Rella – Il chiaro, dissolto Narciso

Le Elegie duinesi di Rilke sono un racconto di una straordinaria esperienza intellettuale e spirituale, che congiunge questo testo alle grandi avventure del pensiero umano.
Cerchiamo di seguire questo racconto che ci trasporta dal nirgends, dal «non-luogo», Rilke-Moscadallo spaesamento dal mondo, alle cose e alle figure che popolano il mondo. Un tragitto che è un atto di redenzione del soggetto non dalla caducità, come è stato detto, ma nella caducità.

La prima elegia si apre nel senso, nella percezione terribile della distanza. Nessuno degli angeli potrebbe udirmi, e se mi udisse, se mi stringesse al cuore, «perirei per la sua più forte esistenza». Dunque l’angelo non può soccorrere, e non può farlo l’uomo, né l’animale, che coglie il nostro disagio, il nostro spaesamento nel mondo pietrificato in una foresta di segni, in cui resistiamo soltanto «in virtù di una viziata abitudine».
E anche gli amanti si illudono di essere, mentre il loro abbraccio non fa che nascondere il polverizzarsi e svanire di tutto nel tutto, là dove noi non potremo mai raggiungerlo. E anche le ondate, le immagini, le figure che emergono dal passato, improvvise, non fanno che rendere più incerti e strani i pensieri che ci accompagnano fin dentro la nostra notte.

Il compimento? È forse nella voce che chiede delle amanti abbandonate? O nei giovani morti, che hanno lasciato «il loro nome come un giocattolo rotto», e che vedono fluttuare ciò che prima era connesso nel nome, libero nello spazio: essenza evanescente e perduta?
E gli angeli? «Camminano (si dice) senza sapere / se tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente / trascina ogni età nel regno dei morti e della vita / sempre con sé, ed è più forte in entrambi».

Terribili sono gli angeli, si dice ancora nella seconda elegia. Forme nitide, pura materia di luce, esonerati dalla caducità, dall’instabilità, dall’impermanenza e della corruzione. Specchi, che forse raccolgono ciò che da noi incessantemente fluisce.
Ne conservano traccia? O non sono, piuttosto, segno di una distanza e di una perdita irredimibile, dal momento che «tutto congiura a tacere di noi»? Specchi dunque di una impossibilità, impercorribili. E se le cose sembrano reggere, per ciò stesso ci diventano estranee. Ogni tentativo di trattenerle, o di trattenerci presso di loro, è destinato a fallire, anche l’amore: «un po’ di sensazione. Ma per questo chi oserebbe già essere?».

Toulouse-Lautrec-bacio

Il bambino, nella terza elegia, sembra essere protetto da questo terribile senso di consumo, di evanescenza e di morte, dalla madre che «penetra lo spazio notturno con lo spazio umano» per salvarlo da ciò. Ma «dentro di lui»? chi può contrastare «il flutto dell’origine»? Le «liane striscianti dell’intimo accadere», lo «spazio selvaggio al suo interno, la foresta primordiale che è in lui»? L’orrore lo conosceva prima della madre, gli faceva cenno, lo amava traendolo a sé.

Rilke si allontana da Duino. È ossessionato da queste immagini di perdita, dalla percezione tragica della caducità, che si traduce in alcuni frammenti senza esito apparente: gli eroi della VI Elegia, qualche verso della nona, vari abbozzi della decima. A Venezia, a Londra e a Parigi, a Monaco, in un continuo vagabondaggio, inseguito dal brusio, rifugiandosi in sé, nella privazione e nell’ansia.
La vita sembra manifestarsi solo attraverso qualche frammento delle Elegie, ma poi deve ripiegare «perché è sempre, fuori, la stessa precarietà». Egli si sente pesante, opaco, morto: «il mio corpo è divenuto come una trappola». Troppo lontano, «come al centro di una stella che va raffreddandosi, è il fuoco meraviglioso», la luce che doveva sprigionarsi dall’attraversamento delle forme del mondo e della caducità. Ora «viaggi ed energie, radicali mutamenti: tutto è perduto, per aver troppo teso il mio volto…».

È a questo punto, quasi sigillo di questa prima fase delle elegie e del loro impossibile proseguimento, che nel 1913 abbiamo i due testi, contemporanei, di Narciso.

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Waterhouse-Narciso

Narciso periva. Dalla sua bellezza incessantemente
spirava ciò che era prossimità al suo essere,
densa come profumo di eliotropio.
Ma era stabilito che egli si vedesse.

Egli amava sempre di nuovo ciò che da lui si allontanava
e più nulla di lui era nel vento aperto
e chiuse il cerchio delle forme estatico
e si sollevò e non poté più essere.

(Rilke, Poesie sparse)

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La prima parola del primo testo richiama direttamente i primi versi della prima Elegia. «Narciso periva». «Dalla sua bellezza incessantemente / spirava ciò che era prossimità al suo essere». Denso ed evanescente come l’odore dell’eliotropio, del fiore che si volge alla luce, cedendo all’aria, che lo trasporta lontano, è il suo profumo.

«Ma era stabilito che egli si vedesse». Vedersi, conoscersi è vedere e conoscere la propria perdita, il sé divenuto altro, ormai irraggiungibile.
«Egli amava sempre di nuovo ciò che da lui si allontanava». Rapito in questo cerchio magico, egli cerca di sottrarsi alla visione della sua perdita, «e si sollevò e non poté più essere».

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Greiner-Narciso

Questo dunque: questo esce da me e si dissolve
nell’aria o nella sensazione delle forre,
questo lievemente mi sfugge e già non è più mio
e splende, ché non incontra inimicizia.

Questo da me si leva incessante e fugge via,
non voglio perdermi, aspetto, indugio;
mentre fretta hanno tutti i miei limiti;
erompono e fuori sono già via.

Anche nel sonno. Nulla ci lega abbastanza.
Cedevole centro in me, nocciolo di debolezze,
che non trattiene la sua polpa. Fuga, o volo,
da ogni luogo della mia superficie.

Ciò che là si forma e certo mi somiglia
che emerge tremulo in segni lacrimati,
forse avrebbe potuto dentro una donna
generarsi; ma questo non fu possibile avere,
per quanto lo cercassi spingendomi in lei.
Ora giace aperto nella distesa d’acqua
indifferente, e posso a lungo mirarlo
stupito sotto la mia corona di rose.

Là non è più amato. Là null’altro c’è
se non indifferente la rovina delle pietre,
e io posso vedere quanto triste sono.
Questa era ai suoi occhi la mia immagine?

Si levò nel suo sogno fino alla soglia
di una dolce paura? Quasi già lo sento in me.
E dal momento che io mi perdo nel mio sguardo
potrei dunque pensare di essere immortale.

(Rilke, Poesie sparse)

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Chobanyan-Narciso

L’immagine, il profumo, la morte. Narciso. Narciso parla nella seconda poesia. «Questo esce da me e si dissolve / nell’aria o nella sensazione delle forre, / questo lievemente mi sfugge e già non è più mio».
Inutile è l’indugio, il tentativo di resistere e stare: «fretta hanno tutti i miei limiti; / erompono e fuori sono già via».
«Nulla ci lega abbastanza». Quell’immagine che lì trema sull’acqua forse voleva generarsi nel grembo di una donna, crescere in lei, venire alla luce, vivere, ma «questo non fu possibile avere, / per quanto lo cercassi spingendomi in lei». Essa giace dunque nell’aperto, sulla superficie dispersa delle acque, indifferente al mio stupore. E, sotto il velo che la porta, «è il nulla», è «la rovina delle pietre».

Lì, sostenuta appena sull’orlo della profondità è l’immagine che ha sfiorato gli occhi della donna, che si è levata dentro il suo sogno, fino ai margini della sua paura. Ora Narciso si perde nel suo stesso sguardo, nell’occhio spalancato sull’impermanenza, sull’acqua che si disperde, che tra un attimo lo disperderà. E in questo sguardo non scopre solo la propria morte, ma scopre, come nel mito di Dioniso morto mentre si fissava nello specchio, e dei Titani fulminati che generano dalla loro cenere la stirpe dei mortali, di essere egli stesso «mortifero», portatore di morte.

A Monaco, nel 1914, abbiamo la stesura della IV Elegia, l’elegia dei limiti, su cui urtano gli amanti nel loro abbraccio. Limite che è il profilo dell’«esterno», che contorna ogni figura Golebiowski-marionettache ci illudiamo di possedere, che non è che la maschera dell’altro. Meglio allora le marionette, lo spettacolo in cui, per un attimo, si aduna ciò che «esistendo noi disgiungiamo», in quello spazio di mezzo, che sta tra il gioco e il mondo, immagine del mondo intermedio in cui, nel pensiero antico, si mescolavano le figure del mondo alle figure celesti.
Ma anche questo spazio è abitato dalla morte, da una morte indescrivibile, incomprensibile, perché estranea al linguaggio della violenza e della malvagità, al linguaggio del sacrificio con cui soltanto sappiamo parlarne.

E poi un lungo, desertico silenzio. I rumori della guerra, il brusio del mondo, il rotolare dei carri, il dominio della morte e il lamento delle vittime, hanno riempito questo spazio. E nel 1922, a Muzot, la «grande vela delle elegie si dispiega». Subito dopo le immagini della precarietà e dell’impermanenza dei girovaghi e degli eroi della V e della VI Elegia, abbiamo, improvvisamente, la grande apertura della settima: Hiersein ist herrlich, essere qui è stupendo. Qui, infatti, nella precarietà, avvertiamo l’enigma di quella felicità «che ci si offre alla conoscenza, quando noi intimamente la trasformiamo».
Il mondo sembra racchiudersi e offrirsi in questa trasformazione: «In nessun luogo, amata, sarà mondo, se non in noi. / La nostra vita procede nella metamorfosi». E qui è «la cosa più strana». Proprio quando «lo spirito del tempo è informe», e le cose crescono senza misura, straniate e stranianti, sembra che a noi sia data la possibilità di serbare, proprio nel mutamento e nella metamorfosi, il segreto della «forma»: anche nella città che rovina, che si dissolve straniera.

«Angelo stupisci, perché noi siamo questo». La nostra non è più una supplica. Il grido chiama e respinge. E la mano tesa e aperta all’angelo è anche lo schermo che protegge il nostro essere umani, questa nostra felicità, questa possibilità di dar forma, di far diventare mondo ciò che giace informe presso di noi. Non l’abbraccio, dunque, con Jones-abbracciol’angelo che ci farebbe perire, ma la lotta con l’angelo.
Ma in noi, come si dice nell’VIII Elegia, sempre c’è mondo. Sempre sono le immagini dell’impermanenza e della morte, «e mai non-luogo senza negazioni: il puro». E dunque tutto rovina. Tutto ciò che ordiniamo rovina, e «noi stessi roviniamo», sempre nell’atto «di prendere congedo».

Ma non si era affermato che «essere qui è stupendo»? Che qui era una felicità possibile? È nella nona Elegia che Rilke scopre qualcosa che è più della felicità, più «del frettoloso godere di una cosa ben presto perduta».
L’essere qui, appunto, in questo nostro irrevocabile essere stati terreni, perché essere qui è molto, perché le cose effimere hanno bisogno di noi, i più effimeri. Non possiamo essere angeli, pura materia di luce. Non possiamo consegnare all’angelo e alle stelle l’indicibile, ma però «una parola conquistata», qui, dove è «il tempo del dicibile, la sua patria».

Nel tempo della tecnica, nel tempo di «un fare senza immagini», nel tempo del consumo e della perdita, noi resistiamo, frangendo i limiti e ponendo altri limiti, in cui le cose manifestano un essere a loro stesse incognito. E così possiamo mostrare all’angelo «come una cosa può essere felice, innocente, nostra / e come anche dolore e lamento, si schiudono puri nella forma, / diventano cosa, o muoiono nella cosa». La pura luce dell’angelo stupisce di questo sapere, di questi limiti che pongono forme. Stupisce di questa «redenzione» delle cose quando le trasmutiamo in noi, «chiunque noi siamo alla fine».

La metamorfosi delle cose è, allora, la nostra metamorfosi, che ci rende infiniti, nella percezione di «un’innumerevole esistenza che si sprigiona nel cuore». Certo, come si dice Jeanjoe-zombinella X Elegia, viviamo nelle città rumorose, nella colata del vuoto, nel frastuono, in luoghi dominati dal denaro, come stranieri in terra straniera. Eppure, «subito in là» c’è il reale, chiuso nelle perle della sofferenza, nelle ricche lamentazioni, i cui padri hanno scavato dalla rocce schegge di un dolore che è scoperta, conoscenza. E anche la morte del fanciullo che segue l’ultima lamentazione, attraverso la scoperta dei simboli, non è l’indescrivibile della IV elegia, ma «fonte di gioia», «corrente che è presso gli uomini e trasporta».

I morti non sono dunque infinitamente morti, ma possono far emergere in noi un’immagine, una figura, una similitudo nella stessa regione delle dissomiglianze, che racchiude in sé un nuovo sapere, una nuova conoscenza. Questa immagine mostra «i penduli amenti dei noccioli spogli, / o la pioggia di primavera che cade sulla terra scura».
Che cosa significa questa figura conclusiva che l’angelo non ha potuto suggerire? Che cosa in essa redime dall’escatologia quotidiana, che è polverizzazione, viziata abitudine, maniacale inventario di ciò che ci abbandona e di ciò che resta? La risposta chiude le Elegie duinesi:

Noi che pensiamo alla felicità come ascesa
sperimentiamo l’emozione
che è quasi sgomento
di ciò che è felice nella caducità.

L’indicibile è stato detto. Ciò che era impronunciabile è stato pronunciato dalla parola poetica, che ci ha posti in una dimensione che Rilke ribadisce nella dedica delle Elegie a Hans Carossa:

Anche ciò che è perduto è nostro: e anche ciò che è dimenticato conserva la sua forma nel regno permanente della metamorfosi. Ciò che si è dissolto ci circonda, e di rado noi siamo il centro di uno dei cerchi; essi traggono intorno a noi la figura che salva.

Il mondo che sembrava destinato a raggrinzirsi in un grigiore mortale, in un brivido inarrestabile e terribile, ora si apre di nuovo all’avventura umana: devi «volere la metamorfosi», in quanto «ogni spirito progettante, che foggia ciò che è terreno / ama nello slancio della figura il suo punto di svolta».

Così dice Rilke nei Sonetti a Orfeo che crescono insieme alle ultime elegie, che nascono dallo stesso gesto. E in essi, là dove si canta la voce che si leva anche nel regno delle ombre per offrirsi come forma e luce, riaffiora il volto di Narciso. Un Narciso orfico, e dunque un Narciso che si salva, che rinasce, dopo aver rotto lo stupore e la fissità alla sua immagine, dentro altre immagini.

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Gaynin-specchi

Specchi: non c’è sapere che abbia descritto
ciò che voi siete nella vostra essenza.
Come crivelli di fori fitti
siete voi specchi, intervalli del tempo.

Voi che la sala deserta occupate –,
ampi al crepuscolo come selve…
Il lampadario, splendido cervo,
si aggira oltre la soglia vietata.

Talvolta grandi pitture siete.
Sembrano donne in voi trasfuse –,
altre sdegnosi non accogliete.

Ma la più bella resta, fino al giorno
in cui nelle guance qui trattenute
non penetri il chiaro, dissolto Narciso.

(Rilke, Sonetti a Orfeo)

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Il mistero dello specchio. «Specchi: non c’è sapere che abbia descritto / ciò che voi siete nella vostra essenza» – interstizi nella rete del tempo, fra-tempo: ciò che si insinua nella continuità come apertura vertiginosa, in cui l’altro si mescola al questo, l’oltre al qui.

«Dissipatori», ampi come vaste foreste, come le forre, in cui nascondeva e si perdeva Narciso. Impercorribili. Spazi di luce e di opacità. Pieni talvolta di immagini, che sembrano essere in essi giunte e lì aver trovato luogo, mentre altre, fugaci, sono come respinte da un oscuro timore.
Ma la più bella delle immagini resterà fino al punto «in cui nelle guance qui trattenute / non penetri il chiaro, dissolto Narciso».

(Rella, Metamorfosi)