C’è qualcosa che ci è ancora più vicino di ciò che abitualmente e innanzi tutto ci è vicinissimo, e di conseguenza è anche qualcosa più difficile da scorgere.
È così che, nello zelo dell’ordinario vedere della percezione sensibile, riguardante le cose visibili e utile a orientarsi in e tra di esse, finiamo comunque per lasciarci sfuggire la cosa più vicina di tutte, vale a dire la luminosità e quella sua peculiare trasparenza attraverso la quale il nostro zelante vedere passa in fretta e deve affrettarsi.
Esperire la cosa più vicina di tutte è la cosa più difficile di tutte. Nel corso dell’agire e dell’operare proprio essa viene trascurata fin da principio e con la massima facilità. Dal momento che il vicinissimo è il più familiare, esso non necessita di alcuna appropriazione particolare. Noi non ci pensiamo affatto, sicché esso rimane ciò che è meno degno d’essere pensato.
Il vicinissimo appare dunque come qualcosa di nullo. A rigore l’uomo, innanzi tutto, non vede nemmeno il vicinissimo, ma sempre ciò che viene dopo di esso. L’invadenza e l’insistenza di ciò che viene dopo il vicinissimo scaccia il vicinissimo e la sua vicinanza dall’ambito dell’esperienza. Ciò deriva dalla legge della vicinanza.
La legge della vicinanza si fonda sulla legge dell’inizio.
Dapprima, l’inizio non lascia schiudere quella sua inizialità che rinvia essenzialmente alla sua stessa intimità. L’inizio si mostra dapprima in ciò che è iniziato, eppure nemmeno in questo caso si mostra come tale. Anche se l’iniziato appare in quanto tale, l’iniziante stesso, e a maggior ragione l’intera «essenza» dell’inizio, possono rimanere ancora nascosti.
Pertanto, l’inizio si rivela dapprima in ciò che da esso è scaturito e che in qualche modo se ne è già allontanato. L’inizio lascia inizialmente dietro di sé la vicinanza della sua essenza iniziante, e in tal modo la vela.
È per questo che anche l’esperienza stessa di qualcosa di iniziale non garantisce ancora la possibilità di pensare l’inizio medesimo nella sua essenza.
Il primo inizio è sì ciò che decide tutto, eppure non è l’inizio iniziale, cioè quell’inizio che schiude nel «chiarore di una radura» (lichtet) se stesso e, allo stesso tempo, il suo ambito essenziale, e che in tal modo inizia.
L’inizialità dell’inizio iniziale accade da ultimo. Noi però non conosciamo né la modalità né l’istante dell’«ultimo» della storia, né tantomeno la sua essenza iniziale.
Il compimento della storia del primo inizio può quindi essere un segno storico della vicinanza dell’inizio iniziale, che include nella sua vicinanza la storia ventura. In conformità con la legge secondo cui l’inizio inizia, quel vicinissimo che è nell’essenza della ἀλήθεια sfugge necessariamente anche ai Greci.
Questo lasciarsi sfuggire non deriva quindi da una mancanza di attenzione, né è la conseguenza di un’omissione o di un’incapacità, anzi è proprio a causa della loro fedeltà all’esperienza originariamente iniziale dell’inizio che ancora e sempre «si sottrae» che ai Greci sfugge l’iniziale dell’inizio.
Tuttavia, poiché d’altra parte il vicinissimo, ed esso soltanto, è a sua volta già in anticipo essenzialmente presente in tutto ciò che è vicino, si ha che questo vicinissimo dell’essenza della ἀλήθεια deve comunque tradursi in parole nel dire dei Greci, sia pure solo occasionalmente, cioè appunto nel senso di qualcosa che è sì in qualche modo visto, ma non espressamente scorto.
(Heidegger, Parmenide)
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Siamo lontani. Troppo lontani per udire l’appello di un vecchio professore di filosofia. Troppo remoti dal nostro «inizio» per comprendere le sue allusioni all’inizio o, peggio ancora, a quell’astrusità che egli chiama l’«inizialità dell’inizio».
Ma tu, intanto, pensa: inizialità dell’inizio, qualunque cosa voglia dire, è già una ridondanza, un’insistenza, un «ermetico raddoppiamento», un gioco a ritornare con una piccola variazione sulla stessa parola… lo stesso come dire «l’arcaicità dell’arkhé», o anche (in antico egizio) «hob hib»: inviare l’ibis, «l’inviato che rinvia»…
Ma rinviarlo dove, se poi siamo così «ragionevolmente» lontani, così dentro la «selva oscura» dei Segni presenti, così remissivi all’Ordine Simbolico vigente e al dispotismo dell’attuale Significante, che del nostro proprio «iniziale» Oriente abbiamo perso, non solo la bussola, ma soprattutto il modo «arcaico» di interpretarne l’ago?
È più facile che un cammello, ricordi? – è infinitamente più facile che per la cruna di quest’ago passi chi ha solo due gobbe, e non una montagna di segni tra cui districarsi. Solo due segni ci vogliono per «abbracciare la luna» (ionh ioh). Basta una risonanza. Basta ridondare un suono. Ed ecco: hai ritrovato un modo infantile di entrare nel linguaggio. Un modo arcaico a cui il vecchio filosofo ricorre, per rientrare, immagino, lui nel suo proprio «Regno dei cieli» e tornarvi a gustare la vicinanza «rimossa», la prossimità a chissà quale «beatitudine».
La luce ci è più vicina di ogni cosa che ci illumina, eppure non la vediamo. Se la vedessimo, saremmo – come Semele – troppo abbagliati, saremmo folgorati e non vedremmo niente. È necessario dunque che la luce, la più intima, la più presente agli occhi della nostra mente, ci divenga fisicamente trasparente, per poter dare un inizio di visibilità al «Dioniso del nostro essere»: per poter dare cioè una vita al figlio della madre morta.
Se Dioniso non fosse venuto al mondo, noi non sapremmo nulla di lei – nulla della sua «inizialità». Solo dopo, quando Dioniso è nato e ha avuto una storia, solo al compimento della sua divina «autobiografia», si scopre che tutto ebbe inizio da Semele. E che, anche se Semele non lo sapeva né lo poteva sapere, di fatto stava «prevedendo» un destino al suo desiderio di luce.
Il suo guaio fu che volle «abbracciare il sole» e si bruciò. Come Semele però, chissà quante altre «presenze» immaginali si aggiravano nella nostra mente prima che Dioniso venisse a dire: eccomi, ci sono, sono qui a Tebe dalle sette porte, qui tra le sette stelle dell’Orsa, qui nella coscia del Toro celeste, qui nel Reame di Zeus, nel nome del Padre, nella Foresta dei Segni.
Le altre «presenze», quelle che non «partorirono» un figlio della luce, non godevano di un desiderio altrettanto «intenso» e così «pazzo» come quello di quella sola volta (semel) che Semele ardì «fare all’amore» nientemeno col Re dei cieli. Esse non godevano di una «inizialità» altrettanto potente, e perciò… si assentarono a ogni vita futura.
Solo Semele, e solo quella volta che il suo desiderio osò, avrebbe avuto una seconda volta. Solo lei era degna di avere una seconda chance. Degna di essere sottratta all’assenza, a cui pure il suo desiderio sembrava averla condannata.
Semele è quella sola volta là (lo porta scritto nel nome), è l’iniziale da cui doveva spuntare l’inizio, il «c’era una volta» del primo racconto.
E dunque, se Dioniso ci è vicino, Semele è la Vicinissima al fuoco dei nostri desideri. E se Dioniso ci inizia al mondo dei segni, è perché è lui il Segno dell’inizio del mondo. Dioniso è il Segno, e Semele il Segreto che Dioniso s’incarica di «significare».
Ma proprio qui dove ciascuno di noi ha detto il suo «eccomi!», proprio perché qui siamo lontani, troppo lontani dal nostro proprio «segreto», troppo remoti da quella che i Greci chiamavano la ἀλήθεια, è bene non rincorrere i «significati» delle parole, siano esse del Filosofo o del Narratore.
Il Segno è la riproduzione dell’Assente. La riproduzione di un desiderio «arcaico», la cui ridondanza era già in atto nel Presignificante. Basterebbe questo per spiazzare ogni «logica» trascendentale. A trascendere è il desiderio di Semele! Non il «significato» del suo gesto, ma il Gesto elettrico e libidinoso che la spinge all’«abbraccio col fuoco» del proprio ardore senza alcuna mediazione.
Semele, senza mai svelare il segreto della sua «trascendenza erotica», si rivela mitigata, sedata, diminuita, in Dioniso. E visto che Dioniso è quel pazzo scatenato che tutti conosciamo, figuratevi voi la pazzia che doveva essere il gesto di sua madre!
Dioniso, chi può dire se è un bene che sia andata così? – fatto sta che Dioniso s’è già abbastanza «allontanato» da sua madre. Tutto il tempo che ha passato nella coscia del Toro a pazziare coi nomi del Padre, ha creato una distanza tra lui e la sua ἀλήθεια «orfana» del Segreto della sua matrice. Pensare Dioniso, pensare il Segno dell’inizio, è perciò lasciarsi sfuggire il Segreto di cui esso è «erede» secondo e secondario. Pensare Dioniso è pensare l’arcaico, col rischio però di lasciarsi sfuggire l’arcaicità che l’ha messo al mondo.
Di trascendentale, in questa «arcaicità» da cui spunta il Segno dell’arkhé, non c’è nessuna «logica» da ripercorrere a ritroso e, meno che mai, nessuna «verità» da rintracciare che non sia l’ἀλήθεια stessa del desiderio – il puro gesto del suo erompere dalla λήθη, il gesto con cui il desiderio stesso schiude a sé una «radura di luce», un primo chiarore per illuminare l’inizio di un sapere di se stesso.
Dioniso «abbraccerà la luna» per ripetere il Gesto senza parole del desiderio di sua madre. La luna al posto del sole. Il Segno in assenza del Segnato. In lontananza, in mancanza di quella «intensità».
Così Dioniso «salverà» l’ultimo istante del suo Passato. L’ultimo resto di quel mondo incenerito dall’alta tensione del desiderio. Dioniso, il Segno, metterà in salvo solo l’ultimo lume d’incoscienza, per farne l’inizio di una storia – l’inizio di una seconda volta, ancora tutta da vivere.
Il vecchio professore, il saggio, dice che il primo inizio [di sapere] non è l’inizio iniziale, ma che è piuttosto il suo «raddoppiamento», la sua ridondanza. Il ritornello del rimosso, dice qualcuno.
Per parte mia, io solo questo ho capito: che di trascendentale non c’è che la ridondanza del Gesto di desiderio: che è, esso, il Ridondante che chiede di essere ripetuto! È il desiderio che insiste a ripetersi in tutti i gesti, finché (dopo una certa gestazione nella coscia del Toro) non arriva a ridondare anche nei segni linguistici. Oltre che nelle smorfie e nei sorrisi, negli sguardi e negli ammiccamenti, il desiderio infantile prende il vizio di ridondare anche nelle parole. Da ultimo, anche nelle parole.
Ora, i Greci – dice il professore – sapevano che le parole del loro «dire», le parole con cui ciascuno di loro «diceva» la sua propria ἀλήθεια, erano vicine alla Vicinissima non-parola «bruciata» dal desiderio di trascendere ovunque potesse ex-tendere la sua «tensione». Perché non nelle parole? Da ultimo, s’intende. Perché non provare a ridondare anche nel Reame dei Segni?
I Greci però sapevano anche che, quanto più vicina alla Vicinissima era la loro ἀλήθεια, tanto più era impregnata di λήθη. Non per superficialità né per mancanza di abilità dialettica, ma al contrario, proprio per la profondità del loro pensiero e la consapevolezza dell’impotenza del logos a «dire» il gesto «indicibile», essi portarono in scena Dioniso, e non Semele!
I Greci sapevano che l’iniziale dell’inizio non è un «segno»: non avendo il «segreto» di Semele niente da significare, che altro potevano dire, se non che era morta e sepolta, bruciata tutta in una sola volta, da quella congiunzione fatale col Re dei cieli in persona?
I Greci erano troppo fedeli alla loro esperienza dell’inizio, per non sapere che a ciascuno «quella sola volta là» sfugge a ogni attribuzione di senso. Perciò, facevano teatro di Dioniso, e non della sua Matrice «segreta». Si contentavano di suo «figlio». Perché, malgrado la sua pazzia, lo sapevano già abbastanza lontano da sua madre. Tanto lontano da essere per loro, in qualche modo, il solo «farmaco» a quella «pazzia» là.