Yates – Il «segreto» di Giordano Bruno

Ho già avuto modo in un altro libro [Giordano Bruno e la tradizione ermetica] di attirare l’attenzione su certe voci secondo cui Bruno avrebbe fondato, in Germania, una setta, detta dei «Giordanisti», e ho formulato l’ipotesi che essa possa aver avuto qualcosa a che Paracelso-paintfare con i Rosacroce, la misteriosa confraternita della Croce Rosa, annunciata da manifesti in Germania agli inizi del secolo XVII, attorno alla quale si sa tanto poco che alcuni studiosi concludono che non è mai esistita.
È un problema ancora misterioso e irrisolto se ci sia stato o no qualche legame tra questi Rosacroce, di cui solo si vocifera, e le origini della massoneria, di cui si sente parlare come istituzione in Inghilterra per la prima volta nel 1646, quando venne fatto massone Elias Ashmole. Bruno, comunque, diffuse le sue idee sia in Inghilterra, sia in Germania, sicché i suoi movimenti potrebbero essere considerati una fonte comune al Rosacrucianesimo e alla massoneria.

Le origini della massoneria sono avvolte nel mistero, sebbene le si voglia far derivare da corporazioni medievali di muratori «operanti», cioè costruttori effettivi. Nessuno è riuscito a spiegare come queste corporazioni «operanti» si siano trasformate nella massoneria «speculativa», e l’uso simbolico delle immagini architettoniche nel rituale massonico.
Questi argomenti sono stati il fertile terreno di caccia di scrittori dall’immaginazione sbrigliata, con scarso freno critico. È tempo che siano esaminati con metodi adeguati di critica storica e ci sono indizi che questo tempo si stia avvicinando.

Nella prefazione a un libro sulle origini della massoneria si afferma che la sua storia non dovrebbe essere considerata come una cosa a parte, ma come una branca di storia sociale, lo studio di una particolare istituzione e delle idee che le stanno alla base, «che deve essere studiata e descritta esattamente secondo il metodo della storia delle altre istituzioni» (Douglas Knoop e G. P. Jones, La genesi della frammassoneria).
Altri più recenti libri sull’argomento si sono mossi nella direzione di un’indagine storica rigorosa, ma gli autori di questi libri hanno dovuto lasciare irrisolto il problema dell’origine della massoneria «speculativa», con il suo uso simbolico di colonne, di archi, e di altre caratteristiche architettoniche, e di un simbolismo geometrico, come cornice entro cui essa presenta un insegnamento morale e una prospettiva mistica indirizzata al divino architetto dell’universo.

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Per parte mia, penso che la risposta a questo problema possa essere suggerita dalla storia dell’arte di memoria: la memoria occultista del Rinascimento, come fu concepita nel Teatro di Camillo e come fu ardentemente propagandata da Giordano Bruno, può essere stata la fonte reale di un movimento ermetico e mistico, che utilizzava non l’architettura reale di una «massoneria operativa», ma l’architettura immaginaria o «speculativa» dell’arte di memoria, come veicolo delle proprie dottrine.
Un esame accurato del simbolismo tanto dei Rosacroce quanto della massoneria può finalmente confermare questa ipotesi. Una ricerca del genere non rientra negli obiettivi del presente libro, indicherò comunque alcune linee su cui la ricerca potrebbe essere condotta.

Un manifesto o Fama del 1614, che si attribuisce comunemente ai Rosacroce, parla di misteriose «ruote» e di una sacra «volta», le cui pareti, tetto e pavimento, erano divise in sezioni, ciascuna con varie figure o sentenze. Questo potrebbe essere qualcosa di simile a un uso occultistico della memoria artificiale.
Poiché per la massoneria non esistono testimonianze sino a epoca assai posteriore, il confronto qui si dovrebbe fare con il simbolismo massonico del tardo secolo XVII e del massoneria-Royal-Arch-simbolisecolo XVIII, e forse soprattutto con il simbolismo di quel ramo della massoneria che è conosciuto come «Royal Arch». Alcune vecchie stampe, alcuni stendardi e grembiuli della massoneria del «Royal Arch», con i loro disegni di archi, colonne, figure geometriche ed emblemi, si presentano come tali da potersi collocare molto bene nella tradizione della memoria occultista. Questa tradizione potrebbe essere stata interamente dimenticata, e da qui deriverebbe la lacuna nella storia delle origini massoniche.

Il vantaggio di questa teoria consiste nella possibilità di offrire un legame con le manifestazioni tardive della tradizione ermetica nelle società segrete e nella grande tradizione rinascimentale. Perché il segreto di Bruno era un segreto più o meno palese nel primo Rinascimento. Il segreto era una combinazione delle credenze ermetiche con le tecniche dell’arte di memoria.

Nel primo Cinquecento tutto ciò poteva essere visto come incorporato naturalmente in una tradizione rinascimentale, quella del neoplatonismo di Ficino e di Pico, come si diffuse da Firenze a Venezia. Era un esempio dello straordinario influsso del Rinascimento sui libri ermetici, che rivolgevano la mente dell’uomo verso la fabrica mundi, l’architettura divina del mondo, come oggetto di venerazione religiosa e sorgente di un’esperienza religiosa.
Nel tardo Cinquecento, l’età più agitata in cui Bruno trascorse la sua vita, la pressione delle circostanze, sia politiche sia religiose, può avere spinto il «segreto» verso forme sempre più «sotterranee»; ma vedere in Bruno solo il propagandista di una società segreta (anche se può esserlo stato) sarebbe perdere di vista il suo vero significato.

Perché il suo segreto, il segreto ermetico, fu il segreto di tutto il Rinascimento. Mentre viaggia di paese in paese con il suo messaggio «egizio», Bruno comunica il Rinascimento in una forma assai tardiva, ma singolarmente intensa. Quest’uomo possiede in pieno il potere creativo del periodo rinascimentale. Egli crea nell’interiorità le forme smisurate della sua immaginazione cosmica, e quando esterna queste forme in creazioni letterarie, erompono alla vita opere di genio, i dialoghi che scrisse in Inghilterra.

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Se avesse esternato nei modi delle arti figurative le statue che plasmava nella sua memoria o l’affresco magnifico delle costellazioni che dipingeva nello Spaccio della bestia trionfante, sarebbe apparso un grande artista figurativo. Ma la missione di Bruno era dipingere e modellare dentro, insegnare che l’artista, il poeta, il filosofo sono tutt’uno, poiché la madre delle muse è la memoria. Nulla si produce che non abbia prima acquistato forma all’interno della psiche, ed è all’interno che il lavoro significante si compie.

Abbiamo dinanzi agli occhi lo sforzo tremendo di formazione delle immagini, da lui insegnato nei trattati di memoria: esso ha un significato per le forze creative dell’immaginazione rinascimentale. Ma che dire della maniera particolareggiata in modo così impressionante con cui egli espone queste arti, delle ruote mobili caricate, non in generale ma in dettaglio, dei contenuti del mondo naturale e del mondo umano, dei paurosi cumuli di stanze di memoria nel sistema descritto nel suo De imaginum, signorum et idearum compositione [Sulla composizione di immagini, segni e idee]? È possibile che questi sistemi siano stati costruiti solo per far passare i codici o i rituali di una società segreta? Oppure, se Bruno credeva in essi veramente, si debbono prendere senz’altro come l’opera di un pazzo?

C’è indubbiamente, penso, un elemento patologico nell’impulso a costruire sistemi, che è una delle caratteristiche principali di Bruno. Ma che appassionata esigenza di metodo c’è pellicano-massonicoin questa follia!
La magia mnemonica di Bruno non è la magia poltronesca dell’Ars notoria, dove chi la pratica, si limita a fissare appunto una nota, mentre recita preghiere magiche. Bruno con operosità instancabile aggiunge ruote a ruote, accumula stanze di memoria su stanze di memoria. Con infinito impegno egli forma le innumerevoli immagini che debbono riempire i sistemi; le possibilità sistematiche sono infinite e debbono essere tentate tutte.
Ebbene, in tutto questo c’è qualcosa che può essere descritto come un elemento scientifico, un presagio, sul piano dell’occultismo, della preoccupazione per il metodo che caratterizza il secolo successivo. Perché, se la memoria era la madre delle muse, essa doveva essere anche la madre del metodo.

Ramismo, lullismo, arte di memoria – tutte queste costruzioni confuse, costruite con tutti i metodi di memoria che formicolano nel tardo Cinquecento e nel primo Seicento – sono sintomi della ricerca di un metodo. Se ci si pone nel contesto di questa ricerca in sviluppo, anzi di questa urgenza, appare significativa non tanto la follia dei sistemi di Bruno, quanto la intransigente volontà, che esprimono, di scoprire un metodo.

Alla fine di questo mio tentativo di uno studio sistematico delle opere di Bruno sulla memoria vorrei sottolineare che non è mia pretesa averle capite completamente. Quando successivi ricercatori abbiano scoperto ulteriori elementi attorno ai temi quasi sconosciuti e non studiati che questo nostro libro tenta di trattare, sarà maturo il tempo per realizzare una comprensione, più completa di quella che io sia riuscita a raggiungere, di queste opere straordinarie e della psicologia della memoria occultista.
Per parte mia, mi sono sforzata di compiere, come premessa necessaria per la comprensione, un tentativo di collocarle in una sorta di contesto storico.

Fu l’arte medievale della memoria, con le sue connessioni etiche e religiose, che Bruno trasformò nei suoi sistemi occultistici. Questi poi mi sembra possano avere rilevanza storica sotto tre aspetti: probabilmente sviluppano la memoria occultista nella direzione di società segrete; certamente contengono ancora, nella sua pienezza, il potere artistico e immaginativo del Rinascimento; preludono, infine, alla funzione che arte di memoria e lullismo svolsero per lo sviluppo di un metodo scientifico.
Ma nessuna trama storica, nessun esame di correnti o influssi, nessuna analisi psicologica potrà mai riuscire a cogliere o individuare in modo del tutto soddisfacente l’uomo eccezionale che fu Giordano Bruno, il mago della memoria.

(Yates, L’arte della memoria)

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Ma quale «segreto» vai cercando? Se c’è un «segreto» di Giordano Bruno, non è sulle tracce di un improbabile Giordano Bruno segreto, che lo scoprirai. Il «segreto», è lo stesso Giordano Bruno a dirlo: il mio, il tuo, quello di un altro, è dipinto e modellato dentro la mente. Dipinto senza colori, o con colori troppo puri per confondersi coi nostri, e modellato senza argilla, o semmai con argilla così immateriale da essere trasparente e aprirsi a infinite illuminazioni.
Trasparente, per es., alle ispirazioni artistiche dell’uomo, anche se le arti figurative non ne riproducono che simulacri – la stessa Elena la Bella, magari in carne e ossa, non è che un’ombra di quell’«immagine» e «forma ideale» che anima la mente del dottor Faust – e la stessa letteratura, tutte le lettere scritte e non scritte, non ne riproducono altro che «segni». Parole, nient’altro che parole che «giustificano» parole.

No, il «segreto» è un’altra cosa. È altrove, anche se vicinissimo alle parole. Il «segreto», qualunque «segreto», è al di là del «vicinissimo», al di là del Segno che ci è più intimo e familiare. Il «segreto» è al di là di ogni significazione. Se è «segreto», se è nato vive e morrà «segreto», è perché è presignificante. Se così non fosse, dovremmo rassegnarci Costantino-ombreall’idea che sono i segni, le immagini, le ombre, i simulacri, a generarlo. Non il «segreto» a darsi dei «segni» per manifestarsi – ma dei «segni» a confezionare i propri fantasmatici «segreti». I propri revenant, per dirla alla francese. I «torna indietro», i salmoni della memoria. Fantasmi.

Insomma: sono i Segni a fantasticare una memoria, o è la Memoria (e a questo punto, come chiamarla se non «trascendentale»?) a darsi dei segni? O magari… nessuna delle due, perché magari… stiamo usando segni inadeguati alla difficoltà dell’impresa? Ma di quale impresa, se non di quella a cui lo stesso Giordano Bruno «pazziava»? L’impresa era poi, davvero, la ricerca di quel «metodo» che di lì a poco avrebbe annunciato Cartesio (io è il Segno di cui si può dire che è il «fondamento inconcusso», io e non più dio, ed ecco il sistema è assicurato al di là di ogni fede o credenza, assicurato alla «scienza»)?

Io è il segno (della posizione nel Discorso della Tribù) di un «segreto». È il «segreto» che, volendo dire di sé alla Tribù, si dà l’io come segno: ehi, sono qua!
Ma qua, dove? nel segno o al di là di esso? Se, come Giordano Bruno, cerchi di venire a capo del tuo «segreto», perché ti fermi al segno e… non entri? Sì, va beh, ma entrare dove? in una storia delle idee, in una storia della filosofia?
Macché, sarebbe come perdersi nel labirinto dei segni! E allora, sai quanti ne incontrerai per strada di quelli che a parole spaccano il capello: ci vuole metodo, ti diranno, metodo scientifico, magari un tutt’uno di filosofia poesia e scienza, un fritto misto (come se non ci fosse già stato, e non lo vedessimo già qui dinanzi ai nostri occhi, all’inizio del terzo millennio) – un metodo per non impazzire in tanta dovizie di chiacchiere. Ecco cosa ci vuole, dice il Filosofo. Dice che ci vogliono parole buone a «filosofeggiare» intorno ad altre parole. Sapessi che soddisfazione!

In quanto al «segretuccio» di Giordano Bruno (ma che? ci vuole Freud per capire che si trattava di un caso di «erotismo» troppo intenso per stare tutto dentro le lettere, i segni e Durand-rogo-Giordano-Brunole immaginazioni?) – in quanto al suo «segretuccio», solo questo possiamo dire: che lasciò tanti e tanti segni, ruote su ruote, stanze dentro altre stanze, sigilli apposti a sigilli, e furori a furori sempre più eroici, fino all’ultimo, fino al rogo, sempre riproducendo lo stesso ardente desiderio di «volersi dire», di annunciarsi alla Tribù – insomma, sempre quella stessa impotenza a dire l’indicibile segreto: a significare il Presignificante del suo «io».

Cos’era la sua? pazzia allo stato puro, quella pazzia «sistematica» che affligge l’impotenza dell’umana gente a contentarsi del quia? la pazzia che insiste a dare la caccia al Presignificante di cui nessun segno «dice», provando ad accerchiarlo da tutti i lati con un Sistema di segni, o con la Struttura di un Significato – eccolo il dio, il despota, – unico ed univoco?
Può essere. Come anche potrebbe essere che ci vuole «eroismo» per essere all’altezza del proprio «segreto» quando si cade nelle mani dei tributari della Tribù. Li vedi? stanno già accatastando legna per il prossimo rogo. La Tribù ama l’arrosto! Quello di carne umana, poi, ha un sapore speciale. Ma sì, gli Inquisitori di ogni tempo e luogo, aztechi e non, sono dei buongustai.