critica, non avendo più vittime da divorare, ha divorato se stessa. Più ancora delle macchine industriali, gli ingranaggi del pensiero sono in cassa integrazione. Al termine della sua corsa, il pensiero critico si avvolge su se stesso. Da prospettivo che era diventa ombelicale. Sopravvivendo a se stesso, aiuta di fatto il suo oggetto a sopravvivere. Come la religione si è definitivamente realizzata in altre forme, irreligiose, profane, politiche, culturali, in cui essa è irreperibile in quanto tale (compreso il revival attuale, in cui essa indossa la maschera della religione), così la critica delle tecniche virtuali maschera il fatto che il loro concetto è distillato ovunque nella vita reale, a dosi omeopatiche. Denunciando la loro spettralità, come pure quella dei media, si lascia intendere che ci sarebbe da qualche parte una forma originale dell’esistenza vissuta. Il medium stesso è invece passato nella vita, diventata un ordinario rituale della trasparenza, e per questo il tasso di realtà diminuisce di giorno in giorno. Tutta questa apparecchiatura digitale, numerica, elettronica non è che l’epifenomeno della virtualizzazione degli esseri in profondità. E se l’immaginazione collettiva ne è talmente colpita, è per il fatto che siamo già, non in un altro mondo, ma in questa stessa vita, in uno stato di socio-, di foto-, di video-sintesi. Il virtuale e i media sono la nostra funzione clorofilliana. E se è possibile fin da oggi fabbricare un clone di un attore celebre, che si farà recitare al suo posto, è per il fatto che egli era diventato da molto tempo, senza saperlo, la propria replica, il proprio clone, prima ancora di essere clonato.
Tutta questa fauna mediale delle tecnologie del virtuale, questo reality show perpetuo, ha un antenato: è il ready-made. Così come sono, coloro che vengono prelevati dalla loro vita reale, per andare a recitare il loro psicodramma coniugale o sull’aids alla televisione, hanno per antenato il portabottiglie di Duchamp, che costui preleva allo stesso modo dal mondo reale per conferirgli altrove, in un ambito che si suole ancora definire arte, un’iperrealtà indefinibile. Acting-out paradossale, cortocircuito istantaneo. Il portabottiglie, ex-inscritto dal suo contesto, dalla sua idea e dalla sua funzione, diventa più reale del reale (iperreale) e più arte dell’arte (trans-estetica della banalità, dell’insignificanza, della nullità, in cui si verifica oggi la forma pura e indifferente dell’arte).
Qualsiasi oggetto, individuo o situazione è oggi un ready-made virtuale, nella misura in cui di essi si può dire quanto Duchamp dice in fondo del portabottiglie: esiste, l’ho incontrato. È così che ciascuno è invitato a presentarsi tale e quale, e a recitare la sua vita in diretta sullo schermo, come il ready-made recita la sua parte tale e quale, in diretta, sullo schermo del museo. Entrambi sono del resto confusi nell’iniziativa presa da nuovi musei che si preoccupano di condurre la gente non più davanti alla pittura – scommessa vinta, ma non abbastanza interattiva, e troppo «spettacolare» –, ma nella pittura, nella realtà virtuale del Déjeuner sur l’herbe per esempio, di cui potranno così fruire in tempo reale, interagendo eventualmente con l’opera e coi personaggi.
Identico problema con i reality show: bisogna condurre il telespettatore non davanti allo schermo (vi è sempre stato davanti: è addirittura questo il suo alibi e il suo rifugio), ma dentro lo schermo, dall’altro lato dell’informazione. Fargli realizzare la stessa conversione di Duchamp col portabottiglie, trasferendolo tale e quale dall’altro lato dell’arte, creando così un’ambiguità definitiva tra l’arte e il reale.
Oggi l’arte non è altro che questa confusione paradossale tra le due cose, e l’intossicazione estetica che ne deriva. Allo stesso modo l’informazione non è altro che la confusione paradossale dell’evento e del medium, e l’incertezza politica che ne deriva. È così che siamo diventati tutti dei ready-made. Ipostatizzati come il portabottiglie, impagliati nella nostra identità sterile, trasformati in musei viventi, come quelle popolazioni intere che sono trasfigurate in situ per decreto estetico o culturale, donati a nostra immagine e somiglianza dall’Alta Definizione, e condannati da questa somiglianza esatta allo stupore mediale come il ready-made è condannato allo stupore estetico. E come l’acting-out di Duchamp permette di accedere al grado zero, benché generalizzato, dell’estetica, in cui qualsiasi scarto funge da opera d’arte, con la conseguenza che qualsiasi opera d’arte funge da scarto, così questo acting-out mediale permette di accedere a una virtualità generalizzata, che mette fine al reale con la sua promozione di tutti gli istanti.
Il concetto chiave di questa Virtualità è l’Alta Definizione. Quella dell’immagine, ma certamente anche quella del tempo (il Tempo Reale), della musica (l’Alta Fedeltà), del sesso (la pornografia), del pensiero (l’Intelligenza Artificiale), del linguaggio (i linguaggi numerici), del corpo (il codice genetico e il genoma). Ovunque l’Alta Definizione caratterizza il passaggio, al di là di ogni determinazione naturale, verso una formula operativa – «definitiva» per essere precisi –, verso un mondo in cui la sostanza referenziale si fa sempre più rara. La più alta definizione del medium corrisponde alla più bassa definizione del messaggio – la più alta definizione dell’informazione corrisponde alla più bassa definizione dell’evento – la più alta definizione del sesso (il porno) corrisponde alla più bassa definizione del desiderio – la più alta definizione del linguaggio (nella codificazione numerica) corrisponde alla più bassa definizione del senso – la più alta definizione dell’altro (nell’interazione immediata) corrisponde alla più bassa definizione dell’alterità e dello scambio, eccetera.
L’immagine ad alta definizione. Nulla a che vedere con la rappresentazione, ancor meno con l’illusione estetica. L’illusione generica dell’immagine è completamente annientata dalla perfezione tecnica. Ologramma o realtà virtuale o immagine tridimensionale, essa non è altro che l’emanazione del codice digitale che la genera. Non è altro che la smania di fare in modo che un’immagine non sia più un’immagine, ossia ciò che toglie una dimensione al mondo reale.
Col passaggio dal muto al sonoro, e poi al colore, al tridimensionale e all’attuale gamma degli effetti speciali, l’illusione cinematografica è sparita via via che la performance si realizzava. Non c’è più vuoto, non c’è più ellissi, non c’è più silenzio. Più ci si avvicina a questa definizione perfetta, a questa perfezione inutile, più si perde la potenza dell’illusione. Per convincersene basti pensare all’Opera di Pechino, a come, col semplice movimento dei loro corpi, il vecchio e la ragazza facevano vivere sul palcoscenico l’estensione del fiume, a come, nella scena del duello, i due corpi, sfiorandosi con le armi senza toccarsi, rendevano fisicamente palpabili le tenebre in cui il duello si svolgeva. Lì l’illusione era totale, un’estasi fisica e materiale più che estetica o teatrale, appunto perché si era soppressa ogni presenza realistica della notte e del fiume. Oggi, si alimenterebbe il set con tonnellate d’acqua, si girerebbe in infrarosso il duello nell’oscurità.
Il Tempo Reale: prossimità istantanea dell’evento e del suo doppio, nell’informazione. Prossimità dell’uomo e della sua azione a distanza: sistemate tutte le vostre faccende all’altro capo del mondo, per interposto ectoplasma. Come ogni dettaglio dell’ologramma, ogni istante del tempo reale è microscopicamente codificato. Ogni particella del tempo concentra l’informazione totale relativa all’evento, come se lo si dominasse in miniatura da tutti i lati contemporaneamente. Ora, la replica istantanea di un evento, di un atto o di un discorso, la loro trascrizione immediata, ha qualcosa d’osceno, poiché il ritardo, la proroga, la suspense sono essenziali all’idea e alla parola. Tutti questi scambi immediatamente contabilizzati, registrati, immagazzinati, come la scrittura nei programmi di scrittura – tutto ciò testimonia una compulsione interattiva che non rispetta né il tempo né il ritmo dello scambio (per non parlare del piacere) e congiunge nella stessa operazione l’inseminazione artificiale e l’eiaculazione precoce.
Vi è una profonda incompatibilità tra il tempo reale e la regola simbolica dello scambio. Ciò che regge la sfera della comunicazione (interfaccia, immediatezza, abolizione del tempo e della distanza) non ha alcun senso in quella dello scambio, dove la regola vuole che quanto è dato non sia mai restituito immediatamente. Bisogna restituirlo, ma mai all’istante. È un’offesa grave, mortale. Non vi è mai interazione immediata. Il tempo è appunto ciò che separa i due momenti simbolici e ne sospende la risoluzione. Il tempo non differito, quello «diretto», è inespiabile. Tutto il campo della comunicazione appartiene così all’ordine dell’inespiabile, poiché tutto vi è interattivo, dato e restituito senza ritardo, senza quella suspense, per quanto infima, che costituisce il ritmo temporale dello scambio.
L’Intelligenza Artificiale. È il pensiero finalmente realizzato, pienamente materializzato mediante l’interazione incessante di tutte le virtualità di analisi, di sintesi e di calcolo, così come il tempo reale è definito dall’interazione incessante di tutti gli istanti e di tutti gli attori. Operazione ad alta definizione: l’informazione che ne deriva è più vera del vero – è vera in tempo reale. Ecco perché essa è fondamentalmente incerta. Il fatto che l’Intelligenza Artificiale slitti in una definizione troppo alta, in una sofisticazione delirante dei dati e delle operazioni, non fa che confermare il fatto che si tratta proprio dell’utopia realizzata del pensiero.
Ecco arrivare, del resto, i computer che obbediscono al pensiero. Questa forma estrema rischia di dare strani risultati. A quale soglia di coscienza, o di formalizzazione, interverrà la macchina? Essa rischia di collegarsi, per anticipazione riflessa, ai pensieri subconsci, e pure inconsci, ai fantasmi più primitivi. Come il doppio dello studente di Praga, che era sempre lì prima di lui, trasformando in atti le sue più oscure velleità. I nostri «pensieri» saranno così attuati prima ancora di aver luogo, esattamente come l’evento nell’informazione. La conseguenza, se si deve giungere a questo punto, sarebbe che tutto il sistema del pensiero si allineerebbe rapidamente a quello della macchina. Esso finirebbe per pensare soltanto quello che la macchina può captare e trattare, o comunque su sollecitazione della macchina. È già così con i computer e con l’informatica. Nell’interfaccia generalizzata il pensiero stesso diventerà realtà virtuale, l’equivalente delle immagini di sintesi o della scrittura automatica nei programmi di scrittura.
Intelligenza Artificiale? Non vi è l’ombra di un artificio in tutto ciò, non vi è l’ombra di un pensiero dell’illusione, della seduzione, del gioco del mondo, assai più sottile, più perverso, più arbitrario. Ora, il pensiero non è né una meccanica delle funzioni superiori né una gamma di riflessi operativi. Esso è una retorica delle forme, dell’illusione mutevole e delle apparenze – un’anamorfosi del mondo e non un’analisi. Quanto alla macchina informatica e cerebrale, essa non è padrona delle apparenze, padroneggia solamente il calcolo e il suo compito, come quello di tutte le macchine cibernetiche e virtuali, è di distruggere questa illusione essenziale mediante la contraffazione del mondo in tempo reale.
Come l’illusione dell’immagine scompare nella sua realtà virtuale, l’illusione del corpo scompare nella sua iscrizione genetica e l’illusione del mondo scompare nel suo artefatto tecnico, così scompare nell’Intelligenza Artificiale l’intelligenza (sopra)naturale del mondo come gioco, come inganno, come macchinazione, come delitto e non come meccanismo logico o macchina cibernetica riflessa, di cui il cervello umano sarebbe lo specchio e il modello.
Fine dell’illusione selvaggia del pensiero, della scena, della passione, fine dell’illusione del mondo e della sua visione (e non della sua rappresentazione), fine dell’illusione dell’Altro, del Bene e del Male (del Male soprattutto), del vero e del falso, fine dell’illusione selvaggia della morte, o di quella di esistere a ogni costo: tutto ciò è volatilizzato nella tele-realtà, nel tempo reale, nelle tecnologie sofisticate che ci iniziano ai modelli, al virtuale, al contrario dell’illusione – alla disillusione totale.
Nel regno delle ombre nessuno ha più un’ombra e non rischia di lacerarla camminandoci sopra, come Peter Schlemihl [di Adelbert von Chamisso]. Può accadere in compenso che non siano più i corpi a proiettare la loro ombra, ma le ombre a proiettare i loro corpi, i quali non sarebbero altro che l’ombra di un’ombra. E questo è già il caso della nostra realtà virtuale, che è semplicemente la rimessa in circolazione, sub specie corporis, sub specie realitatis, dell’astrazione e dei dati numerici della vita. Come in quell’altra fiaba in cui il Diavolo rimetteva in circolazione l’ombra dello studente che costui gli aveva venduta, sotto l’apparenza vivente del Doppio di cui lo studente non era altro che la controfigura.
Questa operazione virtuale del mondo è una chimera paradossale. Declinazione mondiale di tutti i dati, fantasma identico a quello della declinazione dei nomi di Dio – chimera nella quale ci seppelliamo come in un sarcofago metallico, in assenza di gravità, sognando di vivere, per grazia del Digitale, tutte le situazioni possibili. Fantasma di sintesi di tutti gli elementi, con cui tentiamo di forzare le porte del mondo reale.
Con la Realtà Virtuale e le sue conseguenze siamo passati all’estremo della tecnica, nella tecnica come fenomeno estremo. Al di là della fine non c’è più reversibilità, né tracce, e neppure nostalgia del mondo anteriore. Questa ipotesi è molto più grave di quella dell’alienazione tecnica, o dell’imposizione heideggeriana. È l’ipotesi di un progetto di scomparsa irreversibile, nella più pura logica della specie. È l’ipotesi di un mondo assolutamente reale in cui, contrariamente all’artista di Michaux, avremmo ceduto alla tentazione di non lasciare tracce.
È questa la posta in gioco della Virtualità. E non si può dubitare della sua ambizione assoluta. Questa effettuazione radicale, se fosse condotta a termine, sarebbe l’equivalente di un delitto perfetto. Mentre il delitto «originale» non è mai perfetto e lascia sempre delle tracce – noi stessi in quanto esseri viventi e mortali siamo la traccia di questa imperfezione criminale –, lo sterminio futuro, quello che risulterebbe da una determinazione assoluta del mondo e dei suoi elementi, non lascerebbe invece alcuna traccia. Non avremmo neppure il tempo di scomparire. Saremmo disintegrati nel Tempo Reale e nella Realtà Virtuale prima ancora che le stelle si spengano.
Per fortuna tutto ciò è letteralmente impossibile. Irrealizzabile l’Altissima Definizione, nella sua ambizione di produrre immagini, suoni, informazioni, corpi, in microvisione, in stereoscopia, come non li avete mai visti, come non li vedrete mai. Irrealizzabile il fantasma dell’Intelligenza Artificiale – il divenir-mondo del cervello, il divenir-cervello del mondo, tale da dover funzionare senza corpo, senza errori, reso autonomo, inumano. Troppo intelligente, dalle performance troppo elevate per essere vero.
Di fatto, non c’è spazio per l’intelligenza naturale e al tempo stesso per l’intelligenza artificiale. Non c’è spazio per il mondo e al tempo stesso per il suo doppio.
(Baudrillard, Il delitto perfetto)