Di un «segreto» che è ben sigillato, si dice che è «ermetico»: a metterlo sotto chiave, si dice che è stato Ermes in persona – ma non l’Ermes propriamente greco, che in fondo è solo un dio-messaggero, bensì quello egizio: Thot (Platone lo trascrive Theuth), ovvero il dio della scrittura, l’inventore dei geroglifici, il cantore della parola che dà «inizio» alla creazione del mondo, il Signore dei Segni, il «mefistofelico» Significante.
Se è Lui ad apporre il sigillo su un «segreto», se è alla scrittura che si affida e confida la memoria di quel «niente» ineffabile che è a ciascuno il suo intimo «segreto», allora c’è poco da fare: sono i «segni» ormai che (senza fiato!) parlano a nome suo, senza averne il titolo dettano ordini in sua vece, e senza vantarne la dignità siedono al posto suo… sono i rappresentanti, i vicari, che vengono così a spacciarsi per quello che non sono, per quello che essi servono solo a esprimere e, insieme, ineluttabilmente a occultare: il «segreto» del Re, o come direbbe Thomas Mann, il «sogno di Faraone». Il «segreto» non è mai di questa miseria d’uomo che si sveglia al mattino. Il «segreto» è sempre il Re della notte a sognarlo.
Thot, non solo è il doppio del Padre, il doppio del Sole, il doppio del Re, ma è in toto il dio del «raddoppiamento»: raddoppia l’«altro» col grafema in cui lo «traduce» (insieme garantendogli una «tradizione» e infliggendogli un «tradimento»), e così tra due «differenti» (il «segreto» e la sua «crittografia») istituisce una falsa «identità» nominale – lo fa col più infantile dei giochi di parola, col trucco cioè del ricorso a un (quasi) identico geroglifico per entrambi.
In questo modo, Thot raddoppia la traccia (μνήμη) interiore di una memoria individuale vivente, sovrapponendole e insieme contrapponendole i segni di una memoria artificiale dislocata fuori, nel linguaggio sociale, e soggetta alla sintassi delle sue rappresentazioni. Al Falco sovrascrive l’Ibis, avrebbero detto gli Egizi.
Thot è il dio dell’«artificio», della maschera e del travestimento: è, infatti, sempre l’«artefatto» simulacro di ciò per cui, genialmente, si spaccia. Non è il dio più antico, non è il Padre, non è l’«inizio» che si vanta d’essere (ah, se gli «ermetici» del nostro Rinascimento, e soprattutto Giordano Bruno l’avessero compreso!), ma solo il segno dell’inizio di una genealogia nel nome del Padre, solo la prima «formalizzazione linguistica» di immagini, segni e idee in una memoria «sottratta» al Padre.
Non è l’aleph informe, dicevano i cabalisti, non l’impronunciabile non-lettera del non-nome del non-dio senza storia e senza scrittura. No, non è l’inizio analfabetico e ignorante del «divino segreto» che dice di voler «significare», ma solo la beth (la seconda lettera dell’alfabeto ebraico) di Berešit («in principio»), solo cioè la prima lettera della prima parola scritta del Libro.
È l’inizio che nasconde l’inizio, che gli dà una fine e lo sigilla in un termine – Thot è il dio della morte che ricomincia così una seconda vita. I suoi «artifici», i segni della scrittura o più in generale tutti i giochi di parola, sono la materia prima di quel mirabile inganno, di quel portentoso «farmaco», grazie a cui egli magicamente ci risuscita e ci inizia a quest’altra vita da vivere nel linguaggio umano e nei segni di memoria di una Tribù.
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Platone non descrive certo il personaggio di Theuth. Non gli è attribuito nessun carattere concreto, né nel Fedro, né nella brevissima allusione del Filebo. Tale è almeno l’apparenza. Ma a osservarlo con insistenza, si deve riconoscere che la sua situazione, il contenuto del suo discorso e delle sue operazioni, la relazione dei temi, dei concetti e dei significati in cui i suoi interventi sono inseriti, tutto ciò organizza il profilo di una figura fortemente marcata. L’analogia strutturale che li pone in rapporto con altri dèi della scrittura, e anzitutto con il Thot egiziano, non può essere effetto di un prestito frammentario o totale, né del caso o dell’immaginazione di Platone. E il loro inserimento simultaneo, così rigoroso e così serrato, nella sistematica dei filosofemi di Platone, questa congiunzione del mitologico con il filosofico rinvia a una necessità più nascosta.
Certamente il dio Thot ha più aspetti, più epoche, più ambientazioni. Il groviglio di racconti mitologici in cui è preso non deve essere trascurato. Tuttavia delle invarianti si distinguono dappertutto, si disegnano a grosse lettere, a tratti spiccati. Si sarebbe tentati di dire che costituiscono l’identità permanente di questo dio nel pantheon, se la sua funzione, come vedremo, non fosse quella di lavorare alla dislocazione sovversiva dell’identità in generale, a cominciare da quella del principato teologico.
Quali sono i tratti pertinenti per chi cerca di ricostruire la somiglianza strutturale tra la figura platonica e altre figure mitologiche dell’origine della scrittura? La messa in evidenza di questi tratti non deve soltanto servire a determinare ogni significato nel gioco delle opposizioni tematiche o nel discorso platonico, o ancora in una configurazione di mitologie. Essa deve aprire sulla problematica generale dei rapporti tra mitemi e filosofemi all’origine del logos occidentale. Vale a dire di una storia – o piuttosto della storia – che si è interamente prodotta all’interno della differenza filosofica tra mythos e logos, sprofondandovisi ciecamente come nell’evidenza naturale del proprio elemento.
Nel Fedro, il dio della scrittura è un personaggio subordinato, un secondo, un tecnocrate senza poteri di decisione, un ingegnere, un servitore astuto e ingegnoso ammesso a comparire davanti al re degli dèi. Quest’ultimo ha accettato di riceverlo nel suo consiglio. Theuth presenta una téchne e un pharmakon al re, padre e dio che parla e comanda con la sua voce assolata. Quando questi avrà fatto sentire la sua sentenza, quando l’avrà lasciata cadere dall’alto, quando avrà prescritto nell’atto stesso di lasciar perdere il pharmakon, allora Theuth non risponderà. Le forze in presenza vogliono che resti al suo posto.
Non ha forse lo stesso posto nella mitologia egiziana? Anche là, Thot è un dio generato. Esso si chiama spesso il figlio del dio-re, del dio-sole, di Ammon-Râ: «Io sono Thot, figlio maggiore di Râ». Râ (sole) è il dio creatore e genera con la mediazione del verbo. L’altro suo nome, quello con cui è designato precisamente nel Fedro, è Ammone. Senso acquisito da questo nome proprio: il nascosto. Qui, dunque, abbiamo un sole nascosto, padre di tutte le cose, che si lascia rappresentare dalla parola.
L’unità configurativa di questi significati – il potere della parola, la creazione dell’essere e della vita, il sole (cioè anche, come vedremo, l’occhio), il nascondersi – si coniuga in quella che si potrebbe chiamare la storia dell’uovo o l’uovo della storia. Il mondo è nato da un uovo. Più precisamente, il creatore vivente della vita del mondo è nato da un uovo: il sole, dunque, fu portato inizialmente nel guscio di un uovo. Fatto che spiega alcuni caratteri di Ammon-Râ: è anche un uccello, un falco («Io sono il grande falco uscito dal suo uovo»).
Ma in quanto origine di tutto, Ammon-Râ, è anche origine dell’uovo. Lo si designa ora come uccello-sole nato dall’uovo, ora come uccello originale, portatore del primo uovo. In questo caso, e poiché il potere della parola è uno con il potere creatore, certi testi nominano «l’uovo del grande ciarliero». Non avrebbe alcun senso porre qui la domanda, triviale e filosofica insieme, de «l’uovo e la gallina», dell’anteriorità logica, cronologica e ontologica della causa sull’effetto. A tale domanda hanno magnificamente risposto certi sarcofagi: «O Râ, che ti trovi nel tuo uovo». Se si aggiunge che l’uovo è un «uovo nascosto», si sarà costituito il sistema di queste significazioni.
La subordinazione di Thot, di quell’ibis, figlio maggiore dell’uccello originale, è messa in rilievo in diversi modi: nella dottrina menfita, ad esempio, Thot è l’esecutore, per la lingua, del progetto creatore di Horus. Porta i segni del grande dio-sole. Lo interpreta come il suo portavoce. E come il suo omologo greco Ermes, di cui Platone d’altronde non parla mai, detiene il ruolo di dio messaggero, di intermediario astuto, ingegnoso e raffinato che sottrae e si sottrae sempre. Il dio (del) significante. Ciò che egli deve enunciare o far sapere nelle parole, Horus l’ha già pensato. La lingua di cui lo si rende depositario e segretario non fa altro che rappresentare, per trasmetterne il messaggio, un pensiero divino già formato, un disegno bloccato. Il messaggio non è, rappresenta soltanto il momento assolutamente creatore. È una parola seconda e secondaria. E quando Thot ha a che fare con la lingua parlata invece che con la scrittura, il che è piuttosto raro, egli non è l’autore o l’iniziatore assoluto del linguaggio. Egli introduce al contrario la differenza nella lingua ed è a lui che si attribuisce l’origine della pluralità delle lingue.
Dio del linguaggio secondo e della differenza linguistica, Thot può diventare dio della parola creatrice solo per sostituzione metonimica, per spostamento storico e talvolta per sovversione violenta.
La sostituzione pone così Thot al posto di Râ come la luna al posto del sole. Il dio della scrittura diventa così il supplente di Râ, aggiungendosi a lui e sostituendolo nella sua assenza ed essenziale sparizione. Tale è l’origine della luna come supplemento del sole, della luce notturna come supplemento della luce diurna. La scrittura, come supplemento alla parola.
«Mentre Râ era in cielo, disse un giorno: “Fatemi venire Thot“, e lo condussero a lui sull’istante. La Maestà di questo dio disse a Thot: “Stai nel cielo al mio posto, mentre io splendo per i beati nelle regioni infere… Tu sei al mio posto, mio sostituto e ti si chiamerà così: Thot, il sostituto di Râ. Poi nacquero cose di ogni sorta grazie a dei giochi di parole di Râ. Egli disse a Thot: “Farò in modo che tu abbracci (ionh) entrambi i cieli con la tua bellezza e con i tuoi raggi, – allora nacque la luna (ioh)“. Più avanti, alludendo al fatto che Thot occupa, in quanto sostituto di Râ, un rango un po’ subalterno: “Io farò in modo che tu invii (hob) cose più grandi di te“, – allora nacque l’Ibis (hib), l’uccello di Thot».
Questa sostituzione, operata dunque come un puro gioco di tracce e di supplementi o, se si preferisce, nell’ordine del puro significante che nessuna realtà, nessun riferimento assolutamente esterno, nessun significato trascendente interviene a circoscrivere, a limitare, a controllare, questa sostituzione che si potrebbe giudicare «folle» perché si mantiene all’infinito nell’elemento della permutazione linguistica di sostituti, e di sostituti dei sostituti, quest’incatenamento scatenato non è meno violento. Non si sarebbe capito niente di questa «immanenza» «linguistica» se si vedesse in essa l’elemento tranquillo di una guerra fittizia, di un gioco di parole inoffensivo, in opposizione a qualche polemos che infuriasse nella «realtà».
Non è in una realtà estranea ai «giochi di parole» che Thot partecipa così frequentemente a complotti, operazioni perfide, manovre di usurpazione dirette contro il re. Egli aiuta i figli a sbarazzarsi del padre, i fratelli a liberarsi del fratello quando quest’ultimo è diventato re. Nut, maledetta da Râ, non disponeva di nessuna data, di nessun giorno del calendario per generare un figlio. Râ le aveva sbarrato il tempo e ogni giorno in cui dare alla luce, ogni periodo in cui mettere al mondo. Thot, che ha anche potere di calcolo sull’istituzione e sul procedere del calendario, aggiunge i cinque giorni epagomeni. Quel tempo supplementare permette a Nut di produrre cinque figli: Haroeris, Set, Iside, Neftys e Osiride che doveva più tardi diventare re al posto di suo padre Geb.
Durante il regno di Osiride (re-sole), Thot, che era anche suo fratello, «iniziò gli uomini alle lettere e alle arti», «creò la scrittura geroglifica per permettere loro di fissare i propri pensieri». Ma più tardi, partecipa a un complotto di Set, fratello geloso di Osiride. È nota la famosa leggenda della morte di Osiride: rinchiuso con uno stratagemma in uno scrigno fatto su misura, ritrovato dopo molte peripezie da sua moglie Iside, allorché il suo cadavere è stato squartato e poi disperso in quattordici pezzi. Iside li ritrova tutti ad eccezione del fallo inghiottito da un pesce ossirinco. Ciò non impedisce a Thot di agire con l’opportunismo più disinvolto e smemorato.
Trasformata in avvoltoio, infatti, Iside si era coricata sul cadavere di Osiride. Essa genera così Horus, «il bambino con-il-dito-in-bocca», che doveva in seguito provocare l’assassino di suo padre. Quest’ultimo, Set, gli strappò un occhio ed egli strappò a Set i testicoli. Quando Horus può riavere il suo occhio lo offre a suo padre – e quest’occhio fu anche la luna: Thot, se si vuole – che ne fu rianimato e ritrovò la propria potenza. Durante il combattimento, Thot aveva separato i combattenti, e come dio-medico-farmacista-mago, aveva guarito la mutilazione e ricucito le ferite. Più tardi, quando l’occhio e i testicoli furono a posto, ebbe luogo un processo, durante il quale Thot si rivolse contro Set di cui pure era stato complice, e fece valere come vera la parola di Osiride.
Supplente capace di duplicare il re, il padre, il sole, la parola, da cui si distingue solo come suo rappresentante, sua maschera, sua ripetizione, Thot poteva anche naturalmente soppiantarlo in pieno e impadronirsi di tutti i suoi attributi. Egli si aggiunge come l’attributo essenziale di ciò a cui s’aggiunge e da cui non si distingue quasi per nulla. È diverso dalla parola e dalla luce divina solo come il rivelante dal rivelato. Appena.
Ma prima, se così si può dire, dell’adeguazione di sostituzione e di usurpazione, Thot è essenzialmente il dio della scrittura, il segretario di Râ e dei nove dèi, ierogrammata e ipomnetografo. Ora è proprio precisando che il pharmakon della scrittura era utile sì per l’hypomnesis (ri-memorazione, raccoglimento, consegna) ma non per la mneme (memoria vivente e conoscente) che Thamus, nel Fedro, ne accusa lo scarso valore.
In seguito, nel ciclo osiriano, Thot fu anche lo scriba e il contabile di Osiride, che si considera allora, non lo dimenticheremo, come suo fratello. Thot vi è rappresentato allora come il modello e il patrono degli scrivani, così importanti nelle cancellerie faraoniche: «Se il dio solare è il padrone universale, Thot è il suo primo funzionario, il suo visir, che sta accanto a lui sulla sua barca per fargli i suoi rapporti». «Padrone dei libri, egli diventa, consegnandoli, registrandoli, tenendone il conto e custodendone il deposito, il “padrone delle parole divine”».
Anche la sua compagna scrive: il suo nome, Seshat, significa probabilmente colei-che-scrive. «Padrona delle biblioteche», essa registra le gesta dei re. Prima dea capace di incidere, essa segna i nomi dei re su un albero nel tempio di Eliopoli, mentre Thot tiene il conto degli anni su un bastone intagliato. Si conosce anche la scena della titolatura reale, riprodotta nei bassorilievi di molti templi: il re è assiso sotto una persea, mentre Thot e Seshat iscrivono il suo nome sulle foglie di un albero sacro. E quella del giudizio dei morti: negli inferi, di fronte a Osiride, Thot consegna il peso del cuore-anima del morto.
Il dio della scrittura è infatti, è evidente, anche il dio della morte. Non dimentichiamo che, nel Fedro, si rimprovererà all’invenzione del pharmakon anche di sostituire il segno senza fiato alla parola vivente, di pretendere di fare a meno del padre (vivente e fonte di vita) del logos, di non potere rispondere di sé più di una scultura o di una pittura inanimata, ecc.
In tutti i cicli della mitologia egiziana, Thot presiede all’organizzazione della morte. Il padrone della scrittura, dei numeri e del calcolo, non scrive solo il peso delle anime morte, ma avrà anzitutto contato i giorni della vita, avrà enumerato la storia. La sua aritmetica copre anche gli eventi della biografia divina. È «colui che misura la durata della vita degli dèi (e) degli uomini». Si comporta come un capo del protocollo funebre ed in particolare è incaricato della toeletta del morto.
Talvolta il morto prende il posto dello scrivano. E nello spazio di questa scena, il posto del morto diventa di Thot. Si può leggere sulle piramidi la storia celeste di un morto: «Dove va?», chiede un grosso toro che lo minaccia con il corno (un altro nome di Thot, rappresentante notturno di Râ, è, come notiamo in questo passo, il «toro fra le stelle»). «Sale al cielo pieno di energia vitale per vedere suo padre, per contemplare Râ» e quell’essere spaventoso lo lascia passare. (I libri dei morti posti nella bara accanto al cadavere contenevano fra l’altro delle formule che dovevano permettergli di «uscire alla luce» e di vedere il sole. Il morto deve vedere il sole, la morte è la condizione ed anche l’esperienza di questo faccia-a-faccia. Si pensi al Fedone). Dio padre lo accoglie nella sua barca, e «capita persino che ne scarichi il proprio scriba celeste e che ponga il morto al suo posto, di modo che egli giudichi, è arbitro e dà ordini a uno che è più grande di lui». Il morto può anche identificarsi semplicemente con Thot, «si chiama semplicemente un dio; è Thot, il più forte degli dèi».
L’opposizione gerarchica tra il figlio ed il padre, tra il suddito e il re, tra la morte e la vita, tra la scrittura e la parola, ecc., completa naturalmente il suo sistema con quello tra la notte ed il giorno, tra l’Occidente e l’Oriente, la luna e il sole. Thot, il «notturno rappresentante di Râ, il toro fra le stelle», è rivolto a ovest. È il dio della luna, sia che si identifichi con essa, sia che la protegga.
Il sistema di questi caratteri pone in opera una logica originale: la figura di Thot si oppone al suo altro (padre, sole, vita, parola, origine o oriente, ecc.), ma sostituendolo. Si unisce e si oppone ripetendo o prendendo il posto. Nello stesso tempo, prende forma, assume la propria forma da ciò cui resiste e insieme si sostituisce. Si oppone quindi a se stessa, passa nel proprio opposto e questo dio-messaggero è davvero un dio del passaggio assoluto tra gli opposti. Se avesse un’identità – ma è precisamente il dio della non-identità – sarebbe una coincidentia oppositorum.
Distinguendosi dal suo altro, Thot lo imita al tempo stesso, se ne fa segno e rappresentante, gli ubbidisce, gli si conforma, Io sostituisce, se occorre con la violenza. Egli è dunque l’altro del padre, il padre e il movimento sovversivo della sostituzione. Il dio della scrittura è dunque contemporaneamente suo padre, suo figlio e se stesso. Egli non si lascia assegnare un posto fisso nel gioco delle differenze. Astuto, inafferrabile, mascherato, cospiratore, buffone, come Ermes, non è né un re né un servo; una specie di joker piuttosto, un significante disponibile, una carta neutra, che dà gioco al gioco.
Questo dio della risurrezione si interessa meno della vita o della morte che della morte come ripetizione della vita, e della vita come ripetizione della morte, del risveglio della vita e del ricominciare della morte. È questo il significato del numero di cui è anche inventore e patrono. Thot ripete tutto nell’addizione del supplemento: supplente del sole, egli è altro dal sole e lo stesso che il sole; altro dal bene e lo stesso che il bene, ecc. Prendendo sempre il posto che non è suo, e che si può anche chiamare il posto del morto, non ha luogo né nome proprio.
La sua proprietà è l’improprietà, l’indeterminazione fluttuante che permette la sostituzione e il gioco. Il gioco di cui è anche inventore. Platone stesso lo ricorda. A lui si deve il gioco dei dadi (kybéia) e il tric-trac (pettéia) (274d). Sarebbe il movimento mediatore della dialettica se non lo mimasse anche, impedendogli con quel raddoppiamento ironico, indefinitamente, di concludersi in qualche compimento finale o in qualche riappropriazione escatologica. Thot non è mai presente. In nessun luogo appare in persona. Nessun esserci gli appartiene in proprio.
Tutti i suoi atti sono marcati da questa ambivalenza instabile. Questo dio del calcolo, dell’aritmetica e della scienza razionale comanda anche alle scienze occulte, all’astrologia, all’alchimia. È il dio delle formule magiche che calmano il mare, dei racconti segreti, dei testi nascosti: archetipo di Ermes, dio del crittogramma non meno che della grafia.
Scienza e magia, passaggio tra vita e morte, supplemento del male e della mancanza: la medicina doveva costituire l’ambito privilegiato di Thot. Tutti i suoi poteri vi si riassumevano e trovavano modo di esercitarvisi. Il dio della scrittura, che sa porre fine alla vita, guarisce anche i malati. E perfino i morti. Le steli di Horus sui Coccodrilli raccontano come il re degli dèi mandi Thot a guarire Harsiésis, morso da un serpente in assenza di sua madre. La crittografia, la medicina magica e la figura del serpente sono del resto collegate in uno stupefacente racconto popolare: l’avventura di Satni-Khâmoîs con le mummie.
Il dio della scrittura è dunque un dio della medicina. Della «medicina»: insieme scienza e droga occulta. Del rimedio e del veleno. Il dio della scrittura è il dio del pharmakon. Ed è la scrittura come pharmakon che egli presenta al re nel Fedro, con una umiltà inquietante come la sfida.
(Derrida, La farmacia di Platone)