Di quelle anime che mutano di luogo e di stato, si potrebbe a ragione dire che esse sono anche capaci di memoria, capaci cioè di portare con sé un segno di memoria delle cose accadute e trascorse. Ma in quanto a quelle altre a cui tocca invece restare nel medesimo luogo e stato, di che cosa potrebbero esse custodire un segno, una memoria [se tutto è sempre «uguale», e alla loro «coscienza» non emerge nessuna «differenza»]?
Il discorso riguarda anzitutto la memoria delle stelle e di tutti gli altri [corpi celesti], quella in particolare del Sole e della Luna, per poi giungere a indagare perfino quella dell’Anima dell’universo e la memoria dello stesso Zeus. Facendo questa indagine, andranno poi esaminati anche i loro pensieri e ragionamenti, sempre che ce ne siano.
Se dunque queste anime [fisse nel medesimo luogo e stato] non si pongono né problemi né dubbi – perché di niente mancano o hanno bisogno, e non apprendono niente che non sia già nella loro conoscenza – quali ragionamenti o sillogismi, quali pensieri potrebbero mai essere in loro?
Riguardo alle cose umane, esse non fanno progetti né cercano espedienti con cui governare le cose nostre, o in generale quelle della terra. Tutt’altro è infatti il loro modo di godere del tutto.
Ma come? non si ricorderanno nemmeno che [una volta] videro il dio? [non avranno, cioè, neanche la più pallida «idea» di dio?].
No, perché esse lo vedono sempre. E finché lo vedono non possono in nessun modo dire d’averlo visto: questo è infatti un pathos che può patire solo chi ha cessato di vederlo.
Come? non si ricorderanno nemmeno che ieri o l’anno passato giravano intorno alla terra? nemmeno che ieri vivevano e di quando e dove fu che ebbe inizio la loro vita?
No, perché esse vivono sempre, e il «sempre» è un’unità sempre uguale a se stessa. Parlare di «ieri» o di «un anno fa» a proposito del moto celeste, sarebbe come se uno volesse dividere in molti movimenti il passo d’un solo piede, frazionando questo movimento unico in tanti piccoli passi l’uno dopo l’altro.
Anche quello del cielo è un movimento unico, ma, visto da qui, noi lo misuriamo in una successione di molti giorni intervallati dalle notti. Lassù invece, dove è sempre quell’unico giorno, come potrebbero essercene molti? Sicché non ha senso dire «un anno fa».
Lo spazio percorso non è però lo stesso, ma diverso, e diverso è anche il segno dello Zodiaco. E allora, perché [un pianeta] non potrebbe dire: «Sono uscito da questo segno, e ora mi trovo in quest’altro»? e poi, visto che di lassù osserva le cose degli uomini, come può non vedere i loro mutamenti, e che ora essi sono diversi di prima? E se è così, come farà a non dedurre che anche quelli di prima erano diversi, e diverse erano le loro cose?
Questa, dunque, sarebbe già una memoria.
Solo però che ciò che uno vede o contempla, non finisce necessariamente [per lasciare un segno, una traccia] nella memoria, e nemmeno è necessario che le cose che poi accidentalmente ne conseguono abbiano tutte già un’immagine-ricordo; e se anche alcune di quelle cose di cui più intenso è il pensiero o la conoscenza si manifestassero alla percezione sensibile [materializzandosi in una forma visibile], non è questa comunque una ragione per dismettere la loro vecchia conoscenza a favore di questo o quel particolare sensibile, a meno che uno non tragga un beneficio pratico da qualcuna di quelle cose particolari che sono contenute nella sua [passata] conoscenza indivisa.
Provo a spiegarmi punto per punto in questo modo.
Punto primo: non tutto ciò che si vede, si conserva necessariamente nella memoria. Qualora la cosa percepita non spicchi per una qualche differenza, o la cui differenza non incontri una coscienza a cui manifestarsi, come succede a una percezione inconsciamente agitata da una differenza delle cose viste, in tal caso è solo l’organo della percezione a patirla, mentre l’anima non ha accolto nulla nel suo intimo, poiché di una tale differenza non sa che farsene, né per qualche necessità né per altra utilità. Finché la sua attività è volta a tutt’altre cose, e completamente immersa in esse, l’anima non può affatto serbare memoria di siffatte cose una volta che siano passate, dal momento che ne ha ignorato la percezione quando erano presenti.
Punto secondo: che alle cose che poi accidentalmente ne conseguono non c’è necessariamente un’immagine-ricordo corrispondente, e se anche ci fosse, non sarebbe comunque tale da essere custodita e conservata, che anzi l’impronta [τύπος] di simili cose non comporti nessuna coscienza: tutto questo lo si capirà, se si comprende ciò che si è detto nel modo seguente.
Ecco: come non accade mai che uno, spostandosi da un luogo a un altro, o meglio attraversando un certo luogo, si prefigga di fendere ora questa ora quella zona dell’aria, così egualmente non può neanche accadere che ne conserviamo il ricordo, anzi nemmeno ci facciamo caso, mentre avanziamo.
Se, in un viaggio, non ci fossimo prefissi di percorrere una certa distanza e potessimo fare il tragitto attraverso l’aria, non ci cureremmo di sapere a quale pietra miliare ci troviamo, o quanta strada abbiamo fatta, e se dovessimo muoverci non per un tempo determinato, ma muoverci semplicemente, senza riferire al tempo nessun’altra azione, noi non faremmo posto nella memoria alla successione dei tempi.
È risaputo che, quando si ha una visione completa della cosa da fare e si ha fiducia che essa sarà fatta compiutamente, non si bada più ai singoli particolari; anzi, quando si fa sempre la stessa cosa, è inutile prestare attenzione ai singoli momenti di quella che è sempre la stessa azione.
Se dunque le stelle nella loro corsa si muovono per fare i loro propri movimenti e non con il fine di percorrere una certa distanza, se il loro compito non è né lo spettacolo delle cose a cui sono presenti, né di giungere a una qualche meta, se tale percorso è soltanto accidentale, mentre il loro pensiero è rivolto a cose più grandi (che poi sono quelle stesse che restano sempre immutabili, e attraverso le quali esse vanno errando), e se il tempo non rientra in un computo quantitativo (sempre ammesso che lo si possa frazionare) – allora non è necessario che le stelle abbiamo memoria né dei luoghi per cui transitano né dei tempi di ciascuna percorrenza.
Poiché godono di una vita sempre uguale a se stessa, in quanto il loro spostamento ruota sempre intorno allo stesso centro, così da essere più movimento vitale che spaziale, le stelle fanno parte di un unico vivente che agisce su se stesso e che, mentre è in quiete rispetto a ciò che è al di fuori di esso, è invece in perpetuo movimento in forza della vita che è in esso, e che è eterna.
Il movimento delle stelle, lo si potrebbe paragonare a una danza: se mai si arresta, si dirà che è compiuta se sarà stata eseguita dal principio alla fine, e che viceversa sarà incompiuto ogni singolo movimento in cui la si dividesse; ma se la danza è eterna e non s’arresta mai, essa sarà sempre compiuta. Se è sempre compiuta, non ha bisogno di tempo o di luogo in cui debba essere compiuta; sicché non avrà slanci né assalti di desiderio, e non prenderà le misure né al tempo né allo spazio. E perciò non ne avrà nessun ricordo.
Se ci sono esseri che vivono una vita beata e che con le loro anime contemplano [senza memoria] la Vita, volgendole con sé allo splendore dell’unico Vivente grazie allo splendore che da loro si diffonde in tutto il cielo, bene, questi esseri sono le stelle che, come corde di una lira, vibrando l’una in simpatia con l’altra, cantano un canto in armonia naturale.
Se tale è il movimento di tutto il cielo e delle sue singole parti, se quello si volge da sé su se stesso mentre queste, sia pure per vie diverse (dato che ciascuna ha la sua posizione), si muovono nella sua stessa direzione, allora a maggior ragione è corretta la nostra asserzione a proposito di una Vita che è la sola e la stessa a cui si volgono tutte le anime.
(Plotino, Enneadi, 4: 4.6-8)
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Sebbene si muovano, le stelle sono «immobili»: il loro, dice Plotino, è un movimento «vitale» più che «spaziale», un movimento orientato sempre allo stesso «centro», volto sempre alla Vita, sempre a quel solo e unico Vivente che è l’Eterno Presente.
Sebbene mutino perennemente tempi e luoghi dei loro movimenti, le stelle sono dunque sempre nel medesimo «stato psicologico»: non cessano un solo istante di fissare lo sguardo nel loro dio, lo vedono di un vedere senza alcuna soluzione di continuità e… proprio perciò di questa loro visione non serbano alcun ricordo – essendo, la memoria, nient’altro che la nostalgia di ciò che più non è presente alla vista e agli organi di senso. Le stelle non si distraggono né deviano mai dalla Presenza Vivente. Le stelle non si assentano un solo istante alla Vita.
Solo chi patisce un’assenza, ricorda. L’assenza patita gli rilascia un «segno» (μνήμη), una traccia, un indice del suo passaggio. Solo chi è «disorientato», chi più non è orientato a quel solo e unico Oriente che è la Vita, il Presente Eterno, il Presente che non passa [da uno «stato psicologico» a un altro], solo costui ha bisogno di passare per la mediazione del Segno per rimanere aggrappato a una forma di «coscienza».
Se noi ricordiamo, dunque, è perché non siamo né stelle né pianeti né dèi. È perché siamo attratti nell’orbita di «differenze» a cui essi invece restano eternamente «indifferenti». Stelle, pianeti e dèi non perdono mai di vista l’Uguale, l’«autistico» Stesso sempre Presente. Le nostre anime invece si disperdono, si disseminano, ora in questa ora in quell’altra «contingenza», e così il loro «stato psicologico» si mette al rimorchio dei «segni» di memoria, anziché vivere direttamente e immediatamente la Vita.
Ogni segno «contingente» è l’indice di una «differenza», di una delle infinite «differenze» in cui l’Uguale eternamente, instancabilmente, ininterrottamente «differenzia» la Vita. È sempre lo stesso Presente che vive, ma il Segno deve metterlo al Passato, inscriverlo tra le assenze e le mancanze, e colorarlo di nostalgia, per fare di se stesso, oltre che un indice, anche l’«espressione» di un «voler dire» che dica: «eccomi! sono presente», anche se non più di quel Presente là, di cui godono soltanto gli Immutabili, gli Autistici, gli Astri e gli Angeli – tutti quelli cioè che mai distolgono l’attenzione dal «dio vivente», mai che si lasciano incantare da altro che non sia quel Presente Universale: la Vita.
Già, la Vita. Ma cosa dobbiamo intendere per Vita? Cosa «vuol dire» questo segno, dal momento che anche la Vita è un nome, un segno, una parola? Cosa vuol significare, se come tutti i segni è anch’esso necessariamente in ritardo su ciò che «significa»? Cosa può mai voler indicare, se non quell’«aldilà» presignificante che per costituzione gli è interdetto? Cosa vuole, e cosa può, evocare dal fondo della memoria, se non la nostalgia dell’Immemorabile? Cosa, se non l’«idealità» presente sul fondo di tutte le «idee», e che è ripetuta all’infinito per quali e quante «differenze» passano sotto questo nostro cielo?
Tutto passa, si sposta, muta d’aspetto e divaga alla mercé di sempre nuove «differenze», e tuttavia non c’è una sola «differenza» che non debba passare per la Presenza all’«idealità», per giungere alla coscienza. La Vita, il segno «vita» (ζωή, e non βίος), forse, non allude che all’eterna possibilità che ha lo Stesso, la sua possibilità istante per istante, e per ciascuna anima, di «fare la differenza», ancora un’altra, sempre una nuova «differenza», la possibilità dunque di ripetere all’infinito la propria ideale «identità» dentro tutte le «contingenze».
Quale che sia la «differenza» con cui ciascuno di noi lo vive, non c’è che un solo e identico Presente: «La forma ultima dell’idealità, quella nella quale in ultima istanza si può anticipare o richiamare ogni ripetizione, l’idealità dell’idealità è il presente vivente, la presenza a sé della vita trascendentale. La presenza è sempre stata e sarà sempre, all’infinito, la forma nella quale si produrrà la diversità infinita dei contenuti» (Derrida, La voce e il fenomeno).
Quel che Plotino intende per Vita, e quello che intendono i filosofi che hanno a lungo meditato su queste pagine delle Enneadi (Husserl, Bergson, Derrida, solo per citarne alcuni dei più recenti), rimane in ogni caso un enigma.
L’«intelligenza» che attribuiscono a questa Vita, al di là delle «differenze» di ciascuno di loro, non può voler dire null’altro che la possibilità del Presente di «ideare» (rivivere e risentire idealmente) la propria presenza a se stesso nel Presente Vivente, anche se attualmente, a differenza delle stelle e degli angeli, noi lo viviamo «ritardato» nei Segni di riconoscimento mnemonico.
La Vita vive di nostalgia – quando «vive» nei Segni.
Il suo Presente «reale», è il Passato di tutte le Significazioni possibili. È il Passato del linguaggio. Perciò la domanda «filosofica» è: questi due tempi, quand’è, dov’è, e com’è che si «confondono», se mai lo fanno? o son essi destinati, almeno per le nostre anime decadute dal rango celeste, a correre al più «paralleli», a «coesistere» senza però mai «toccarsi», magari a rincorrersi senza però mai raggiungersi… fatta eccezione per quelle intuizioni, o meglio per quelle stravaganze deliranti che spingono, a volte, il linguaggio a parlare, a «voler dire» e a «significare» nientemeno contro i suoi stessi Segni?
Solo il linguaggio può infatti poter «dire» del suo Passato prelinguistico. Solo esso ha memoria, anzi è la memoria di questo Passato. Ma mentre lo ricorda e lo dice, il linguaggio confessa così di non poterne dire niente, perché esso l’ha in illo tempore già sconfessato, già annientato.
Ha sconfessato la Vita «reale», per prestarsi alla Vita «simbolica» e alle sue infinite messinscene – alle ripetizioni di quel «niente» che è, insieme, il suo rimosso e il suo indicibile «fondamento». Perché il linguaggio è il medium di ogni nostro gioco «temporale», di ogni nostalgico andirivieni tra assenza e presenza.
Bisognerebbe però distinguere il linguaggio dei Segni, il linguaggio della Significazione, del Senso e dell’Ordine Simbolico, dalla sua stessa «materia prima» – la phoné, la Voce presignificante, il «balbettio» senza memoria, senza segni, senza nomi e senza parole. Nella Voce la Vita è presente a se stessa, e finché il Linguaggio è ridondanza della Voce Presente, finché non ha «niente da dire», niente di significativo, non ha neanche niente di passato.
Le parole, i nomi, i segni passano, ma «le stelle del linguaggio» godono di vita eterna, e diffondono il loro immemorabile splendore in ogni idioma per richiamarlo alle sue origini presignificanti – per animarlo di quel movimento che è orientato sempre allo stesso «centro», volto sempre alla Vita, sempre a quel solo e unico Vivente che è l’Eterno Presente.
Le stelle sono il Trascendentale del linguaggio. Viste da qui, ridotte pur esse a nomi e parole, transitano da un segno all’altro dello «zodiaco». Ma là dove esse brillano, in quello «spazio» non fisico che è la Presenza a sé della Vita senza memorie e senza progetti, in quel reame dell’Intelligenza indifferente a ogni mutamento «psicologico», esse sono «immobili» di fronte al loro centro di gravità, che è la Presenza immediata a se stessa della Vita.
Tutti i «vissuti» hanno goduto, almeno una volta, di questa Presenza. Anche se di questo «godimento» non restano loro che dei Segni, anche se i Segni non possono significare che un Presente simbolico, rimane il fatto che, almeno una volta, essi hanno «vissuto» quel nulla trascendentale senza il quale nessun mondo potrebbe divenire «nostalgico» di sé a tal punto da «ideare» un Passato.