Clastres – L’Uno è lo Stato

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La proprietà essenziale (cioè che racchiude l’essenza) della società primitiva, è quella di esercitare un potere assoluto e completo su tutto ciò che la compone, è di interdire l’autonomia di uno qualsiasi dei sotto-insiemi che la costituiscono, è di mantenere tutti i movimenti interni, consci e inconsci, che alimentano la vita sociale, nei limiti e nella direzione voluti dalla società. La tribù manifesta tra l’altro (e con la violenza se occorre) la sua volontà di preservare questo ordine sociale primitivo, impedendo l’emergere di un potere politico individuale, centrale e separato. Società dunque a cui nulla sfugge, che non lascia sfuggirsi niente, in quanto tutte le vie di uscita sono chiuse. Società che, di conseguenza, dovrebbe eternamente riprodursi senza che niente di sostanziale la modifichi nel tempo.

C’è tuttavia un campo che, a quanto pare, sfugge, in parte almeno, al controllo della società: è un «flusso» a cui essa pare non poter imporre che una «codifica» imperfetta: si tratta dell’ambito demografico, ambito retto da regole culturali, ma anche da leggi naturali, spazio in cui si dispiega una vita radicata a un tempo nel sociale e nel biologico, luogo di una «macchina» che funziona forse secondo una propria meccanica e che giovane-Guaranisarebbe, di conseguenza, fuori dalla portata del controllo sociale.

Senza illuderci di poter qui sostituire a un determinismo economico un determinismo demografico, da inscrivere tra le cause (la crescita demografica – la necessità degli effetti – la trasformazione dell’organizzazione sociale), non possiamo però fare a meno di constatare, soprattutto in America, il peso sociologico del numero della popolazione, la capacità che ha l’aumento delle densità – non diciamo di distruggere – ma di scuotere la società primitiva. È assai probabile infatti che una condizione fondamentale d’esistenza della società primitiva consista nella relativa esiguità della sua ampiezza demografica. Le cose non possono funzionare secondo il modello primitivo se non là dove le genti sono poco numerose. O, in altri termini, perché una società sia primitiva, bisogna che sia poco numerosa.

E, di fatto, ciò che si constata nel mondo dei Selvaggi, è una straordinaria frammentazione delle «nazioni», tribù e società in gruppi locali che vogliono rigorosamente serbare la loro autonomia in seno all’insieme di cui fanno parte, salvo concludere alleanze provvisorie con i vicini «compatrioti», se le circostanze – guerriere in particolare – lo richiedono. Questa atomizzazione dell’universo tribale è certamente un mezzo efficace per impedire la costituzione d’insiemi socio-politici che unifichino i gruppi locali e, in più, un mezzo per impedire l’emergere dello Stato che, nella sua essenza, è unificatore.

Ora, è sorprendente constatare che i Tupi-Guaranì sembrano, all’epoca in cui l’Europa li scopre, discostarsi sensibilmente dal modello primitivo abituale, e su due punti essenziali: il tasso di densità demografica delle loro tribù o gruppi locali supera nettamente quello delle popolazioni vicine; inoltre, la dimensione dei gruppi locali è incomparabilmente più modesta di quella delle unità socio-politiche della Foresta Tropicale. Beninteso, i villaggi Tupinamba per esempio, che radunano parecchie migliaia di abitanti, non erano delle città; ma nondimeno cessavano d’appartenere all’orizzonte «classico» della dimensione demografica delle società vicine.

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Su questo fondo d’espansione demografica e di concentrazione della popolazione si staglia – fatto egualmente insolito nell’America dei Selvaggi, se non in quella degli Imperi – l’evidente tendenza delle leadership ad acquisire un potere altrove sconosciuto. I capi Tupi-Guaranì non erano certo dei despoti, ma non erano neanche dei capi senza potere. Non è qui il luogo per intraprendere il lungo e complesso compito di analizzare la leadership presso i Tupi-Guaranì. Ci basti semplicemente rilevare, a un capo della società, se così si può dire, la crescita demografica, e all’altro, il lento emergere del potere politico. Non tocca certo all’etnologia (o perlomeno non a essa sola) rispondere alla questione delle cause dell’espansione demografica in una società primitiva. Tocca semmai a questa disciplina l’articolazione del demografico e del politico, l’analisi della forza esercitata dal primo sul secondo con la mediazione del sociologico.

Abbiamo affermato più volte l’impossibilità interna di un potere politico separato in una società primitiva, l’impossibilità della genesi di uno Stato a partire dall’interno della società primitiva. Ed ecco che ora, a quanto sembra, siamo proprio noi a tirare in ballo, contraddittoriamente, i Tupi-Guaranì come un caso di società primitiva da cui sarebbe cominciato a sorgere quello che poi doveva diventare lo Stato. Incontestabilmente si sciamano-amazzonicosviluppava, in queste società, un processo, in corso senza dubbio da molto tempo, di costituzione di una leadership il cui potere politico non era più trascurabile. A tal punto che i cronisti francesi e portoghesi dell’epoca non esitano ad attribuire ai grandi capi di federazioni di tribù i titoli di «re di provincia» o «reucci».

Questo processo di trasformazione profonda della società Tupi-Guaranì subì una brusca interruzione con l’arrivo degli Europei. Questo significa forse che, se la scoperta del Nuovo Mondo fosse stata differita d’un secolo per esempio, una formazione statale avrebbe avuto il tempo di imporsi alle tribù indie del litorale brasiliano? È sempre facile, e rischioso, ricostruire una storia ipotetica che niente potrebbe smentire. Ma, nel caso presente, noi pensiamo di poter rispondere con fermezza negativamente: no, non fu l’arrivo degli Occidentali a far abortire l’emergere possibile dello Stato presso i Tupi-Guaranì, bensì un soprassalto della stessa società in quanto società primitiva, un soprassalto, un sollevamento in qualche modo diretto, se non esplicitamente contro le leadership, quantomeno, nei suoi effetti, teso a distruggere il potere dei capi. Intendiamo parlare di quello strano fenomeno che, negli ultimi decenni del XV secolo, agitava le tribù Tupi-Guaranì, la accalorata predicazione di certi uomini che, di gruppo in gruppo, chiamavano gli Indios ad abbandonare tutto per mettersi alla ricerca della Terra senza Male, del paradiso terrestre.

Leadership e linguaggio sono, nella società primitiva, intrinsecamente legati, la parola è il solo potere devoluto al capo: anzi, la parola è per lui un dovere. Ma c’è un’altra parola, un altro discorso, articolato non dai capi, ma da quegli uomini che nel XV e XVI secolo spinsero migliaia di Indios a seguirli nelle loro folli migrazioni alla ricerca della patria degli dèi: è il discorso dei karai, è la parola profetica, parola virulenta, eminentemente sovversiva, a chiamare gli Indios a intraprendere quella che bisogna riconoscere come la distruzione della loro società.

L’appello dei profeti ad abbandonare la terra cattiva, cioè la società così com’era, per accedere alla Terra senza Male, alla società della beatitudine divina, implicava la vecchio-Guaranicondanna a morte della struttura della società così com’era e del suo sistema di norme. Ora, su questa società gravavano sempre più fortemente il sigillo dell’autorità dei capi e il peso del loro potere politico nascente. Forse questo è il caso in cui è fondato dire che, se i profeti sorti dal cuore della società proclamavano cattivo il mondo in cui vivevano gli uomini, è perché coglievano l’infelicità, il male, in quella morte lenta a cui il potere emergente condannava, a breve o lungo termine, la società Tupi-Guaranì come società primitiva, come società senza Stato. Abitati dal sentimento che l’antico mondo selvaggio era scosso nelle fondamenta, e tormentati dal presentimento d’una catastrofe socio-cosmica, i profeti decisero che bisognava cambiare il mondo, cambiare di mondo, abbandonare quello degli uomini e guadagnare quello degli dèi.

Parola profetica che tuttora è ancora viva. I tre o quattromila Indios Guaranì che sopravvivono miseramente nelle foreste del Paraguay godono tuttora della incomparabile ricchezza offerta loro dai karai. Questi non sono più, lo si sospetta, dei condottieri di tribù come i loro antenati del XVI secolo, non c’è più da mettersi in una possibile ricerca della Terra senza Male. Eppure, proprio la mancanza di atti pratici sembra aver permesso un’ebbrezza del pensiero, un approfondimento sempre più teso alla riflessione sull’infelicità della condizione umana. E questo pensiero selvaggio, quasi cieco per troppa luce, ci dice che il luogo di nascita del Male, della fonte dell’infelicità, è l’Uno.

Bisogna forse parlarne un po’ più a lungo e domandarsi cos’è che il saggio Guaranì designa col nome di Uno. I temi favoriti del pensiero Guaranì contemporaneo sono gli stessi che inquietavano, ormai più di quattro secoli fa, coloro che venivano chiamati karai, profeti. Perché il mondo è cattivo? Cosa possiamo fare per sfuggire al male? Domande che di generazione in generazione questi Indios non cessano di porsi: gli attuali karai si ostinano pateticamente a ripetere il discorso dei profeti di una volta. Questi sapevano dunque che l’Uno è il male, lo andavano dicendo di villaggio in villaggio, e le genti li seguivano nella ricerca del Bene, nella cerca del non-Uno.

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Si ha dunque, presso i Tupi-Guaranì del tempo della Scoperta, da un lato una pratica – la migrazione religiosa – inspiegabile se non vi si legge il rifiuto del potere politico separato, il rifiuto dello Stato; dall’altro, un discorso profetico che identifica l’Uno come la radice del Male e afferma la possibilità di sfuggirgli.
Ma a quali condizioni è possibile pensare l’Uno? Bisogna, in qualche modo, che la sua presenza, odiata o desiderata, sia visibile.
Ecco perché crediamo di poter cogliere, sotto l’equazione metafisica che eguaglia il Male all’Uno, un’altra equazione più segreta e di ordine politico, la quale dice che l’Uno è lo Stato.

Il profetismo Tupi-Guaranì è il tentativo eroico di una società primitiva di scongiurarne la sciagura col rifiuto radicale dell’Uno come essenza universale dello Stato.
Questa lettura «politica» di una affermazione metafisica dovrebbe allora spingerci a porre una domanda, forse sacrilega: non si potrebbe sottomettere alla prova di una simile lettura ogni metafisica dell’Uno? Che ne è dell’Uno come Bene, come oggetto preferenziale che, sin dalla sua aurora, la metafisica occidentale assegna al desiderio dell’uomo?
Atteniamoci a questa sorprendente evidenza: il pensiero dei profeti selvaggi e quello dei Greci antichi pensano la stessa cosa, l’Uno; ma l’indio Guaranì dice che l’Uno è il Male, Watson-indiomentre Eraclito dice che è il Bene. A quali condizioni è possibile pensare l’Uno come il Bene?

Ritorniamo, per concludere, al mondo esemplare dei Tupi-Guaranì. Ecco una società primitiva che, attraversata, minacciata dall’irresistibile ascesa dei capi, suscita nel proprio seno e libera delle forze capaci, fosse anche al prezzo di un quasi-suicidio di massa, di mettere sotto scacco la dinamica della leadership, di arrestare il movimento che l’avrebbe forse portata a trasformare i capi in re portatori di legge.
Da un lato i capi, dall’altro, e contro di loro, i profeti: questo è, tracciato nelle sue linee essenziali, il quadro della società Tupi-Guaranì alla fine del XV secolo. E la «macchina» profetica funzionava perfettamente bene dal momento che i karai erano capaci di trascinare al loro seguito un numero incredibile di Indios fanatizzati, si direbbe oggi, dalla parola di questi uomini, al punto di accompagnarli fino alla morte.

Cosa vuol dire questo? I profeti, armati del loro solo logos, potevano determinare una «mobilitazione» degli Indios, potevano realizzare questa cosa impossibile nella società primitiva: unificare nella migrazione religiosa la molteplice diversità delle tribù. Essi giungevano così a realizzare, in un sol colpo, il «programma» dei capi!
Inganno della storia? Fatalità che malgrado tutto vota la stessa società primitiva alla dipendenza?

E sia. Ma, in ogni caso, l’atto insurrezionale dei profeti contro i capi conferiva agli uni, con un strano ribaltamento delle cose, infinitamente più potere di quanti ne detenessero gli altri. Allora forse bisogna rettificare l’idea che abbiamo della parola come l’opposto della violenza. Se il capo selvaggio è tenuto a un dovere di parola innocente, la società primitiva può anche, a certe condizioni, mettersi in ascolto di un’altra parola, dimenticando che questa parola è detta come un comandamento: è la parola profetica. Nel discorso dei profeti germina forse il discorso del potere e, sotto i tratti esaltati della Guida di uomini che dice (e unifica) il desiderio degli uomini, si dissimula forse la silenziosa figura del Despota.

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Parola profetica, potere di questa parola: sarebbe questo il luogo originario del potere tout court, l’inizio dello Stato nel Verbo? Profeti conquistatori delle anime, prima d’essere padroni degli uomini?
Forse. Ma, fin nell’esperienza estrema del profetismo (perché senza dubbio la società Tupi-Guaranì aveva raggiunto, per delle ragioni demografiche o altre, i limiti estremi che determinano una società come società primitiva), come ci mostrano i Selvaggi, c’è lo sforzo permanente di impedire ai capi di essere dei capi, c’è il rifiuto dell’unificazione, c’è la fatica di scongiurare l’Uno, lo Stato. La storia dei popoli che hanno una storia è, si dice, la storia della lotta delle classi. La storia dei popoli senza storia, si dirà con almeno altrettanta verità, è la storia della loro lotta contro lo Stato.

(Clastres, La società contro lo Stato)